Aboubakar Soumahoro (Ansa)
Il sindacalista nero, caduto in disgrazia dopo lo scandalo che ha coinvolto moglie e suocera, lancia l’amo. «Pronto a candidarmi sotto al tricolore». Poi corregge il tiro: «Non mi riferivo a una qualche parte politica».
«Se le formiche si mettono d’accordo possono spostare un elefante». Oggi Aboubakar Soumahoro non può più scandire il suo proverbio africano preferito perché l’elefante nella stanza è lui. Così consapevole del riflusso progressista (via dal woke, dall’ultraeuropeismo, dal turbo green, dal terzomondismo di piazza) da avere deciso, nei lunghi mesi passati sui banchi del gruppo misto alla Camera, una strategia non nuova ma sempre efficace nella politica italiana: il salto della quaglia. Un ipotetico sbarco nel centrodestra con tutti gli stivali. Lo sussurra al Foglio: «Sono pronto a candidarmi con una dimensione di forze che portano in seno il tricolore. Non ragiono con le lenti del Novecento, faccia un check nei simboli dei partiti». Poi verso sera precisa: «Il riferimento al tricolore, presente nei partiti sia di destra sia di sinistra, non deve essere interpretato come simbolo di una parte politica».
Il sindacalista di origine ivoriana che tre anni fa era il simbolo principale della sinistra radical alla ricerca di idoli da sbandierare in faccia a Giorgia Meloni, allarga l’orizzonte e vede una nuova sponda. Non è piroetta da poco. Era perfetto, con le galosce infangate simboleggianti la fatica dei braccianti e con la prosopopea del papa nero. E davanti a lui si genuflettevano in adorazione i suoi idoli televisivi: Fabio Fazio, Pif, Diego Bianchi detto Zoro, Roberto Saviano, Lilli Gruber, Laura Boldrini. Tutto il cucuzzaro travolto dal Bernie Sanders senza muffole. La coppia Bonelli&Fratoianni l’aveva portato a spalla in Parlamento, poi un giorno tutto finì e il gotha radical a 50 pollici si scordò di lui.
Accade quando tu sei il testimonial delle sofferenze dei migranti e la famiglia (moglie e suocera) deve giustificare davanti a un magistrato di Latina le irregolarità di numerosi centri accoglienza, con 400.000 euro di stipendi non pagati, compensi in ritardo di quasi due anni, lavoratori in nero, condizioni sanitarie descritte «sotto la soglia minima della tollerabilità». Dov’era Soumahoro mentre le parenti aprivano un resort in Ruanda, distribuivano dividendi per 240.000 euro a se stesse e si facevano fotografare su Instagram in pose da Chiare Ferragni subsahariane? Era in Tv a difendere i poveri a Propaganda Live. Parabola chiusa, sinistra in imbarazzo, dimissioni spontanee da Avs con finale deprimente, sintetizzato nella frase: «Ritengo che il diritto all’eleganza e alla moda sia una libertà».
Poteva chiuderla lì, farsi dimenticare nel flusso liquido dei social. Invece Soumahoro deve avere colto un dettaglio: gli manca un lavoro, gli manca un futuro. Poiché per la sinistra è bruciato, perché non diventare l’emblema pur trasversale del Piano Mattei? Lo ribadisce convinto: «Gli ultimi anni sono stati una rinascita, la vita stessa è una rinascita continua». Trascorrerà il Capodanno a Dakar, spiega di avere organizzato il viaggio che comprende Senegal, Costa d’Avorio e Guinea «perché da anni svolgo un lavoro di analisi sul continente africano, e leggendo i dati mi accorgo che l’analisi non basta. Bisogna creare rapporti di interscambio commerciale tra il nostro Paese e il Continente».
Snocciola cifre da lettura dell’Internazionale, lascia intuire che il cuore di tenebra per lui non ha segreti. Ma è sicuro che un angelo caduto della sinistra gruppettara possa diventare una risorsa perfino per la destra? Al Foglio risponde manco fosse Ernesto Maria Ruffini in missione Grande Centro: «Il tricolore rappresenta l’unità nazionale, l’identità condivisa». Un mattarelliano in purezza. Anzi di più: «Sono un pragmatico, guarderò il progetto. Un secolo fa si parlava di catena di montaggio e proletariato. Ma oggi sotto l’ombrello degli operai ci sono imprenditori e partite Iva. Non è blasfemia. È la realtà dei fatti, io sono un uomo libero». E tu ti accorgi che ha sostituito il diritto all’eleganza con il diritto allo stipendio.
