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2018-05-03
Salvini crede ancora nel governo nonostante le pugnalate dei grillini
Così un bacio appassionato si trasforma in un duello con le lame. Fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio è melodramma, a dimostrazione che la ferita del governo bello e impossibile (5 stelle-Lega) non si è rimarginata e il rancore per l'abbraccio mancato diventa bile velenosa. Il leader grillino provoca duro: «Noi vogliamo tornare al voto, altri si oppongono perché, tra prestiti e fideiussioni, hanno qualche problemino con i soldi». Si riferisce alle asfittiche casse della Lega, parla a nuora perché suocera (Silvio Berlusconi) intenda. Ma ottiene il risultato di compattare ancora di più Lega e Forza Italia, e incassa la ruvida replica del segretario del Carroccio. «Non rispondo a insulti e sciocchezze su soldi e poltrone. Per noi lealtà e coerenza valgono più dei ministeri. Voglio dare un governo agli italiani, se i grillini preferiscono litigare come bambini arroganti lo faremo da soli. Bloccare anche la partenza dei lavori delle commissioni parlamentari è da irresponsabili».
Dopo un mese di idillio e tre settimane di stizzite gelosie siamo agli stracci in cortile. Peccato, perché proprio i due vincitori delle elezioni del 4 marzo avevano ottenuto la golden share dagli italiani per provare a cambiare il Paese. Ora i destini degli ex consoli sono divergenti al massimo: mentre Di Maio sogna di tornare al voto per togliersi dal vicolo cieco, Salvini spinge per un preincarico e perché il centrodestra venga designato dal capo dello Stato a cercare in Parlamento la fiducia sul programma. Il rischio è grande, ma il leader della Lega preferisce continuare ad essere la soluzione e non il problema. Un ruolo che ha pagato in Molise, in Friuli e in immagine personale, visto che l'ultimo sondaggio di Nando Pagnoncelli lo indica come il potenziale premier più affidabile. Verso sera, su Facebook, il tono non cambia: «Continuo a voler costruire. Forse coerenza e lealtà sono fuori moda?». Poi la domanda diretta al suo popolo: «Che dite, insisto a cercare un dialogo (evitando Matteo Renzi e la sinistra) o è meglio tornare a votare?»
Prima dell'insinuazione di Di Maio sui soldi e sulle mani legate, l'ultimo invito di Salvini somigliava all'ennesima mano tesa. «Sono umilmente a disposizione quando e dove si vuole, con chi si vuole, a sederci attorno a un tavolo con i 5 stelle partendo dalla riforma delle pensioni, del lavoro, del sistema fiscale, del sistema giudiziario, del sistema scolastico, punto per punto, senza professoroni, per decidere come si fanno queste riforme». E se tutto andasse a rotoli «noi siamo disponibili a prendere l'attuale legge elettorale e a mettere un premio di maggioranza in due righe che garantisca a chi prende un voto in più di governare. Non vogliamo perdere due anni».
Da Euroflora a Genova aveva anche promesso di recapitare a Roma la margherita Itala, dedicata a Italo Calvino. «Un fiore resistente come me, lo porterò a Di Maio così potrà sfogliarlo: si lavora, non si lavora. Farò tutto il possibile fino all'ultimo minuto per dare un governo che duri cinque anni agli italiani e per occuparmi dell'emergenza del Paese che è il lavoro. Certo che questo, più che un governo, è un parto. Se si vuole farlo si fa e si parte. Se invece si vuole continuare a fare i capricci, proviamo a fare tutto da soli perché non ho più voglia di rispondere a insulti e fantasie».
L'idea che il centrodestra vada in Parlamento a chiedere la fiducia al buio non piace a Sergio Mattarella, preoccupato per il contraccolpo sul piano internazionale in caso di fallimento. A quel punto i mercati, fin qui sonnolenti, potrebbero entrare in fibrillazione e far pagare agli italiani l'indecisionismo di chi (non) li governa. Il presidente non desidera neppure tornare alle urne, almeno non prima di avere cambiato la legge elettorale con il premio di maggioranza. Lui spinge per un governo di tregua o di garanzia, quello che sin dal primo giorno aveva segretamente sponsorizzato Berlusconi, con un premier istituzionale come il costituzionalista Sabino Cassese, e un programma che preveda legge elettorale, finanziaria e voto a primavera 2019 in ticket con le Europee. Le consultazioni sono previste venerdì o sabato.
