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2025-05-03
Sánchez nasconde la causa del blackout per non ammettere l’harakiri ecologista
Pedro Sánchez (Ansa)
Ma, secondo voi, ce la diranno la causa del blackout? Io dico di no, e per due ragioni. Intanto, perché hanno subito messo le mani avanti con una stravaganza - quella delle vibrazioni atmosferiche - che, solo a leggerla, lasciava senza parole: excusatio non petita, eccetera. Poi perché a oggi non dicono nulla: dicono che devono ancora capire. Il fatto stesso che debbano ancora capire dovrebbe giustificare le massime autorità politiche a licenziare in tronco gli ingegneri preposti al controllo della stabilità della rete. Non perché essa è stata instabile, ma perché neanche ne sanno la ragione. Siccome le massime autorità politiche iberiche non licenziano nessuno, la cosa più probabile è che esse siano state informate della causa esatta dello scompenso. E non la dicono solo perché non possono dirla. Sono ancora a cogitare una possibile «spiegazione» da fornire al popolo bue.
Qualunque sia la spiegazione che forniranno, rimane una profonda verità: su eolico e fotovoltaico deve essere messa una pietra tombale. Perché, anche quando lo scompenso elettrico causa del blackout iberico non fosse da attribuire a queste tecnologie ballerine, il fatto è che esse sono ben suscettibili a generare simili scompensi. Il sistema elettrico funziona secondo un principio fondamentale: l’equilibrio istantaneo tra domanda e produzione e la quantità di energia elettrica prodotta deve corrispondere esattamente, in ogni istante, a quella consumata. Al momento del collasso iberico, la produzione elettrica era garantita, leggo, per oltre il 70% da eolico e fotovoltaico. Naturalmente in questi casi in cui ci si affida così tanto a queste tecnologie, la possibilità di scompensi è elevata (che so, un calo di vento o un cielo che si annuvola rapidamente). Nulla di grave se si è predisposti a compensare gli scompensi. Ma come si compensa agli scompensi? Ecco, qui casca l’asino: con gli impianti che non si vogliono, cioè quelli a combustibili fossili e, specificamente, quelli a turbogas, purché siano collegati in rete e, soprattutto, purché siano già accesi. Perché solo se sono collegati e accesi lo scompenso si rimedia in pochi secondi.
Va detto che quando lo scompenso è importante, la presenza di impianti nucleari aggrava la situazione, perché questi, in presenza di scompenso si spengono automaticamente per sicurezza, cosicché lo scompenso diventa ancora più importante. Per dirla tutta, gli impianti nucleari non possono permettersi di subire un blackout perché i loro circuiti di raffreddamento funzionano con l’elettricità e, in mancanza di questa dalla rete, devono generarsela da soli con generatori diesel in loco, che devono essere perfettamente funzionanti, pena effetto Fukushima.
Allora, qui siamo a un’impasse: il Green deal di Ursula von der Leyen vuole eolico e fotovoltaico - e, per non farsi mancare niente in questo «deal» (vien da ridere a chiamarlo così) vuole anche l’autotrazione elettrica - allo scopo di azzerare l’uso dei combustibili fossili, ma eolico e fotovoltaico richiedono, per funzionare in sicurezza, tutti gli odiati impianti, massimamente quelli a turbogas (per la precisione, anche quelli idroelettrici farebbero allo scopo, ma non sempre le condizioni idrogeologiche permettono di averne a sufficienza). Inoltre, quando si ha la certa certezza che quelli alternativi non funzionano (per esempio i fotovoltaici certamente non funzionano per ben 16 ore al giorno, tra le 5 della sera e le 9 del mattino), bisogna affidarsi solo agli odiati convenzionali, e riguardo a essi, non se ne può chiudere neanche uno a fronte dell’apertura di qualcuno alternativo. Perché neanche uno? Perché quelli alternativi contribuiscono zero quando la domanda è massima.