È pronto a candidarsi eventualmente anche a destra, ma è improbabile che qualcuno lo voglia. Anche perché ha trascorso la sua età dell’oro in Tv ad accusare Giorgia Meloni e Matteo Salvini di «crudeltà morale». Non c’è bisogno di disturbare Google AI per ricordare l’intimazione alla premier il primo giorno di legislatura: «Mi dia del lei! E visto che sono laureato mi chiami dottore». Immaginava la Lega Braccianti al posto della Lega e diceva: «Se fossi il Salvini nero la pacchia sarebbe finita, ma per i lumbard». Saliva sui barconi e gridava facendo eccitare Corrado Formigli: «Il governo è disumano, questa è la peggiore destraaa di sempreee». Stai a vedere che ora gli serve. Si è inventato il reddito di esistenza, si è integrato benissimo nella casta mediatica che lo invitava per vederlo sparare con il bazooka sulla maggioranza. La stessa alla quale potrebbe chiedere il voto solo perché «non ho più le lenti del Novecento».
Via gli stivali, è tempo di Church. Si avvolgeva nella bandiera rossa della Cgil e adesso cerca un partito, uno qualsiasi, basta che abbia il tricolore nel simbolo. C’è qualcosa di pedagogico e tristemente umoristico nella parabola di Soumahoro, che per giustificare la villetta, le borse Vuitton e i foulard di Hermès della moglie spiegava, pensando di fare fessi tutti: «Sono riuscito a comprare la casa scrivendo un libro». Gli stessi allocchi che avrebbero mandato a Bruxelles Ilaria Salis ci credevano e si scioglievano. Woody Allen avrebbe aggiunto: «Era la Bibbia».
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Ansa
La grazia del Colle al corresponsabile della strage di Ferragosto asseconda il refrain di moda: «Guidi un barcone: che male c’è?».
«Il suo sogno era di arrivare in Europa», è partito «dalla Libia in guerra per rincorrere il suo sogno», aveva «il sogno di arrivare in un Paese in pace e democratico». L’articolo del Corriere della Sera sulla storia di Alaa Faraj Abdelkarim Hamad sembra Il favoloso mondo di Amélie: è tutto un sogno. Nel 2017, il giovane libico fu identificato dalla giustizia italiana come uno dei cinque scafisti di un barcone che, nella notte di Ferragosto di dieci anni fa, venne trovato con dentro i corpi di 49 persone, morte asfissiate durante il viaggio. Malgrado le testimonianze che ne facevano uno degli organizzatori della traversata criminale, e malgrado le condanne, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha graziato, anche sull’onda di una campagna mediatica con pochi precedenti: dal programma di Rai3, Il fattore umano, a una sua raccolta di lettere pubblicata da Sellerio con il titolo Perché ero ragazzo. Come siano davvero andate le cose su quel barcone lo sanno solo i superstiti, ma in fondo, per il gigantesco dispositivo giustificazionista che si è messo in moto, la cosa è secondaria. Scafista, non scafista: fa davvero tutta questa differenza? In fondo gli scafisti non sono essi stessi dei poveri cristi travolti da un insolito destino? È questo l’obbiettivo finale di una campagna in corso da tempo: togliere allo scafista ogni stigma criminale, farne una vittima o, perché no, magari un eroe.
Un salto logico e concettuale già allegramente compiuto, qualche settimana fa, da Ilaria Salis, che al Parlamento europeo ha definito gli scafisti come coloro che «organizzano l’attraversamento di un confine chiuso per persone che hanno scelto volontariamente di partire e pagano per il servizio. Un servizio basato sul consenso e che non avrebbe motivo di esistere se ci fossero vie legali e sicure per la migrazione». Un vero e proprio elogio dello scafista, nobilitato da traballanti paralleli storici, in riferimento a quei «pescatori e montanari» che durante la seconda guerra mondiale «organizzarono reti clandestine per facilitare la fuga in Francia degli ebrei attraverso un confine chiuso e militarizzato. Compievano un’azione illegale, ma eticamente giusta. Di norma, come riportano le fonti storiche, si facevano pagare per il servizio offerto».