La Lega è contraria, non tanto per la formula che potrebbe anche avere un senso, ma per il rischio di una trappola del Quirinale. Ai vertici tutti ricordano il Ribaltone e il governo del presidente, che allora era Oscar Luigi Scalfaro: «Ci toccò Lamberto Dini che aprì la strada a cinque anni di sinistra a Palazzo Chigi». E poi il tormentone: «Ci deve andare bene il nome, sennò non se ne fa niente». In tutto ciò è singolare il silenzio del Cavaliere, impegnato in queste ore a lanciare la campagna Web per far confluire il 2x1.000 a Forza Italia. Slogan: «La legge vieta di donare più di 100.000 euro ai partiti, per questo Berlusconi non può finanziare FI come prima. Ora serve il tuo aiuto». Cerca alleati piccoli e grandi. In politica ne ha due di ferro: Mattarella e la clessidra, dove la sabbia sta finendo.
Il M5s tiene alta la tensione e ragiona sul ballottaggio
Nel 2005, i candidati sindaci del Movimento 5 stelle vinsero cinque ballottaggi su cinque. Nel 2017, ne portarono a casa otto su dieci. Poi, l'inatteso stop sulla legge elettorale a chi voleva il doppio turno anche per le elezioni politiche. Ma adesso, con Luigi Di Maio messo nell'angolo da Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, e con Sergio Mattarella che sta costruendo mattoncino dopo mattoncino il «governo del presidente», i leader del Movimento ci stanno ripensando.
«Sui ballottaggi dobbiamo aprire», è la nuova linea di uno stato maggiore che ormai parla solo e unicamente di elezioni anticipate. E che per il resto, anche nel rispondere al capo della Lega, appare nuovamente in campagna elettorale. «Siamo oggettivi come Sorrentino sul bunga bunga», ridacchia un senatore tra i più esperti, alludendo a Loro, il film che ha rilanciato l'anti berlusconismo duro e puro, inteso come capacità di «comprare tutto e tutti».
E non ci vuole molta fantasia per capire a chi si riferisca Di Maio, a metà giornata, quando scaraventa prima su Twitter e poi sul Blog delle stelle la risposta all'ennesimo «invito» al dialogo del capo del Carroccio: «Si è piegato all'ex Cavaliere solo per le poltrone. Noi vogliamo andare subito al voto. Altri si oppongono perché, tra prestiti e fideiussioni, magari hanno qualche problemino con i soldi». E Alessandro Di Battista, che gli altri leader di partito ritengono incarni un «dopo Di Maio» neppure troppo lontano, su Facebook conferma il «Tutti uniti al voto con Luigi» e rilancia un articolo di Selvaggia Lucarelli sul Fatto quotidiano in cui non solo si difende Roberto Fico per la storia della colf della sua compagna Yvonne, ma si accusa di scorrettezze Le Iene, rivelando che la donna sarebbe seriamente malata. «Insomma, macchina del fango reloaded», è il ritornello in casa pentastellata.
I toni alti, quotidianamente sempre più alti, per i capi dei 5 stelle devono servire a due scopi: far capire a Mattarella che il Movimento non sosterrà alcun governo del presidente o di tregua e far vedere a Salvini quanto il M5s sarà pronto ad approfittare in termini di consenso elettorale delle «avventure governiste» dell'unico altro partito anti sistema. «La Lega ha ben presente che chi di noi due resta all'opposizione da solo, si mangia l'altro», si ripetono i capi del Movimento.
