2025-05-31
The Donald all’assalto del Dragone: «Sui dazi ha violato i nostri accordi»
Il presidente Usa richiama Pechino all’intesa che sanciva 90 giorni di tregua. E Scott Bessent ammette: «Rapporti in stallo». La replica cinese: «L’America corregga la sua condotta». Washington cerca la sponda indiana.Il numero uno di Volkswagen, Oliver Blume, apre alla Casa Bianca: «Pronti a investire negli Stati Uniti, in cambio di condizioni migliori». Una strategia per strappare tariffe più basse del 25%.Lo speciale contiene due articoliÈ tornata a salire la tensione tariffaria tra Stati Uniti e Cina. Ieri Donald Trump ha accusato Pechino di aver «totalmente violato» l’accordo commerciale preliminare che aveva stretto con Washington lo scorso 12 maggio a Ginevra: un accordo sulla cui base i due Paesi avevano stabilito di ridurre sensibilmente i dazi reciproci per 90 giorni con l’obiettivo di intavolare dei negoziati commerciali. «Due settimane fa la Cina era in grave pericolo economico! I dazi doganali elevatissimi che ho imposto hanno reso praticamente impossibile per la Cina fare commercio con il mercato statunitense, che è di gran lunga il numero uno al mondo. Abbiamo, di fatto, chiuso i battenti con la Cina, ed è stato devastante per loro», ha dichiarato il presidente americano su Truth, per poi aggiungere: «Ho visto cosa stava succedendo e non mi è piaciuto, per loro, non per noi. Ho concluso un accordo rapido con la Cina per salvarli da quella che pensavo sarebbe stata una situazione molto brutta, e non volevo che accadesse. Grazie a questo accordo, tutto si è stabilizzato rapidamente e la Cina è tornata alla normalità». «La cattiva notizia», ha concluso, «è che la Cina, forse non sorprendentemente per alcuni, ha totalmente violato il suo accordo con noi».Più o meno negli stessi minuti in cui Trump pubblicava il post, il rappresentante commerciale degli Stati Uniti, Jamieson Greer, sosteneva che, pur avendo ridotto i dazi, la Cina non avrebbe revocato lo stop all’export delle terre rare. «Non abbiamo assistito al flusso di alcuni di quei minerali essenziali come avrebbe dovuto avvenire. La Cina continua, sapete, a rallentare e a soffocare cose come i minerali essenziali e i magneti di terre rare», ha dichiarato. Dal canto suo, il vicecapo dello staff della Casa Bianca, Stephen Miller, ha rincarato la dose, affermando che Pechino «non ha rispettato gli obblighi assunti nei confronti degli Stati Uniti». Inoltre, già l’altro ieri, il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, aveva ammesso che i colloqui commerciali con la Repubblica popolare erano «un po’ in stallo». Come che sia, poche ore dopo il post di Trump, l’ambasciata cinese a Washington ha replicato, dichiarando: «Recentemente, la Cina ha ripetutamente sollevato preoccupazioni con gli Stati Uniti in merito all’abuso delle misure di controllo delle esportazioni nel settore dei semiconduttori e ad altre pratiche correlate». «La Cina esorta ancora una volta gli Stati Uniti a correggere immediatamente le proprie azioni errate, a cessare le restrizioni discriminatorie nei suoi confronti e a rispettare congiuntamente il consenso raggiunto durante i colloqui ad alto livello di Ginevra», ha aggiunto. Successivamente, intervenendo dalla Casa Bianca, Trump ha ribadito che Pechino avrebbe «violato una gran parte dell’accordo», pur dicendosi pronto a parlare con Xi Jinping per cercare di risolvere la questione. Insomma, le fibrillazioni tra Stati Uniti e Cina sono tornate a salire. Se Washington accusa Pechino per le restrizioni all’export di terre rare, Pechino accusa Washington per quelle all’export tecnologico. In tutto questo, ieri Wall Street ha aperto in ribasso. Nel frattempo, l’amministrazione americana sta cercando di concludere un accordo commerciale provvisorio con l’India: una mossa da leggersi in chiave principalmente anticinese. Secondo il Times of India, l’intesa tra Washington e Nuova Delhi potrebbe essere conclusa entro il 25 giugno. Era invece mercoledì scorso, quando il Financial Times aveva riportato che il Dipartimento del commercio Usa avrebbe intimato ai produttori statunitensi di software per chip di cessare le vendite alla Repubblica popolare. Inoltre, proprio ieri, Bloomberg News ha riferito che l’amministrazione statunitense sarebbe intenzionata ad «ampliare le restrizioni al settore tecnologico cinese», estendendo le sanzioni alle filiali di aziende già sanzionate. Il rinnovato braccio di ferro con Pechino avviene nel mezzo del contenzioso legale che Trump sta portando avanti sui dazi in patria. Come noto, la Corte per il commercio internazionale degli Stati Uniti aveva stabilito che il presidente americano non avesse l’autorità di imporre tariffe, invocando l’International emergency economic powers act (Ieepa) e bypassando così il Congresso. Tuttavia, una Corte d’appello federale ha temporaneamente bloccato l’ordinanza in attesa che i giudici esaminino la documentazione relativa all’istanza. Lo Ieepa è