Vogliamo dire «scafista eroe»? Chi non ha problemi a dirlo è Stella Arena, avvocato del foro di Nola, che in un colloquio con «L’equipaggio della Tanimar» (ovvero «un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma» che nel 2024 ha svolto una crociera «nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo») sul sito meltingpot.org ha dichiarato: «L’autore del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina viene apostrofato in molti modi. “Scafista” perché guida materialmente lo scafo. Potremmo tradurre letteralmente dal Protocollo di Palermo il termine smuggler, contrabbandiere. Possiamo chiamarlo “capitano”, come ultimamente viene apostrofato dopo il film di Garrone perché, inconsapevolmente o meno, si trova a guidare un’imbarcazione. A me piace chiamarlo, “eroe criminale”, che è un termine coniato dal professore della Federico II Pasquale Palmieri, in un saggio». Eroe criminale: un po’ come ladro gentiluomo, insomma.
Questa ardita giravolta linguistica non nasce ora. Lo Scafisti official fan club diede il meglio di sé, in particolare, due anni fa, quando la Meloni annunciò di aver reso il traffico di esseri umani reato universale. Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, si indignò: «Poi un giorno qualcuno spieghi a Meloni, Salvini e a chi li vota che la gente non parte per colpa degli scafisti, ma perché noi siamo ricchissimi e loro poverissimi, perché gli abbiamo rubato tutto e portato la guerra in casa, in tutto il globo terracqueo». Stefano Cappellini di Repubblica rilanciò: «L’espressione “trafficanti di esseri umani” è di per sé un’invenzione narrativa della destra, un’arma di distrazione: i migranti non si fanno “trafficare” dagli scafisti, vogliono un futuro per sé e i loro figli e usano i mezzi che restano quando ogni porta è chiusa». Eleonora Camilli, giornalista per Redattore sociale, puntualizzava: «Meloni usa “scafisti” e “trafficanti” come sinonimi. Per “scafista” si intende chi è alla guida dell’imbarcazione. Il “trafficante” è chi organizza i viaggi all’interno di una rete internazionale e difficilmente si imbarca per un viaggio di morte. Ma la confusione non è casuale». La scrittrice Ginevra Bompiani aggiungeva, a Zonabianca: «I trafficanti non sono gli scafisti. Gli scafisti sono dei disgraziati, saranno anche antipaticissimi, ma sono dei disgraziati che vengono buttati, messi nelle navi dove corrono gli stessi pericoli…».
Un report del 2021 di Arci Porco Rosso, Borderline Sicilia e Borderline Europe, faceva poi il salto definitivo. Dopo aver distinto cinque fattispecie (il «migrante-capitano forzato», il «migrante-capitano di necessità», il «migrante-capitano retribuito», il «capitano dell’organizzazione» e poi i vari «casi «misti»») il documento delle Ong tesseva l’elogio di tutte queste figure: «Attraversare la frontiera, oppure aiutare qualcuno a farlo, non dovrebbe essere di per sé un reato». E ancora: «La nostra ferma convinzione è che l’atto di guidare una barca e di trasportare migranti non dovrebbe essere di per sé un crimine. Le ragioni dietro la decisione di qualcuno di guidare una barca - che sia per il proprio progetto migratorio, o sotto minaccia di violenza, o per incentivi monetari - non modifica questa posizione». Ma quali eroi criminali: eroi e basta, a questo punto.
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2025-12-24
Tivù Verità | Regalo di Natale dei giudici alla famiglia nel bosco: una perizia psichiatrica
La famiglia nel bosco non torna a casa per Natale e dovrà sottoporsi a una perizia psichiatrica: il tribunale decide di completare la rieducazione dei genitori. Ne parliamo con Luca Telese e Red Ronnie.
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2025-12-24
Accordo Usa-Russia rinviato. L’Ucraina al buio dopo i raid arretra ancora nel Donetsk
Ansa
- Rappresaglia dello zar con droni e missili, conquistata Siversk. Negoziati tra Casa Bianca e Cremlino in sospeso. Mosca: «Questioni irrisolte, se ne parla in primavera».
- Helsinki annuncia l’innalzamento del limite d’età per i riservisti da 60 a 65 anni. La riforma, in vigore dal 2026, punta a portare i coscritti a un milione entro il 2031.