E in piena coerenza con questa campagna elettorale permanente, ecco che torna l'attenzione sulla legge elettorale. Con una significativa apertura verso il doppio turno, che almeno ha il merito di assegnare la vittoria a qualcuno. Una fonte autorevole del Movimento riassume lo stato dell'arte di una discussione interna assai avanzata: «La nostra base di partenza è l'idea di un proporzionale con forte correzione maggioritaria, grazie a collegi molto piccoli. Ma sui ballottaggi la riflessione è aperta e non ci sono preclusioni». Di Maio e compagni ritengono che il doppio turno possa piacere molto anche a un Salvini sempre più convinto di essere il prossimo capo del centrodestra. E che soprattutto possa stroncare il sogno «macronista» di Matteo Renzi, che oggi arriverebbe terzo.
Contemporaneamente, con le urne torna il tema del vincolo sui due mandati. Un vincolo suicida per la compattezza dei gruppi parlamentari, ma che sta nel Dna del Movimento. Se si votasse a ottobre, di fronte a una legislatura di sei mesi appena, potrebbe essere però aggirato con la ripresentazione in blocco delle stesse liste del 4 marzo.
Se dunque il M5s si prepara a un'opposizione dura, tuttavia respinge l'accusa di ostruzionismo arrivata da Salvini, che parla di commissioni parlamentari bloccate dai grillini per pura ripicca. Danilo Toninelli e Giulia Grillo, i due capigruppo pentastellati, fanno notare che nel 2013 fu il Movimento a chiedere la composizione delle commissioni ancor prima che fallisse il tentativo di Pier Luigi Bersani. Ma soprattutto, sempre secondo M5s, «ci hanno sempre detto tutti quanti che è impossibile decidere persino gli uffici di presidenza di una singola commissione, se non si sa chi è in maggioranza e chi all'opposizione».
Francesco Bonazzi
Nel Pd sono arrivati alle liste di proscrizione
«Alle forze che hanno vinto diciamo una cosa sola: ora non avete più alibi. Il tempo della propaganda è finito. Cari Di Maio e Salvini prendetevi le vostre responsabilità: i cittadini vi hanno votato per governare, ora fatelo». Questo tweet oggi potrebbe scriverlo Matteo Renzi: sintetizza in modo perfetto la posizione dell'ex rottamatore, che in molti, nel Pd, vorrebbero rottamare. Invece, lo scrisse Maurizio Martina, il 12 marzo scorso. Martina pubblicò questo tweet alle 17 e 17: se fosse stato un tantino scaramantico, il reggente dei Dem avrebbe fatto più attenzione almeno all'orario. Oggi alle 15, infatti, la direzione nazionale del Pd, convocata per esprimersi sull'avvio della trattativa di governo con il M5s, potrebbe ritrovarsi, salvo colpi di scena, a votare la «fiducia» a Martina, che si ritrova, un mese e mezzo dopo aver preso il posto di Renzi grazie a Renzi, a capitanare gli anti-Renzi del partito, e dunque a vacillare pericolosamente.
Quella di ieri è stata una giornata pesantissima per il Pd. In mattinata, i renziani hanno messo a punto un documento, che ha come primo firmatario il coordinatore della segreteria, Lorenzo Guerini, che oggi dovrebbe essere messo all'ordine del giorno della direzione. Il documento, che i capigruppo alla Camera e al Senato, Graziano Delrio e Andrea Marcucci, hanno sottoposto ai parlamentari, ha raccolto le firme di 77 deputati su 105 e di 39 senatori su 52. In totale, 120 su 209 componenti della direzione nazionale hanno aderito alla proposta di Guerini. «Crediamo dannoso», recita il documento, «fare conte interne nella direzione nazionale; crediamo che lo stallo creato dal voto del 4 marzo sia frutto dell'irresponsabilità del centrodestra e del M5s; crediamo che il Pd debba essere pronto a confrontarsi con tutti, ma partendo dal rispetto dell'esito del voto: per questo non voteremo la fiducia a un governo guidato da Salvini o Di Maio. Significherebbe», si legge ancora nel testo, «infatti venire meno al mandato degli elettori democratici. È utile invece impegnarci a un lavoro comune, insieme a tutte le forze politiche, per riscrivere insieme le regole del nostro sistema politico-istituzionale».