Insomma, gli impianti odiati sono indispensabili esattamente come sono indispensabili i vigili del fuoco, cui bisogna pagare lo stipendio giornaliero anche nei giorni privi di incendi, altrimenti si licenzierebbero per un lavoro meglio pagato, e nei giorni d’incendio ci si dovrebbe attaccare al tram. Ed esattamente come i vigili del fuoco, anche i proprietari degli odiati impianti convenzionali vogliono essere pagati anche se gli impianti sono spenti ed esser pagati ancora di più se, oltre che spenti, gli impianti sono accesi e in rete, pronti come riserva calda (o «rotante», che dir si voglia) in caso di scompensi. Si può giocare d’azzardo e tenerli spenti - risparmiando sul gas - ma a giocare d’azzardo ogni tanto si perde. Successe una domenica di molti anni fa in Italia, quando lo scompenso fu causato da una repentina interruzione di energia elettrica d’importazione dalla Francia (che transitava per la Svizzera) senza che fossero pronti i necessari turbogas a compensare e quasi l’intero Paese rimase al buio. Nessuna meraviglia che questo è quel che è successo agli iberici. Ma non ce lo diranno mai, neanche sotto tortura: dovrebbero ammettere di aver sbagliato tutto ad aver seguito Ursula e le sue paturnie.
Intanto Madrid corre ai ripari: solare tagliato e ora a tutto gas
Red Eléctrica (Ree) sta utilizzando meno fonti rinnovabili per soddisfare la domanda fisica di energia elettrica, dopo il devastante blackout di lunedì scorso. La capacità fotovoltaica chiamata a produrre è scesa dal 54,86% del giorno del blackout (alle ore 12.30) a una più modesta forchetta 31-38% nei giorni lavorativi seguenti. Ieri, all’ora indicata, c’erano 9.457 Megawatt (Mw) in rete contro i 17.677 del giorno dell’incidente. Specularmente è aumentato l’utilizzo della capacità elettrica alimentata a gas, dal 3% del giorno del blackout (e di molti giorni precedenti) si è passati al 23% il 29 aprile, giorno di ripartenza del sistema, al 12,5% e al 15,4% nei due giorni lavorativi seguenti.
Ree sta dunque tagliando una buona parte dell’enorme produzione fotovoltaica nelle ore di picco massimo di produzione. Evidentemente, nonostante la corsa a difendere le rinnovabili dall’accusa di aver reso fragile la rete iberica, il gestore considera più sicuro affidarsi alla generazione convenzionale per evitare rischi di nuovi squilibri sulla rete.
Un nuovo tassello nella ricostruzione di quanto accaduto, che si unisce ad altri. In primis, le parole della presidente di Red Eléctrica (Ree), Beatriz Corredor. Parlando alla radio il 30 aprile l’ex ministro socialista del governo Zapatero ha difeso l’operato di Red Eléctrica. Invitando ad attendere i risultati dell’inchiesta, per la quale si prevedono tempi lunghi. Ha smentito l’ipotesi di un possibile effetto dell’energia fotovoltaica sull’evento e ha detto che la Spagna ha «il miglior sistema d’Europa». Autogol comunicativo da manuale: se il miglior sistema d’Europa crolla in quel modo, non c’è da stare allegri. Subito dopo Corredor ha detto però che Red Eléctrica ha già «più o meno individuato» la causa dell'accaduto, e che «oggi non succederà più, perché abbiamo imparato». Affermazioni sorprendenti, il cui significato è che la causa del problema è già stata identificata e corretta da Ree. Perché non dirlo apertamente, allora? Forse perché si tratta di verità scomode. La correzione potrebbe proprio essere, nell’immediato, il maggiore utilizzo di fonti convenzionali come quella a gas, che fornisce l’inerzia necessaria a mantenere stabile la frequenza. Molto probabilmente, Ree nel frattempo sta provvedendo a verificare le tipologie di inverter degli impianti fotovoltaici o a correggere la taratura delle apparecchiature.
In un’altra intervista, Corredor ha affermato che il rafforzamento dell’interconnessione elettrica con la Francia è una possibile soluzione per impedire che si verifichi un nuovo blackout, dato che la penisola è elettricamente un’isola. Dunque, al «miglior sistema d’Europa» mancano parecchie cose, in realtà.
