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2023-07-25
Sánchez tentato dagli indipendentisti. Ma Puigdemont ora rischia l’arresto
Alberto Núñez Feijóo (Ansa)
Chi lo sa se in Spagna hanno il numero di telefono di Mario Draghi: i risultati delle elezioni dell’altro ieri non hanno prodotto alcuna maggioranza al Congresso dei deputati, e così adesso occorrerà qualche alchimia parlamentare per scongiurare un ritorno alle urne. L’opzione di una ripetizione delle elezioni entro pochi mesi, diciamolo subito, è assai remota: tutto il mondo è paese, ed è molto difficile convincere i parlamentari eletti a tornarsene a casa appena insediati. Molto probabilmente prevarrà il famigerato «senso di responsabilità», che poi tradotto vuol dire la necessità di salvare le poltrone.
Il quadro è questo: il Partito popolare vince le elezioni legislative ottenendo il 33% dei voti e 136 seggi, mentre nel 2019 aveva il 20% e 89 seggi; il Partito socialista ottiene il 31,7% e 122 seggi rispetto al 28% e 120 seggi di quattro anni fa; esce ammaccato dalle urne, rispetto alle attese e in termini di parlamentari eletti, il partito sovranista Vox, che ottiene il 12,4% e 33 seggi, ben 19 di meno rispetto al parlamento uscente (nel 2019 aveva preso il 15% e 52 seggi). La sinistra di Sumar con il 12,3% ottiene 31 seggi (nel 2019 non c’era). A seguire, i partiti indipendentisti catalani Erc e Junts hanno ottenuto 7 seggi ciascuno, Eh Bildu 6 e il Partito nazionalista basco 5. In Senato, invece, il Pp può contare su una maggioranza assoluta di 143 seggi, contro i 92 dei socialisti.
Vittoria di Pirro, quella del Partito popolare guidato da Alberto Núñez Feijóo: il governatore della Galizia contava sull’alleanza con i sovranisti di Vox guidati da Santiago Abascal, che fanno parte del gruppo europeo Ecr, guidato da Giorgia Meloni (i due si sono sentiti al telefono la scorsa notte), ma il deludente risultato del partito di destra non permette all’alleanza di centrodestra di raggiungere la maggioranza al Congresso, fissata a quota 176: i due partiti insieme contano su 169 seggi.
Sul versante opposto, esulta per il pareggio il premier uscente Pedro Sánchez: il suo Psoe veniva dato in crisi dai sondaggi e aveva perso di brutto le regionali e le comunali dello scorso maggio, flop che lo aveva convinto a convocare elezioni anticipate. I socialisti invece hanno tenuto, anzi guadagnato qualche seggio, e il loro primo obiettivo, quello di evitare un governo Pp-Vox, è stato raggiunto. Per restare primo ministro, però, a Sánchez non basterà l’appoggio di Sumar, l’unione di sinistra guidata da Yolanda Diaz: le due forze politiche, seppure dovessero allearsi con i partitini che hanno sostenuto il governo Sánchez, ovvero i catalani di Erc, i nazionalisti baschi di Pnv, i baschi di sinistra radicale di Bildu e il Blocco nazionalista galiziano, si fermano a quota 172 seggi.
Sánchez ha di fronte diverse strade per tentare di restare premier, a partire da un’alleanza con i catalani di Junts, il partito di Charles Puigdemont. Particolare non trascurabile: proprio ieri l’Ufficio del procuratore della Corte suprema ha chiesto al giudice istruttore Pablo Llarena di emettere mandati di cattura internazionali contro lo stesso Puigdemont e l’ex ministro catalano Antoni Comin, esiliati in Belgio. La richiesta segue la sentenza del Tribunale dell’Unione europea che revocherà l’immunità agli europarlamentari indipendentisti catalani: Puidgemont, ricordiamolo, è deputato europeo, da ex presidente catalano fu protagonista, nel 2017, di un fallito tentativo di secessione, e da allora è ricercato dalla giustizia di Madrid. «Un giorno sei decisivo per formare un governo in Spagna», ha commentato Puigdemont su Twitter, «il giorno dopo la Spagna ordina il tuo arresto».