«La conta promossa dai capigruppo per non fare la conta ancora non si era mai vista», ha subito reagito Andrea Orlando, esponente dell'ala «poltronista» del Pd, quella che pur di evitare il rischio di nuove elezioni sarebbe pronta anche a partecipare ai «vaffaday» di Beppe Grillo. Ieri pomeriggio, è stato proprio Matteo Renzi, che ha partecipato all'assemblea dei senatori del Pd, a ribadire la sua posizione. Il discorso di Renzi ai senatori è stato durissimo, in particolare in alcuni passaggi. Stando a quanto riferito da molti dei presenti, Renzi ha lamentato di essere continuamente bersagliato dall'interno del partito pur essendosi dimesso; si è detto sicuro di avere ancora dalla sua la maggioranza della direzione nazionale; ha definito «pazzesca» la pretesa dei suoi avversari interni di ridurlo al silenzio; infine, si è augurato che i suoi oppositori interni «non vogliano cogliere pretesti per rompere».
In serata, attraverso la sua newsletter, Renzi è stato ancora più esplicito: «Centrodestra e M5s», ha scritto Renzi, «si sono spartiti in modo scientifico le poltrone, ma non riescono a governare. Personalmente credo che la linea che il Pd ha tenuto, la linea del “tocca a loro", sia quella più giusta. Qualcuno dei nostri amici e compagni di partito, come Piero Fassino ieri, ha chiesto al Pd di allearsi con il M5s per un nuovo bipolarismo centrosinistra-centrodestra. A me», ha aggiunto Renzi, «sembra un errore. Chi ci ha votato, lo ha fatto sulla base di una proposta radicalmente alternativa al M5s. Un'alleanza con i grillini tradirebbe il mandato degli elettori. Credo di avere il dovere , prima ancora che il diritto, di illustrare le ragioni del mio radicale dissenso. Non ci divide», ha sottolineato Renzi, «solo una campagna elettorale basata su insulti, attacchi personali e promesse irrealizzabili: ci divide un'idea di futuro. E io che ho sempre combattuto la logica del partito-azienda di Berlusconi non credo sia nel Dna del Pd finire alleati con l'azienda-partito di Casaleggio».
Come se non ci fossero cose serie di cui discutere, ieri il Pd è riuscito a litigare anche su un sito internet realizzato da un militante, tale Alberico De Luca. Il sito, senzadime.it, riprende l'hashtag «#senzadime», parola d'ordine dei renziani contrari a un accordo con il M5s. Sul sito apparivano i nomi dei dirigenti favorevoli all'accordo con il M5s (tra i quali Dario Franceschini, Andrea Orlando, Francesco Boccia, Michele Emiliano, Piero Fassino), di quelli contrari (i renziani), e quelli di chi non si è ancora schierato (compreso Martina). Si è scatenato un tale putiferio, con dichiarazioni al vetriolo dei big antirenziani, a cominciare da Maurizio Martina, che hanno parlato di «liste di proscrizione», che i nomi sono spariti, sostituiti da «omissis». Oggi la giornata decisiva: sapremo se Renzi ha ancora in pugno il partito o se il suo progetto di dare vita a una nuova formazione politica dovrà subire una accelerazione. Si parla già, in caso di clamorosa spaccatura sulla relazione di Martina, di una assemblea nazionale il prossimo 12 maggio.