Lo speciale contiene due articoli
A ridosso delle feste di Natale, sull’Ucraina è piombata la rappresaglia della Russia con oltre 30 missili e 650 droni. L’allerta era già massima: il presidente russo, Vladimir Putin, aveva negato la possibilità di un cessate il fuoco per le festività e la scorsa settimana aveva promesso una risposta russa agli attacchi ucraini alle petroliere nel Mar Nero. Dopo i bombardamenti, il ministero della Difesa russo, nel rivendicare i raid, ha affermato che sono stati condotti «in risposta agli attacchi terroristici dell’Ucraina contro obiettivi civili in Russia».
Il primo ad aspettarsi la risposta russa è stato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Qualche ora prima degli attacchi, il leader di Kiev ha dichiarato: «È nella natura» di Mosca «sferrare un attacco massiccio al nostro Natale», che da due anni viene celebrato il 25 dicembre anziché il 7 gennaio. E ha aggiunto: «Stiamo approfondendo nuovamente la questione della difesa aerea e della protezione delle nostre comunità». Di conseguenza, lunedì sera, su Telegram, Zelensky ha condiviso le sue indicazioni: «I militari devono prestare attenzione direttamente e proteggere al meglio delle loro possibilità. Non è facile, perché purtroppo c’è carenza di equipaggiamento per la difesa aerea. E la gente deve prestare attenzione in questi giorni perché questi “compagni” possono colpire: niente è sacro».
Nelle prime ore di ieri, l’allarme aereo è scattato su tutto il territorio ucraino, con gli attacchi che sono stati segnalati a Kiev e in altre 13 regioni. E dato che la parte occidentale dell’Ucraina è stata presa particolarmente di mira, anche i caccia della Polonia sono decollati al fine di proteggere lo spazio aereo e «lo stato di prontezza» è stato raggiunto «dai sistemi di difesa aerea terrestri» e «dai sistemi di ricognizione radar» polacchi. Zelensky su X ha subito scritto: «Putin non riesce ancora ad accettare di dover smettere di uccidere» e «questo significa che il mondo non sta facendo pressioni a sufficienza» su Mosca. Il leader di Kiev ha anche sottolineato che si tratta di un massiccio attacco «alla nostra energia, alle infrastrutture civili, praticamente a tutta l’infrastruttura della vita». Si contano almeno tre morti nelle regioni di Kiev, Khmelnytskyi e Kharkiv, tra cui un bambino di quattro anni, e oltre dieci feriti. E ancora una volta, i cittadini ucraini sono rimasti senza corrente, soprattutto nelle regioni di Rivne, Ternopil e Khmelnytskyi. A Odessa, la prima a essere colpita, sono stati danneggiati più di 120 edifici e a riportare danni sono anche le infrastrutture energetiche e portuali.
Anche sul campo Mosca continua ad avanzare: il ministero della Difesa russo ha annunciato che è stato conquistato il villaggio di Andreevka, situato nella regione di Dnipropetrovsk. Ma non solo. Nella regione di Donetsk, a Siversk, le truppe ucraine si sono ritirate. A renderlo noto è stato lo Stato maggiore delle forze armate di Kiev su Telegram: «Per preservare la vita dei nostri soldati e la capacità di combattimento delle unità, i difensori ucraini si sono ritirati dall’insediamento».
E se i bombardamenti procedono a tappeto, le trattative di pace proseguono senza accelerazioni. Che l’esito positivo non sia dietro l’angolo è evidente dalle parole del portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: «Non possono essere considerati una svolta» i negoziati tra la delegazione russa e quella americana a Miami, ma si tratta di un «work in progress». Al quotidiano Izvestia, Peskov ha precisato che «la cosa principale era ricevere informazioni dagli americani sul lavoro preparatorio svolto con gli europei e gli ucraini e, in base a ciò, capire in che misura questo lavoro preparatorio corrisponda allo spirito di Anchorage». Peraltro, che l’orizzonte della fine della guerra non sia così vicino sembra emergere anche dalle dichiarazioni del viceministro Esteri russo, Sergej Ryabkov. Parlando delle relazioni bilaterali tra Mosca e Washington, ha reso noto che pur avendo affrontato «nel ciclo di contatti» gli aspetti «irritanti» che ostacolano la normalizzazione dei rapporti, «non sono stati compiuti progressi significativi» visto che «le questioni principali restano irrisolte». E ha annunciato che «il prossimo round» in tal senso potrebbe svolgersi «all’inizio della primavera».