Sempre ieri, l’europarlamentare indipendentista catalana di Junts, Clara Ponsati, è stata arrestata al suo ritorno a Barcellona, in seguito al mandato di arresto emesso dalla Corte suprema. Junts, nelle ore immediatamente successive alla conclusione dello spoglio, ha posto come condizione per sostenere Sánchez un referendum per l’autodeterminazione della Catalogna e l’amnistia per i ricercati in seguito al fallito golpe del 2017: i vertici del Psoe hanno risposto picche, ma siamo alle schermaglie, considerato che le trattative sono già iniziate.
Il quadro è confuso, e del resto anche Feijóo non rinuncia a coltivare sogni di premierato: «È nostro dovere che non si apra un periodo di incertezza», ha detto lo stesso Feijóo «e chiedo al Psoe di non bloccare il governo della Spagna. Abbiamo vinto le elezioni e spetta a noi cercare di formare il governo». Curiosità: mentre il leader dei Popolari parlava dal palco, dalla platea si è alzato il coro «Ayuso, Ayuso!», invocazione alla presidente della Comunità di Madrid, Isabel Diaz Ayuso, esponente di spicco del Pp che ha sorriso maliziosamente. «Il blocco involuzionista ha fallito», ha proclamato da parte sua Sánchez, «coloro che proponevano il machismo, la regressione dei diritti e delle libertà hanno fallito, il blocco formato dal Partito popolare e da Vox sono stati sconfitti. Siamo in molti a volere che la Spagna continui ad avanzare».
L’insediamento del nuovo Congresso è fissato per il 17 agosto; nei giorni successivi, si costituiranno i gruppi parlamentari, poi inizieranno le consultazioni di Re Felipe IV che al termine dei colloqui con i partiti potrà conferire l’incarico a un candidato per provare a formare un nuovo governo. A Madrid soffia anche aria di «larghe intese». Molti osservatori e addetti ai lavori puntano su una coalizione Popolari-Socialisti, che se le sono date di santa ragione fino a ieri ma che potrebbero dare vita a un «patto programmatico»: sarebbe il sogno della nomenklatura di Bruxelles, ma ci vorrebbe un Draghi spagnolo, o almeno un Giuseppe Conte modello gialloverde, per tenere uniti i due avversari di sempre.
Torniamo a Vox: i sondaggi che davano il partito di Santiago Abascal col vento in poppa si sono rivelati fallaci, forse a causa di una campagna molto aggressiva condotta dai Popolari contro il probabile alleato. Gli elettori spagnoli non hanno votato a sinistra, ma hanno preferito i moderati del Partito popolare rispetto ai sovranisti di Abascal, un dato che sarà oggetto inevitabilmente di analisi dei flussi elettorali, ma che sta dando fiato ai trombettieri di sinistra di tutta Europa. Manco a dirlo, il Pd di Elly Schlein si è fiondato sul risultato spagnolo: «È la dimostrazione», ha detto la Schlein, «che l’onda nera si può fermare quando non si punta ad alimentare le paure ma a risolvere i problemi concreti delle persone». L’esatto contrario di quello che sta facendo la Schlein.
La Cdu fa la retro sugli accordi coi sovranisti
In Germania il governo di Olaf Scholz è in crisi nera di consensi. La sua coalizione «semaforo» (dai colori dei tre partiti della maggioranza), infatti, non convince i tedeschi e conferma tutti i dubbi del settembre del 2021, una volta scrutinati i voti delle elezioni federali: un esecutivo di compromesso tra verdi, liberali (gialli) e socialdemocratici (rossi) molto difficilmente combinerà qualcosa di buono. E così è andata: un’armocromia uscita decisamente male.
Del calo di popolarità del governo, e soprattutto di Spd e Fdp, in teoria dovrebbe giovare la Cdu che, dopo la cura Merkel, nel 2021 ha ottenuto il peggior risultato della sua lunga storia. L’elezione del conservatore Friedrich Merz alla guida dei cristianodemocratici, del resto, sembrava aver reindirizzato l’Unione (coalizione formata dalla Cdu e dalla Csu bavarese) su un percorso più consono alle sue radici politiche, di fatto rinnegate dalla cancelliera, che aveva spostato il partito sempre più a sinistra. Eppure, nonostante il cambio di marcia, l’Unione continua a galleggiare sulle percentuali dell’ultima, catastrofica tornata elettorale.