Carlo Tarallo
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Il Movimento torna provocare sui rapporti con Fi. Il lumbard Matteo Salvini non ci casca e lascia aperto uno spiraglio. Poi però avverte: «Sono pronto al preincarico». E chiede ai suoi su Facebook se tagliare del tutto i ponti. Luigi Di Maio spara: «Il Carroccio piegato al Cav per poltrone e soldi». In vista delle urne si punta su un proporzionale con doppio turno. Oggi in direzione Pd la conta sul dialogo con i pentastellati. Un documento firmato dai renziani contrari all'apertura spacca il partito. Un sito pubblica i nomi, poi oscurati, dei big favorevoli alla trattativa. Se la mozione di Maurizo Martina andrà sotto, scissione dietro l'angolo. Lo speciale contiene tre articoli. Così un bacio appassionato si trasforma in un duello con le lame. Fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio è melodramma, a dimostrazione che la ferita del governo bello e impossibile (5 stelle-Lega) non si è rimarginata e il rancore per l'abbraccio mancato diventa bile velenosa. Il leader grillino provoca duro: «Noi vogliamo tornare al voto, altri si oppongono perché, tra prestiti e fideiussioni, hanno qualche problemino con i soldi». Si riferisce alle asfittiche casse della Lega, parla a nuora perché suocera (Silvio Berlusconi) intenda. Ma ottiene il risultato di compattare ancora di più Lega e Forza Italia, e incassa la ruvida replica del segretario del Carroccio. «Non rispondo a insulti e sciocchezze su soldi e poltrone. Per noi lealtà e coerenza valgono più dei ministeri. Voglio dare un governo agli italiani, se i grillini preferiscono litigare come bambini arroganti lo faremo da soli. Bloccare anche la partenza dei lavori delle commissioni parlamentari è da irresponsabili». Dopo un mese di idillio e tre settimane di stizzite gelosie siamo agli stracci in cortile. Peccato, perché proprio i due vincitori delle elezioni del 4 marzo avevano ottenuto la golden share dagli italiani per provare a cambiare il Paese. Ora i destini degli ex consoli sono divergenti al massimo: mentre Di Maio sogna di tornare al voto per togliersi dal vicolo cieco, Salvini spinge per un preincarico e perché il centrodestra venga designato dal capo dello Stato a cercare in Parlamento la fiducia sul programma. Il rischio è grande, ma il leader della Lega preferisce continuare ad essere la soluzione e non il problema. Un ruolo che ha pagato in Molise, in Friuli e in immagine personale, visto che l'ultimo sondaggio di Nando Pagnoncelli lo indica come il potenziale premier più affidabile. Verso sera, su Facebook, il tono non cambia: «Continuo a voler costruire. Forse coerenza e lealtà sono fuori moda?». Poi la domanda diretta al suo popolo: «Che dite, insisto a cercare un dialogo (evitando Matteo Renzi e la sinistra) o è meglio tornare a votare?» Prima dell'insinuazione di Di Maio sui soldi e sulle mani legate, l'ultimo invito di Salvini somigliava all'ennesima mano tesa. «Sono umilmente a disposizione quando e dove si vuole, con chi si vuole, a sederci attorno a un tavolo con i 5 stelle partendo dalla riforma delle pensioni, del lavoro, del sistema fiscale, del sistema giudiziario, del sistema scolastico, punto per punto, senza professoroni, per decidere come si fanno queste riforme». E se tutto andasse a rotoli «noi siamo disponibili a prendere l'attuale legge elettorale e a mettere un premio di maggioranza in due righe che garantisca a chi prende un voto in più di governare. Non vogliamo perdere due anni». Da Euroflora a Genova aveva anche promesso di recapitare a Roma la margherita Itala, dedicata a Italo Calvino. «Un fiore resistente come me, lo porterò a Di Maio così potrà sfogliarlo: si lavora, non si lavora. Farò tutto il possibile fino all'ultimo minuto per dare un governo che duri cinque anni agli italiani e per occuparmi dell'emergenza del Paese che è il lavoro. Certo che questo, più che un governo, è un parto. Se si vuole farlo si fa e si parte. Se invece si vuole continuare a fare i capricci, proviamo a fare tutto da soli perché non ho più voglia di rispondere a insulti e fantasie». L'idea che il centrodestra vada in Parlamento a chiedere