Poi ci sono gli allarmi di Red Eléctrica, che già nel maggio 2024, in un rapporto, sollecitava l’attenzione sul problema dei piccoli generatori rinnovabili, che stavano mettendo a dura prova l’infrastruttura. Vi è poi il rapporto finanziario di Redeia, la holding che detiene Ree, che nel febbraio di quest’anno scriveva: «L’elevata penetrazione della generazione di energia rinnovabile senza le necessarie capacità tecniche per una risposta adeguata ai disturbi (piccoli generatori o generatori per autoconsumo) può portare a disconnessioni della generazione, che potrebbero essere gravi e generare uno squilibrio». Poco più oltre, Redeia diceva anche: «La chiusura delle centrali elettriche convenzionali, come quelle a carbone, a ciclo combinato e nucleari comporta una riduzione della potenza costante e della capacità di bilanciamento del sistema elettrico, nonché della sua resilienza e inerzia. Ciò potrebbe aumentare il rischio di incidenti operativi».
Poi ci sono i disservizi verificatisi nei giorni precedenti al blackout: il 22 aprile attorno a Madrid la rete ferroviaria si era bloccata per sbalzi di tensione anomali e una raffineria petrolifera era rimasta al buio. Forse questi sono casi locali legati alla rete locale di distribuzione, o forse no.
Gli strumenti hanno registrato in Europa un’oscillazione inter-area che la rete spagnola non ha gestito, afflosciandosi in cinque secondi. Ma qualunque sia la causa originaria, il fatto è che la rete spagnola non ha retto e il blackout c’è stato. Le rassicurazioni di Corredor (problema già corretto) e il successivo comportamento di Ree (meno fotovoltaico in rete) puntano in una direzione chiara. Si attende la verità ufficiale.
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Il governo iberico sa che il guaio è stato generato da un sistema sbilanciato sulle energie rinnovabili. La verità però è un tabù.Il disastro di Red Eléctrica è anche comunicativo: «Siamo i migliori di tutta Europa».Lo speciale contiene due articoliMa, secondo voi, ce la diranno la causa del blackout? Io dico di no, e per due ragioni. Intanto, perché hanno subito messo le mani avanti con una stravaganza - quella delle vibrazioni atmosferiche - che, solo a leggerla, lasciava senza parole: excusatio non petita, eccetera. Poi perché a oggi non dicono nulla: dicono che devono ancora capire. Il fatto stesso che debbano ancora capire dovrebbe giustificare le massime autorità politiche a licenziare in tronco gli ingegneri preposti al controllo della stabilità della rete. Non perché essa è stata instabile, ma perché neanche ne sanno la ragione. Siccome le massime autorità politiche iberiche non licenziano nessuno, la cosa più probabile è che esse siano state informate della causa esatta dello scompenso. E non la dicono solo perché non possono dirla. Sono ancora a cogitare una possibile «spiegazione» da fornire al popolo bue.Qualunque sia la spiegazione che forniranno, rimane una profonda verità: su eolico e fotovoltaico deve essere messa una pietra tombale. Perché, anche quando lo scompenso elettrico causa del blackout iberico non fosse da attribuire a queste tecnologie ballerine, il fatto è che esse sono ben suscettibili a generare simili scompensi. Il sistema elettrico funziona secondo un principio fondamentale: l’equilibrio istantaneo tra domanda e produzione e la quantità di energia elettrica prodotta deve corrispondere esattamente, in ogni istante, a quella consumata. Al momento del collasso iberico, la produzione elettrica era garantita, leggo, per oltre il 70% da eolico e fotovoltaico. Naturalmente in questi casi in cui ci si affida così tanto a queste tecnologie, la possibilità di scompensi è elevata (che so, un calo di vento o un cielo che si annuvola rapidamente). Nulla di grave se si è predisposti a compensare gli scompensi. Ma come si compensa agli scompensi? Ecco, qui casca l’asino: con gli impianti che non si vogliono, cioè quelli a combustibili