È invece l’Afd (Alternativa per la Germania) a crescere nei sondaggi in maniera esponenziale. Stando a una recentissima rilevazione dell’istituto Insa, il partito sovranista tedesco ha raggiunto il suo massimo storico, attestandosi al 22% delle preferenze. In pratica, è la seconda forza del Paese, ben al disopra della Spd (18%). E ora sta addirittura tallonando l’Unione (26%).
Questi risultati, ovviamente, stanno mandando al manicomio l’intero apparato politico-mediatico tedesco, che continua a parlare di un improbabile «ritorno del nazismo». Un mese fa, poi, la doccia era stata particolarmente gelata: nel distretto rurale di Sonneberg, in Turingia, l’Afd ha vinto la sua prima, storica elezione: al ballottaggio con il candidato della Cdu, appoggiato da tutti gli altri partiti, l’ha infatti spuntata lo sfidante Robert Sesselmann con il 52,8% dei voti. Anche se il circondario di Sonneberg conta poco più di 50.000 anime, la stampa nazionale non ha esitato a parlare di «miracolo blu» (dal colore del partito).
A fare le spese della crescita dell’Afd, insomma, non sono solo i partiti di governo, ma anche la Cdu, che sta tentando con estrema difficoltà di riaccreditarsi presso l’elettorato di destra. È per questo motivo che si è riaperto un vecchio dibattito: è opportuno allearsi tatticamente con l’Afd, o è meglio continuare la politica del Brandmauer, del «cordone sanitario»? Domenica scorsa, durante un’intervista alla Zdf, Friedrich Merz si era mostrato possibilista. Se su un piano regionale, nazionale ed europeo, una collaborazione è esclusa, il presidente della Cdu aveva dichiarato che «nei parlamenti comunali devono essere battute nuove strade per amministrare le città e i distretti». Parole che sono state accolte con grande soddisfazione da Tino Chrupalla: «Stanno cominciando a cadere le prime pietre del muro neroverde, a tutto vantaggio dei cittadini», aveva commentato su Twitter il copresidente dell’Afd.
La seppur timida apertura di Merz, tuttavia, ha trovato di fronte a sé un vero e proprio fuoco di sbarramento: «La Cdu non lavorerà mai con un partito la cui offerta elettorale sono l’odio, la divisione e l’esclusione», ha dichiarato ad esempio il sindaco (cristianodemocratico) di Berlino, Kai Wegner. Uno, tanto per intendersi, che in questi giorni ha proposto di inserire l’«identità di genere» nella Costituzione tedesca…
Ma il primo cittadino berlinese non è certo stato l’unico: diversi esponenti della Cdu, anche autorevoli, hanno criticato molto aspramente il proprio presidente. «Che si tratti di un consiglio locale o del parlamento, i radicali di destra rimangono radicali di destra. Per i cristianodemocratici, gli estremisti di destra sono SEMPRE nemici!», ha tuonato su Twitter Yvonne Magwas, vicepresidente del Bundestag e membro del direttivo della Cdu. Di fronte a tutte queste rimostranze, Merz ha dovuto fare marcia indietro: «Per essere ancora più chiaro, con l’Afd non ci sarà alcuna collaborazione neanche a livello comunale», ha infine capitolato il presidente della Cdu.
In realtà, questo dibattito non è nuovo. Già nel 2019 molti amministratori locali del partito avevano evocato la necessità di allearsi con l’Afd per non lasciar vincere i propri avversari di sinistra. Naturalmente, per amor di ideologia, non se ne fece nulla. Ma i risultati parlano chiaro: la crisi della Cdu non solo non è stata superata, ma si è addirittura acuita. E ora i sovranisti distano solo quattro punti percentuali dalla (ormai ex) balena bianca tedesca.