la fiducia al buio non piace a Sergio Mattarella, preoccupato per il contraccolpo sul piano internazionale in caso di fallimento. A quel punto i mercati, fin qui sonnolenti, potrebbero entrare in fibrillazione e far pagare agli italiani l'indecisionismo di chi (non) li governa. Il presidente non desidera neppure tornare alle urne, almeno non prima di avere cambiato la legge elettorale con il premio di maggioranza. Lui spinge per un governo di tregua o di garanzia, quello che sin dal primo giorno aveva segretamente sponsorizzato Berlusconi, con un premier istituzionale come il costituzionalista Sabino Cassese, e un programma che preveda legge elettorale, finanziaria e voto a primavera 2019 in ticket con le Europee. Le consultazioni sono previste venerdì o sabato. La Lega è contraria, non tanto per la formula che potrebbe anche avere un senso, ma per il rischio di una trappola del Quirinale. Ai vertici tutti ricordano il Ribaltone e il governo del presidente, che allora era Oscar Luigi Scalfaro: «Ci toccò Lamberto Dini che aprì la strada a cinque anni di sinistra a Palazzo Chigi». E poi il tormentone: «Ci deve andare bene il nome, sennò non se ne fa niente». In tutto ciò è singolare il silenzio del Cavaliere, impegnato in queste ore a lanciare la campagna Web per far confluire il 2x1.000 a Forza Italia. Slogan: «La legge vieta di donare più di 100.000 euro ai partiti, per questo Berlusconi non può finanziare FI come prima. Ora serve il tuo aiuto». Cerca alleati piccoli e grandi. In politica ne ha due di ferro: Mattarella e la clessidra, dove la sabbia sta finendo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salvini-crede-ancora-nel-governo-2565297673.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-m5s-tiene-alta-la-tensione-e-ragiona-sul-ballottaggio" data-post-id="2565297673" data-published-at="1765888403" data-use-pagination="False"> Il M5s tiene alta la tensione e ragiona sul ballottaggio Nel 2005, i candidati sindaci del Movimento 5 stelle vinsero cinque ballottaggi su cinque. Nel 2017, ne portarono a casa otto su dieci. Poi, l'inatteso stop sulla legge elettorale a chi voleva il doppio turno anche per le elezioni politiche. Ma adesso, con Luigi Di Maio messo nell'angolo da Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, e con Sergio Mattarella che sta costruendo mattoncino dopo mattoncino il «governo del presidente», i leader del Movimento ci stanno ripensando. «Sui ballottaggi dobbiamo aprire», è la nuova linea di uno stato maggiore che ormai parla solo e unicamente di elezioni anticipate. E che per il resto, anche nel rispondere al capo della Lega, appare nuovamente in campagna elettorale. «Siamo oggettivi come Sorrentino sul bunga bunga», ridacchia un senatore tra i più esperti, alludendo a Loro, il film che ha rilanciato l'anti berlusconismo duro e puro, inteso come capacità di «comprare tutto e tutti». E non ci vuole molta fantasia per capire a chi si riferisca Di Maio, a metà giornata, quando scaraventa prima su Twitter e poi sul Blog delle stelle la risposta all'ennesimo «invito» al dialogo del capo del Carroccio: «Si è piegato all'ex Cavaliere solo per le poltrone. Noi vogliamo andare subito al voto. Altri si oppongono perché, tra prestiti e fideiussioni, magari hanno qualche problemino con i soldi». E Alessandro Di Battista, che gli altri leader di partito ritengono incarni un «dopo Di Maio» neppure troppo lontano, su Facebook conferma il «Tutti uniti al voto con Luigi» e rilancia un articolo di Selvaggia Lucarelli sul Fatto quotidiano in cui non solo si difende Roberto Fico per la storia della colf della sua compagna Yvonne, ma si accusa di scorrettezze Le Iene, rivelando che la donna sarebbe seriamente malata. «Insomma, macchina del fango reloaded», è il ritornello in casa pentastellata. I toni alti, quotidianamente sempre più alti, per i capi dei 5 stelle devono servire a due scopi: far capire a Mattarella che il Movimento non sosterrà alcun governo del presidente o di tregua e far vedere a Salvini quanto il M5s sarà pronto ad approfittare in termini di consenso elettorale delle «avventure governiste» dell'unico altro partito anti sistema. «La