fossili e, specificamente, quelli a turbogas, purché siano collegati in rete e, soprattutto, purché siano già accesi. Perché solo se sono collegati e accesi lo scompenso si rimedia in pochi secondi. Va detto che quando lo scompenso è importante, la presenza di impianti nucleari aggrava la situazione, perché questi, in presenza di scompenso si spengono automaticamente per sicurezza, cosicché lo scompenso diventa ancora più importante. Per dirla tutta, gli impianti nucleari non possono permettersi di subire un blackout perché i loro circuiti di raffreddamento funzionano con l’elettricità e, in mancanza di questa dalla rete, devono generarsela da soli con generatori diesel in loco, che devono essere perfettamente funzionanti, pena effetto Fukushima. Allora, qui siamo a un’impasse: il Green deal di Ursula von der Leyen vuole eolico e fotovoltaico - e, per non farsi mancare niente in questo «deal» (vien da ridere a chiamarlo così) vuole anche l’autotrazione elettrica - allo scopo di azzerare l’uso dei combustibili fossili, ma eolico e fotovoltaico richiedono, per funzionare in sicurezza, tutti gli odiati impianti, massimamente quelli a turbogas (per la precisione, anche quelli idroelettrici farebbero allo scopo, ma non sempre le condizioni idrogeologiche permettono di averne a sufficienza). Inoltre, quando si ha la certa certezza che quelli alternativi non funzionano (per esempio i fotovoltaici certamente non funzionano per ben 16 ore al giorno, tra le 5 della sera e le 9 del mattino), bisogna affidarsi solo agli odiati convenzionali, e riguardo a essi, non se ne può chiudere neanche uno a fronte dell’apertura di qualcuno alternativo. Perché neanche uno? Perché quelli alternativi contribuiscono zero quando la domanda è massima. Insomma, gli impianti odiati sono indispensabili esattamente come sono indispensabili i vigili del fuoco, cui bisogna pagare lo stipendio giornaliero anche nei giorni privi di incendi, altrimenti si licenzierebbero per un lavoro meglio pagato, e nei giorni d’incendio ci si dovrebbe attaccare al tram. Ed esattamente come i vigili del fuoco, anche i proprietari degli odiati impianti convenzionali vogliono essere pagati anche se gli impianti sono spenti ed esser pagati ancora di più se, oltre che spenti, gli impianti sono accesi e in rete, pronti come riserva calda (o «rotante», che dir si voglia) in caso di scompensi. Si può giocare d’azzardo e tenerli spenti - risparmiando sul gas - ma a giocare d’azzardo ogni tanto si perde. Successe una domenica di molti anni fa in Italia, quando lo scompenso fu causato da una repentina interruzione di energia elettrica d’importazione dalla Francia (che transitava per la Svizzera) senza che fossero pronti i necessari turbogas a compensare e quasi l’intero Paese rimase al buio. Nessuna meraviglia che questo è quel che è successo agli iberici. Ma non ce lo diranno mai, neanche sotto tortura: dovrebbero ammettere di aver sbagliato tutto ad aver seguito Ursula e le sue paturnie.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sanchez-nasconde-causa-blackout-spagna-2671884197.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="intanto-madrid-corre-ai-ripari-solare-tagliato-e-ora-a-tutto-gas" data-post-id="2671884197" data-published-at="1746231746" data-use-pagination="False"> Intanto Madrid corre ai ripari: solare tagliato e ora a tutto gas Red Eléctrica (Ree) sta utilizzando meno fonti rinnovabili per soddisfare la domanda fisica di energia elettrica, dopo il devastante blackout di lunedì scorso. La capacità fotovoltaica chiamata a produrre è scesa dal 54,86% del giorno del blackout (alle ore 12.30) a una più modesta forchetta 31-38% nei giorni lavorativi seguenti. Ieri, all’ora indicata, c’erano 9.457 Megawatt (Mw) in rete contro i 17.677 del giorno dell’incidente. Specularmente è aumentato l’utilizzo della capacità elettrica alimentata a gas, dal 3% del giorno del blackout (e di molti giorni precedenti) si