2020-08-26
Schiaffo di Di Maio agli Stati Uniti. «Pechino è un partner ineludibile»
Luigi Di Maio e Wang Yi (Ansa)
Il grillino, all'incontro con l'omologo cinese, conferma l'ambiguità dell'esecutivo verso la superpotenza Wang Yi attacca gli Usa e condanna le «ingerenze» su Hong Kong. Poi ha un colloquio al telefono con Giuseppe Conte.Che Luigi Di Maio si sia messo in un grosso guaio, decidendo di srotolare per primo in Europa un lussuoso tappeto rosso sotto i piedi del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, è ormai chiaro, come La Verità scrive da giorni.Ben più preoccupante, però, è il fatto che il titolare della Farnesina stia infilando non solo se stesso, ma tutto il paese, in un vicolo cieco diplomatico, con conseguenze che troppi, a Roma, in numerose sedi istituzionali, sembrano ancora sottovalutare.Una volta allestito un palcoscenico, infatti, gli attori cinesi lo usano per lanciare messaggi forti e precisi, non preoccupandosi affatto di quanto ciò possa esporre i loro incauti e fin troppo zelanti ospiti di giornata. Wang Yi non ha fatto eccezione ieri, con passaggi piuttosto provocatori verso gli Usa nel suo intervento. Dapprima ha spiegato che le relazioni cinesi con l'Europa sono su un binario positivo, ma poi ha aggiunto: «I nostri rapporti stanno soffrendo a causa di provocazioni e anche danni da parte di forze esterne». E ancora, versando altra abbondante benzina sul fuoco: «Desidero enfatizzare che la Cina non ha mai voluto una guerra fredda. Non permettiamo che lo facciano altri Paesi per spingere i loro interessi». E il senso dell'avvolgente operazione tentata da Pechino è reso bene da una dichiarazione - riportata da Bloomberg - di Gao Zhikai, ex diplomatico cinese e a suo tempo interprete per Deng Xiaoping: «Ci sono distorsioni create dagli USA, la Cina ha diritto di riportare la situazione alla normalità». Come dire: se Washington si attiva per innalzare un cordone sanitario contro l'influenza geopolitica e la penetrazione tecnologica cinese, con tutte le implicazioni di sicurezza e intelligence che sappiamo, Pechino organizza una sua controstrategia. Sempre Bloomberg annota che le mosse cinesi sembrano una risposta colpo su colpo alle parole del segretario di Stato americano Mike Pompeo, all'inizio di questo mese, pronunciate davanti al Senato della Repubblica Ceca, quando il capo della diplomazia di Washington si è espresso contro la prospettiva «non inevitabile» di una «dominazione cinese», evocando a chiare lettere il «furto di proprietà intellettuale» e le «violazioni di diritti umani».Il problema è che, in cerca di un cavallo di Troia, Pechino sembra averlo trovato proprio a Roma, e le parole fin troppo accomodanti di ieri di Di Maio non hanno certo migliorato la nostra situazione agli occhi degli Usa: «La Cina rappresenta indubbiamente uno dei nostri principali partner e non si può dimenticare che ormai è un attore ineludibile per affrontare qualsiasi scenario internazionale», ha esordito Di Maio. Usando esattamente la parola che non avrebbe dovuto utilizzare («ineludibile»), proprio mentre Washington cerca di circoscrivere il ruolo di Pechino. Non è difficile immaginare l'irritazione che queste parole provocheranno. E c'è anche da chiedersi chi e perché abbia costruito per il nostro ministro degli Esteri un discorso cesellato sulle esigenze di Pechino, e - all'opposto - punteggiato da scivolate sgradevolissime nell'ottica americana. Poco convincente e cerchiobottista anche l'altra notazione del titolare della Farnesina: con la Cina c'è un «confronto fondato sulla franchezza» e la «nostra collocazione internazionale è ben chiara a tutti, a partire dalla nostra appartenenza alla Nato che è più forte che mai». Proprio le ambiguità che Washington non vorrebbe ascoltare, in una fase in cui non solo l'amministrazione guidata da Donald Trump ma pure i democratici invocano una netta scelta di campo nel confronto strategico con Pechino. Molto deludente anche il copione predisposto dalle due parti sul tema delicatissimo di Hong Kong, con un blando e formale appello da parte di Di Maio, quasi un assist, e la prevedibile risposta di Wang Yi. Hong Kong è stato al centro del colloquio telefonico, insieme al Covid-19, il G20, le relazioni Ue-Cina e i rapporti bilaterali, che il ministro cinese ha avuto con il premier Conte nel pomeriggio di ieri. Durante l'incontro, l'ex capo politico 5 stelle si è limitato a dire che a Hong Kong «è indispensabile preservare l'alto grado di autonomia e libertà. Seguiremo con molta attenzione i risvolti della nuova legge sulla sicurezza nazionale». E ancora, sempre con toni ultra morbidi verso Pechino: «Ho ribadito che con i partner europei riteniamo che stabilità e prosperità di Hong Kong, sulla base del principio “un paese due sistemi', siano essenziali». Tutto qui. E a quel punto Wang Yi ha tirato fuori una risposta che pareva tratta dal repertorio sovietico, quando Mosca evocava la pace mentre inviava i carri armati a reprimere le richieste di libertà in uno dei Paesi-satellite: «Con Di Maio - ha concluso il ministro cinese - ci siamo confrontati su Hong Kong nel rispetto di uno spirito di non ingerenza. Gli ho detto che il motivo della legge sulla sicurezza è colmare le falle che esistevano da tanti anni e combattere gli atti violenti che avvengono dappertutto nell'isola. Abbiamo fatto la legge per garantire i diritti di tutti e l'autonomia». A qualcuno dovrebbe ancora fare una certa impressione sentire frasi del genere in un Paese libero.