Lega ha ben presente che chi di noi due resta all'opposizione da solo, si mangia l'altro», si ripetono i capi del Movimento. E in piena coerenza con questa campagna elettorale permanente, ecco che torna l'attenzione sulla legge elettorale. Con una significativa apertura verso il doppio turno, che almeno ha il merito di assegnare la vittoria a qualcuno. Una fonte autorevole del Movimento riassume lo stato dell'arte di una discussione interna assai avanzata: «La nostra base di partenza è l'idea di un proporzionale con forte correzione maggioritaria, grazie a collegi molto piccoli. Ma sui ballottaggi la riflessione è aperta e non ci sono preclusioni». Di Maio e compagni ritengono che il doppio turno possa piacere molto anche a un Salvini sempre più convinto di essere il prossimo capo del centrodestra. E che soprattutto possa stroncare il sogno «macronista» di Matteo Renzi, che oggi arriverebbe terzo. Contemporaneamente, con le urne torna il tema del vincolo sui due mandati. Un vincolo suicida per la compattezza dei gruppi parlamentari, ma che sta nel Dna del Movimento. Se si votasse a ottobre, di fronte a una legislatura di sei mesi appena, potrebbe essere però aggirato con la ripresentazione in blocco delle stesse liste del 4 marzo. Se dunque il M5s si prepara a un'opposizione dura, tuttavia respinge l'accusa di ostruzionismo arrivata da Salvini, che parla di commissioni parlamentari bloccate dai grillini per pura ripicca. Danilo Toninelli e Giulia Grillo, i due capigruppo pentastellati, fanno notare che nel 2013 fu il Movimento a chiedere la composizione delle commissioni ancor prima che fallisse il tentativo di Pier Luigi Bersani. Ma soprattutto, sempre secondo M5s, «ci hanno sempre detto tutti quanti che è impossibile decidere persino gli uffici di presidenza di una singola commissione, se non si sa chi è in maggioranza e chi all'opposizione». Francesco Bonazzi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salvini-crede-ancora-nel-governo-2565297673.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="nel-pd-sono-arrivati-alle-liste-di-proscrizione" data-post-id="2565297673" data-published-at="1765888403" data-use-pagination="False"> Nel Pd sono arrivati alle liste di proscrizione «Alle forze che hanno vinto diciamo una cosa sola: ora non avete più alibi. Il tempo della propaganda è finito. Cari Di Maio e Salvini prendetevi le vostre responsabilità: i cittadini vi hanno votato per governare, ora fatelo». Questo tweet oggi potrebbe scriverlo Matteo Renzi: sintetizza in modo perfetto la posizione dell'ex rottamatore, che in molti, nel Pd, vorrebbero rottamare. Invece, lo scrisse Maurizio Martina, il 12 marzo scorso. Martina pubblicò questo tweet alle 17 e 17: se fosse stato un tantino scaramantico, il reggente dei Dem avrebbe fatto più attenzione almeno all'orario. Oggi alle 15, infatti, la direzione nazionale del Pd, convocata per esprimersi sull'avvio della trattativa di governo con il M5s, potrebbe ritrovarsi, salvo colpi di scena, a votare la «fiducia» a Martina, che si ritrova, un mese e mezzo dopo aver preso il posto di Renzi grazie a Renzi, a capitanare gli anti-Renzi del partito, e dunque a vacillare pericolosamente. Quella di ieri è stata una giornata pesantissima per il Pd. In mattinata, i renziani hanno messo a punto un documento, che ha come primo firmatario il coordinatore della segreteria, Lorenzo Guerini, che oggi dovrebbe essere messo all'ordine del giorno della direzione. Il documento, che i capigruppo alla Camera e al Senato, Graziano Delrio e Andrea Marcucci, hanno sottoposto ai parlamentari, ha raccolto le firme di 77 deputati su 105 e di 39 senatori su 52. In totale, 120 su 209 componenti della direzione nazionale hanno aderito alla proposta di Guerini. «Crediamo dannoso», recita il documento, «fare conte interne nella direzione nazionale; crediamo che lo stallo creato dal voto del 4 marzo sia frutto dell'irresponsabilità del centrodestra e del M5s; crediamo che il Pd debba essere pronto a confrontarsi con tutti, ma partendo dal rispetto dell'esito del voto: per questo non voteremo la fiducia a un governo guidato da Salvini o Di Maio. Significherebbe», si