A non essersi sbilanciato sui negoziati per la pace è il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump: «I colloqui su Ucraina e Russia stanno procedendo bene» ha fatto sapere da Mar-a-Lago, ribadendo che «c’è un odio enorme tra questi due leader, tra il presidente Putin e il presidente Zelensky».
Il leader di Kiev è stato intanto informato dai negoziatori Rustem Umerov e Andrii Hnatov sull’esito dei colloqui tra la delegazione ucraina e quella americana dello scorso weekend. A tal proposito, ha dichiarato: «Abbiamo lavorato in modo produttivo con i rappresentanti del presidente Trump e ora sono state preparate bozze di diversi documenti. In particolare, ci sono documenti riguardanti le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, il ripristino e la struttura di base per porre fine a questa guerra». E attende «con impazienza di proseguire il dialogo con gli Stati Uniti». Nel tentativo di aumentare la pressione sulla Russia, si è poi sentito telefonicamente con il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. I due hanno discusso «dell’importanza di sostenere la resilienza dell’Ucraina e di rafforzare le nostre posizioni al tavolo dei negoziati».
La Finlandia arruola i pensionati
La Finlandia si prepara a innalzare il limite massimo di età dei riservisti fino a 65 anni, rafforzando in modo significativo il proprio sistema di difesa territoriale. La riforma, firmata dal presidente della Repubblica e destinata a entrare in vigore dal 1° gennaio 2026, estenderà l’obbligo di permanenza nella riserva militare per decine di migliaia di cittadini, in un Paese che considera la difesa nazionale un pilastro costituzionale. La Costituzione finlandese, infatti, stabilisce che ogni cittadino ha il dovere di partecipare alla difesa dello Stato, nei tempi e nei modi stabiliti da una legge ordinaria che disciplina la coscrizione. Fino a oggi, il sistema prevedeva che gli uomini fossero chiamati al servizio militare obbligatorio a partire dai 18 anni, con una durata variabile dai sei ai 12 mesi, al termine dei quali entravano nella riserva.
Il limite massimo di età era fissato a 50 anni per la truppa e a 60 anni per sottufficiali e ufficiali. Con la nuova normativa, invece, tutti i riservisti resteranno mobilitabili fino al compimento dei 65 anni, uniformando il sistema e prolungando di 5 o 15 anni - a seconda del grado - la permanenza in riserva. Secondo le stime del ministero della Difesa, questa misura consentirà di aumentare la riserva di circa 125.000 unità nei prossimi anni, portandola progressivamente verso la quota di un milione di cittadini mobilitabili entro il 2031. Un bacino di forza significativo, che si aggiunge a una forza armata permanente relativamente ridotta ma altamente addestrata, pensata per reagire rapidamente in caso di crisi. Il ministro della Difesa Antti Häkkänen ha spiegato che l’innalzamento del limite di età risponde al mutato contesto di sicurezza regionale: «Il rafforzamento della riserva aumenta la capacità di difesa della Finlandia in modo rapido ed efficace», ha dichiarato, sottolineando come l’esperienza e le competenze dei riservisti più anziani rappresentino una risorsa preziosa. Häkkänen ha inoltre precisato che la riforma non implica una mobilitazione automatica, ma amplia il bacino di personale che potrebbe essere richiamato in caso di necessità.
La riforma va letta nel quadro del profondo mutamento strategico vissuto dalla Finlandia, che nel 2023 ha abbandonato la sua tradizionale neutralità per aderire alla Nato: una scelta chiaramente dettata da una possibile minaccia militare russa. In questo contesto, l’ampliamento della riserva rappresenta uno degli strumenti principali di deterrenza, fondato sulla capacità di mobilitare rapidamente l’intera società in caso di crisi. La leva obbligatoria, infatti, continua a godere di un consenso molto elevato: secondo sondaggi recenti dell’Advisory board for defence information, oltre l’80% dei finlandesi si dichiara favorevole al mantenimento del sistema di coscrizione come irrinunciabile pilastro della difesa nazionale. Un dato che contribuisce a spiegare perché l’innalzamento del limite di età dei riservisti venga presentato da Helsinki non come una misura eccezionale, ma come un adeguamento strutturale a un contesto di sicurezza europea profondamente cambiato.
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