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La Suprema corte stronca la velleità del premier uscente di tentare un’alleanza coi catalani di Junts. Alla coalizione di destra mancano 7 seggi, tuttavia Alberto Núñez Feijóo ci crede: abbiamo vinto, formeremo il governo.Autogol del presidente dei cristiano-democratici: prima apre all’intesa nei Comuni con Afd, po smentisce.Lo speciale contiene due articoliChi lo sa se in Spagna hanno il numero di telefono di Mario Draghi: i risultati delle elezioni dell’altro ieri non hanno prodotto alcuna maggioranza al Congresso dei deputati, e così adesso occorrerà qualche alchimia parlamentare per scongiurare un ritorno alle urne. L’opzione di una ripetizione delle elezioni entro pochi mesi, diciamolo subito, è assai remota: tutto il mondo è paese, ed è molto difficile convincere i parlamentari eletti a tornarsene a casa appena insediati. Molto probabilmente prevarrà il famigerato «senso di responsabilità», che poi tradotto vuol dire la necessità di salvare le poltrone. Il quadro è questo: il Partito popolare vince le elezioni legislative ottenendo il 33% dei voti e 136 seggi, mentre nel 2019 aveva il 20% e 89 seggi; il Partito socialista ottiene il 31,7% e 122 seggi rispetto al 28% e 120 seggi di quattro anni fa; esce ammaccato dalle urne, rispetto alle attese e in termini di parlamentari eletti, il partito sovranista Vox, che ottiene il 12,4% e 33 seggi, ben 19 di meno rispetto al parlamento uscente (nel 2019 aveva preso il 15% e 52 seggi). La sinistra di Sumar con il 12,3% ottiene 31 seggi (nel 2019 non c’era). A seguire, i partiti indipendentisti catalani Erc e Junts hanno ottenuto 7 seggi ciascuno, Eh Bildu 6 e il Partito nazionalista basco 5. In Senato, invece, il Pp può contare su una maggioranza assoluta di 143 seggi, contro i 92 dei socialisti. Vittoria di Pirro, quella del Partito popolare guidato da Alberto Núñez Feijóo: il governatore della Galizia contava sull’alleanza con i sovranisti di Vox guidati da Santiago Abascal, che fanno parte del gruppo europeo Ecr, guidato da Giorgia Meloni (i due si sono sentiti al telefono la scorsa notte), ma il deludente risultato del partito di destra non permette all’alleanza di centrodestra di raggiungere la maggioranza al Congresso, fissata a quota 176: i due partiti insieme contano su 169 seggi. Sul versante opposto, esulta per il pareggio il premier uscente Pedro Sánchez: il suo Psoe veniva dato in crisi dai sondaggi e aveva perso di brutto le regionali e le comunali dello scorso maggio, flop che lo aveva convinto a convocare elezioni anticipate. I socialisti invece hanno tenuto, anzi guadagnato qualche seggio, e il loro primo obiettivo, quello di evitare un governo Pp-Vox, è stato raggiunto. Per restare primo ministro, però, a Sánchez non basterà l’appoggio di Sumar, l’unione di sinistra guidata da Yolanda Diaz: le due forze politiche, seppure dovessero allearsi con i partitini che hanno sostenuto il governo Sánchez, ovvero i catalani di Erc, i nazionalisti baschi di Pnv, i baschi di sinistra radicale di Bildu e il Blocco nazionalista galiziano, si fermano a quota 172 seggi. Sánchez ha di fronte diverse strade per tentare di restare premier, a partire da un’alleanza con i catalani di Junts, il partito di Charles Puigdemont. Particolare non trascurabile: proprio ieri l’Ufficio del procuratore della Corte suprema ha chiesto al giudice istruttore Pablo Llarena di emettere mandati di cattura internazionali contro lo stesso Puigdemont e l’ex ministro catalano Antoni Comin, esiliati in Belgio. La richiesta segue la sentenza del Tribunale dell’Unione europea che revocherà l’immunità agli europarlamentari indipendentisti catalani: Puidgemont, ricordiamolo, è deputato europeo, da ex presidente catalano fu protagonista, nel 2017, di un fallito tentativo di secessione, e da allora è ricercato dalla giustizia di Madrid. «Un giorno sei decisivo per formare un governo in Spagna», ha commentato Puigdemont su Twitter, «il giorno dopo la Spagna ordina il tuo