è passati al 23% il 29 aprile, giorno di ripartenza del sistema, al 12,5% e al 15,4% nei due giorni lavorativi seguenti. Ree sta dunque tagliando una buona parte dell’enorme produzione fotovoltaica nelle ore di picco massimo di produzione. Evidentemente, nonostante la corsa a difendere le rinnovabili dall’accusa di aver reso fragile la rete iberica, il gestore considera più sicuro affidarsi alla generazione convenzionale per evitare rischi di nuovi squilibri sulla rete. Un nuovo tassello nella ricostruzione di quanto accaduto, che si unisce ad altri. In primis, le parole della presidente di Red Eléctrica (Ree), Beatriz Corredor. Parlando alla radio il 30 aprile l’ex ministro socialista del governo Zapatero ha difeso l’operato di Red Eléctrica. Invitando ad attendere i risultati dell’inchiesta, per la quale si prevedono tempi lunghi. Ha smentito l’ipotesi di un possibile effetto dell’energia fotovoltaica sull’evento e ha detto che la Spagna ha «il miglior sistema d’Europa». Autogol comunicativo da manuale: se il miglior sistema d’Europa crolla in quel modo, non c’è da stare allegri. Subito dopo Corredor ha detto però che Red Eléctrica ha già «più o meno individuato» la causa dell'accaduto, e che «oggi non succederà più, perché abbiamo imparato». Affermazioni sorprendenti, il cui significato è che la causa del problema è già stata identificata e corretta da Ree. Perché non dirlo apertamente, allora? Forse perché si tratta di verità scomode. La correzione potrebbe proprio essere, nell’immediato, il maggiore utilizzo di fonti convenzionali come quella a gas, che fornisce l’inerzia necessaria a mantenere stabile la frequenza. Molto probabilmente, Ree nel frattempo sta provvedendo a verificare le tipologie di inverter degli impianti fotovoltaici o a correggere la taratura delle apparecchiature. In un’altra intervista, Corredor ha affermato che il rafforzamento dell’interconnessione elettrica con la Francia è una possibile soluzione per impedire che si verifichi un nuovo blackout, dato che la penisola è elettricamente un’isola. Dunque, al «miglior sistema d’Europa» mancano parecchie cose, in realtà. Poi ci sono gli allarmi di Red Eléctrica, che già nel maggio 2024, in un rapporto, sollecitava l’attenzione sul problema dei piccoli generatori rinnovabili, che stavano mettendo a dura prova l’infrastruttura. Vi è poi il rapporto finanziario di Redeia, la holding che detiene Ree, che nel febbraio di quest’anno scriveva: «L’elevata penetrazione della generazione di energia rinnovabile senza le necessarie capacità tecniche per una risposta adeguata ai disturbi (piccoli generatori o generatori per autoconsumo) può portare a disconnessioni della generazione, che potrebbero essere gravi e generare uno squilibrio». Poco più oltre, Redeia diceva anche: «La chiusura delle centrali elettriche convenzionali, come quelle a carbone, a ciclo combinato e nucleari comporta una riduzione della potenza costante e della capacità di bilanciamento del sistema elettrico, nonché della sua resilienza e inerzia. Ciò potrebbe aumentare il rischio di incidenti operativi». Poi ci sono i disservizi verificatisi nei giorni precedenti al blackout: il 22 aprile attorno a Madrid la rete ferroviaria si era bloccata per sbalzi di tensione anomali e una raffineria petrolifera era rimasta al buio. Forse questi sono casi locali legati alla rete locale di distribuzione, o forse no. Gli strumenti hanno registrato in Europa un’oscillazione inter-area che la rete spagnola non ha gestito, afflosciandosi in cinque secondi. Ma qualunque sia la causa originaria, il fatto è che la rete spagnola non ha retto e il blackout c’è stato. Le rassicurazioni di Corredor (problema già corretto) e il successivo comportamento di Ree (meno fotovoltaico in rete) puntano in una direzione chiara. Si attende la verità ufficiale.
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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