una legge del 1977, che consente al presidente di regolare il commercio in seguito alla sua proclamazione di un’emergenza nazionale. Ed è su questo punto che si giocherà il prosieguo di una battaglia legale che, molto probabilmente, arriverà fino alla Corte Suprema. Secondo la Casa Bianca, gli squilibri commerciali costituiscono un’emergenza nazionale e non dovrebbero essere i giudici a stabilire che cosa sia o non sia un’emergenza. Ricordiamo anche che il contenzioso in esame non riguarda tutte le tariffe imposte finora da Trump: quelle su acciaio, alluminio e automobili ne restano infatti fuori, in quanto decretate sulla base di altre normative. Il problema, per la Casa Bianca, è che questa spada di Damocle legale su una parte importante dei dazi rischia di indebolire la sua posizione negoziale nelle trattative con gli interlocutori commerciali, a partire proprio da Pechino. Forse non a caso, alcuni funzionari dell’amministrazione americana hanno fatto sapere di essere intenzionati a invocare altre leggi, nel caso la strada legata allo Ieepa dovesse risultare bloccata. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/scontro-usa-cina-dazi-2672239733.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-volkswagen-asseconda-il-tycoon" data-post-id="2672239733" data-published-at="1748681853" data-use-pagination="False"> E Volkswagen asseconda il tycoon Al di là delle polemiche e della dura battaglia legale intentata dalla Corte internazionale del commercio, qualche risultato il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, con la politica dei dazi lo sta portando a casa. Da quando si è insediato e ha avviato la guerra commerciale con l’intento di riallocare negli Stati Uniti le produzioni strategiche, ha ottenuto impegni di investimenti e progetti esecutivi per oltre 1.000 miliardi di dollari. L’ultimo interesse, in ordine di tempo, è venuto ieri dal gruppo Volkswagen. L’amministratore delegato, Oliver Blume, parlando alla Süddeutsche Zeitung, ha detto che, in cambio di un accordo nella disputa sui dazi, è disposto a «continuare a investire negli Usa». Attualmente Volkswagen impiega negli Stati Uniti oltre 20.000 persone direttamente e più di 55.000 indirettamente; vengono prodotti automobili, scuolabus e camion, e c’è anche una partnership con la startup Rivian per sviluppare veicoli elettrici. Un progetto da 5,8 miliardi di dollari che ha rappresentato una boccata d’ossigeno per l’azienda americana da tempo in difficoltà economiche e che vorrebbe aumentare la produzione nel suo impianto di Normal (Illinois). Tra gli impegni di Volkswagen negli Stati Uniti c’è poi l’espansione dello stabilimento in Tennessee, che è il fulcro della produzione della casa tedesca oltreoceano. Il gruppo ha avviato la costruzione di uno stabilimento nella Carolina del Sud, per la produzione di Suv e pickup elettrici a marchio Scout, che dovrebbe iniziare entro la fine del 2026 con una capacità annua di 200.000 veicoli. Questo impianto è strategico per la presenza di Volkswagen nel mercato nordamericano e per la sua spinta verso l’elettrificazione. Infine sta considerando di produrre alcuni modelli Audi e Porsche direttamente in loco. «Con ulteriore investimenti massicci, costruiremmo su queste basi. Tutto ciò dovrebbe avere un peso nelle decisioni», ha sottolineato Blume , che ha precisato di essere stato «personalmente a Washington» e di «essere in contatto» con il segretario al Commercio, Howard Lutnick. «Deve valere il principio che chi investe in un Paese debba beneficiare di condizioni quadro migliori». L’agenzia Reuters fa sapere che le trattative si concentrano sulla possibilità di ridurre del 25% i dazi introdotti all’inizio di quest’anno in cambio dell’impegno della casa automobilistica tedesca a investire ulteriormente negli Usa. Sempre secondo Reuters, anche Bmw e Mercedes-Benz stanno dialogando con il Dipartimento del commercio Usa per un accordo, sfruttando la loro già significativa presenza negli Stati Uniti. Bmw ha uno stabilimento nella Carolina del Sud e Mercedes in Alabama, dove producono un gran numero di veicoli, compresi modelli chiave come i Suv. Questo li rende importanti datori di lavoro e contribuenti all’economia locale. Tra le proposte sul tavolo ci sarebbe quella di ottenere «crediti» per le auto che le aziende esportano dagli Stati Uniti, che poi potrebbero essere dedotti dai dazi doganali. Questo incentiverebbe la produzione locale per l’export. Il Ceo di Bmw, Oliver Zipse, ha persino proposto che l’Ue abbassi la tariffa sulle importazioni di auto statunitensi, dall’attuale 10% al 2,5%. Secondo la casa automobilistica potrebbe contribuire a mitigare le tensioni commerciali. I produttori tedeschi sperano in un accordo con il governo americano entro giugno, facendo leva sulla loro importanza economica nel Paese e promuovendo un approccio basato su investimenti e reciprocità invece che su misure protezionistiche.
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