arresto». Sempre ieri, l’europarlamentare indipendentista catalana di Junts, Clara Ponsati, è stata arrestata al suo ritorno a Barcellona, in seguito al mandato di arresto emesso dalla Corte suprema. Junts, nelle ore immediatamente successive alla conclusione dello spoglio, ha posto come condizione per sostenere Sánchez un referendum per l’autodeterminazione della Catalogna e l’amnistia per i ricercati in seguito al fallito golpe del 2017: i vertici del Psoe hanno risposto picche, ma siamo alle schermaglie, considerato che le trattative sono già iniziate. Il quadro è confuso, e del resto anche Feijóo non rinuncia a coltivare sogni di premierato: «È nostro dovere che non si apra un periodo di incertezza», ha detto lo stesso Feijóo «e chiedo al Psoe di non bloccare il governo della Spagna. Abbiamo vinto le elezioni e spetta a noi cercare di formare il governo». Curiosità: mentre il leader dei Popolari parlava dal palco, dalla platea si è alzato il coro «Ayuso, Ayuso!», invocazione alla presidente della Comunità di Madrid, Isabel Diaz Ayuso, esponente di spicco del Pp che ha sorriso maliziosamente. «Il blocco involuzionista ha fallito», ha proclamato da parte sua Sánchez, «coloro che proponevano il machismo, la regressione dei diritti e delle libertà hanno fallito, il blocco formato dal Partito popolare e da Vox sono stati sconfitti. Siamo in molti a volere che la Spagna continui ad avanzare». L’insediamento del nuovo Congresso è fissato per il 17 agosto; nei giorni successivi, si costituiranno i gruppi parlamentari, poi inizieranno le consultazioni di Re Felipe IV che al termine dei colloqui con i partiti potrà conferire l’incarico a un candidato per provare a formare un nuovo governo. A Madrid soffia anche aria di «larghe intese». Molti osservatori e addetti ai lavori puntano su una coalizione Popolari-Socialisti, che se le sono date di santa ragione fino a ieri ma che potrebbero dare vita a un «patto programmatico»: sarebbe il sogno della nomenklatura di Bruxelles, ma ci vorrebbe un Draghi spagnolo, o almeno un Giuseppe Conte modello gialloverde, per tenere uniti i due avversari di sempre. Torniamo a Vox: i sondaggi che davano il partito di Santiago Abascal col vento in poppa si sono rivelati fallaci, forse a causa di una campagna molto aggressiva condotta dai Popolari contro il probabile alleato. Gli elettori spagnoli non hanno votato a sinistra, ma hanno preferito i moderati del Partito popolare rispetto ai sovranisti di Abascal, un dato che sarà oggetto inevitabilmente di analisi dei flussi elettorali, ma che sta dando fiato ai trombettieri di sinistra di tutta Europa. Manco a dirlo, il Pd di Elly Schlein si è fiondato sul risultato spagnolo: «È la dimostrazione», ha detto la Schlein, «che l’onda nera si può fermare quando non si punta ad alimentare le paure ma a risolvere i problemi concreti delle persone». L’esatto contrario di quello che sta facendo la Schlein. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sanchez-tentato-dagli-indipendentisti-ma-puigdemont-ora-rischia-larresto-2662331990.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-cdu-fa-la-retro-sugli-accordi-coi-sovranisti" data-post-id="2662331990" data-published-at="1690224869" data-use-pagination="False"> La Cdu fa la retro sugli accordi coi sovranisti In Germania il governo di Olaf Scholz è in crisi nera di consensi. La sua coalizione «semaforo» (dai colori dei tre partiti della maggioranza), infatti, non convince i tedeschi e conferma tutti i dubbi del settembre del 2021, una volta scrutinati i voti delle elezioni federali: un esecutivo di compromesso tra verdi, liberali (gialli) e socialdemocratici (rossi) molto difficilmente combinerà qualcosa di buono. E così è andata: un’armocromia uscita decisamente male. Del calo di popolarità del governo, e soprattutto di Spd e Fdp, in teoria dovrebbe giovare la Cdu che, dopo la cura Merkel, nel 2021 ha ottenuto il peggior risultato della sua lunga storia. L’elezione del conservatore Friedrich Merz alla guida dei cristianodemocratici, del resto, sembrava aver reindirizzato l’Unione (coalizione formata dalla Cdu e dalla Csu bavarese) su un percorso più consono alle sue radici politiche, di fatto rinnegate dalla cancelliera, che aveva spostato il partito sempre più a sinistra. Eppure, nonostante il cambio di marcia, l’Unione continua a galleggiare sulle percentuali dell’ultima, catastrofica tornata elettorale. È invece l’Afd (Alternativa per la Germania) a crescere nei sondaggi in maniera esponenziale. Stando a una recentissima rilevazione dell’istituto Insa, il partito sovranista tedesco ha raggiunto il suo massimo storico, attestandosi al 22% delle preferenze. In pratica, è la seconda forza del Paese, ben al disopra della Spd (18%). E ora sta addirittura tallonando l’Unione (26%). Questi risultati, ovviamente, stanno mandando al manicomio l’intero apparato politico-mediatico tedesco, che continua a parlare di un improbabile «ritorno del nazismo». Un mese fa, poi, la doccia era stata particolarmente gelata: nel distretto rurale di Sonneberg, in Turingia, l’Afd ha vinto la sua prima, storica elezione: al ballottaggio con il candidato della Cdu, appoggiato da tutti gli altri partiti, l’ha infatti spuntata lo sfidante Robert Sesselmann con il 52,8% dei voti. Anche se il circondario di Sonneberg conta poco più di 50.000 anime, la stampa nazionale non ha esitato a parlare di «miracolo blu» (dal colore del partito). A fare le spese della crescita dell’Afd, insomma, non sono solo i partiti di governo, ma anche la Cdu, che sta tentando con estrema difficoltà di riaccreditarsi presso l’elettorato di destra. È per questo motivo che si è riaperto un vecchio dibattito: è opportuno allearsi tatticamente con l’Afd, o è meglio continuare la politica del Brandmauer, del «cordone sanitario»? Domenica scorsa, durante un’intervista alla Zdf, Friedrich Merz si era mostrato possibilista. Se su un piano regionale, nazionale ed europeo, una collaborazione è esclusa, il presidente della Cdu aveva dichiarato che «nei parlamenti comunali devono essere battute nuove strade per amministrare le città e i distretti». Parole che sono state accolte con grande soddisfazione da Tino Chrupalla: «Stanno cominciando a cadere le prime pietre del muro neroverde, a tutto vantaggio dei cittadini», aveva commentato su Twitter il copresidente dell’Afd. La seppur timida apertura di Merz, tuttavia, ha trovato di fronte a sé un vero e proprio fuoco di sbarramento: «La Cdu non lavorerà mai con un partito la cui offerta elettorale sono l’odio, la divisione e l’esclusione», ha dichiarato ad esempio il sindaco (cristianodemocratico) di Berlino, Kai Wegner. Uno, tanto per intendersi, che in questi giorni ha proposto di inserire l’«identità di genere» nella Costituzione tedesca… Ma il primo cittadino berlinese non è certo stato l’unico: diversi esponenti della Cdu, anche autorevoli, hanno criticato molto aspramente il proprio presidente. «Che si tratti di un consiglio locale o del parlamento, i radicali di destra rimangono radicali di destra. Per i cristianodemocratici, gli estremisti di destra sono SEMPRE nemici!», ha tuonato su Twitter Yvonne Magwas, vicepresidente del Bundestag e membro del direttivo della Cdu. Di fronte a tutte queste rimostranze, Merz ha dovuto fare marcia indietro: «Per essere ancora più chiaro, con l’Afd non ci sarà alcuna collaborazione neanche a livello comunale», ha infine capitolato il presidente della Cdu. In realtà, questo dibattito non è nuovo. Già nel 2019 molti amministratori locali del partito avevano evocato la necessità di allearsi con l’Afd per non lasciar vincere i propri avversari di sinistra. Naturalmente, per amor di ideologia, non se ne fece nulla. Ma i risultati parlano chiaro: la crisi della Cdu non solo non è stata superata, ma si è addirittura acuita. E ora i sovranisti distano solo quattro punti percentuali dalla (ormai ex) balena bianca tedesca.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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