legge ancora nel testo, «infatti venire meno al mandato degli elettori democratici. È utile invece impegnarci a un lavoro comune, insieme a tutte le forze politiche, per riscrivere insieme le regole del nostro sistema politico-istituzionale». «La conta promossa dai capigruppo per non fare la conta ancora non si era mai vista», ha subito reagito Andrea Orlando, esponente dell'ala «poltronista» del Pd, quella che pur di evitare il rischio di nuove elezioni sarebbe pronta anche a partecipare ai «vaffaday» di Beppe Grillo. Ieri pomeriggio, è stato proprio Matteo Renzi, che ha partecipato all'assemblea dei senatori del Pd, a ribadire la sua posizione. Il discorso di Renzi ai senatori è stato durissimo, in particolare in alcuni passaggi. Stando a quanto riferito da molti dei presenti, Renzi ha lamentato di essere continuamente bersagliato dall'interno del partito pur essendosi dimesso; si è detto sicuro di avere ancora dalla sua la maggioranza della direzione nazionale; ha definito «pazzesca» la pretesa dei suoi avversari interni di ridurlo al silenzio; infine, si è augurato che i suoi oppositori interni «non vogliano cogliere pretesti per rompere». In serata, attraverso la sua newsletter, Renzi è stato ancora più esplicito: «Centrodestra e M5s», ha scritto Renzi, «si sono spartiti in modo scientifico le poltrone, ma non riescono a governare. Personalmente credo che la linea che il Pd ha tenuto, la linea del “tocca a loro", sia quella più giusta. Qualcuno dei nostri amici e compagni di partito, come Piero Fassino ieri, ha chiesto al Pd di allearsi con il M5s per un nuovo bipolarismo centrosinistra-centrodestra. A me», ha aggiunto Renzi, «sembra un errore. Chi ci ha votato, lo ha fatto sulla base di una proposta radicalmente alternativa al M5s. Un'alleanza con i grillini tradirebbe il mandato degli elettori. Credo di avere il dovere , prima ancora che il diritto, di illustrare le ragioni del mio radicale dissenso. Non ci divide», ha sottolineato Renzi, «solo una campagna elettorale basata su insulti, attacchi personali e promesse irrealizzabili: ci divide un'idea di futuro. E io che ho sempre combattuto la logica del partito-azienda di Berlusconi non credo sia nel Dna del Pd finire alleati con l'azienda-partito di Casaleggio». Come se non ci fossero cose serie di cui discutere, ieri il Pd è riuscito a litigare anche su un sito internet realizzato da un militante, tale Alberico De Luca. Il sito, senzadime.it, riprende l'hashtag «#senzadime», parola d'ordine dei renziani contrari a un accordo con il M5s. Sul sito apparivano i nomi dei dirigenti favorevoli all'accordo con il M5s (tra i quali Dario Franceschini, Andrea Orlando, Francesco Boccia, Michele Emiliano, Piero Fassino), di quelli contrari (i renziani), e quelli di chi non si è ancora schierato (compreso Martina). Si è scatenato un tale putiferio, con dichiarazioni al vetriolo dei big antirenziani, a cominciare da Maurizio Martina, che hanno parlato di «liste di proscrizione», che i nomi sono spariti, sostituiti da «omissis». Oggi la giornata decisiva: sapremo se Renzi ha ancora in pugno il partito o se il suo progetto di dare vita a una nuova formazione politica dovrà subire una accelerazione. Si parla già, in caso di clamorosa spaccatura sulla relazione di Martina, di una assemblea nazionale il prossimo 12 maggio. Carlo Tarallo
Ansa
Suo figlio, Naveed Akram, 24 anni, è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza della polizia. Le piste investigative principali restano due. Da un lato, la cosiddetta pista iraniana, ritenuta plausibile da ambienti israeliani; dall’altro, l’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato islamico, avanzata da alcuni media, anche se l’organizzazione jihadista - che solitamente rivendica con rapidità le proprie azioni - non ha diffuso alcun messaggio di rivendicazione. Un elemento rilevante emerso dalle indagini è il ritrovamento, nell’auto di Naveed Akram, di una bandiera nera del califfato e di ordigni poi disinnescati dagli artificieri.
In attesa di chiarire chi vi sia realmente dietro la strage di Hanukkah, quanto accaduto domenica in Australia non appare come un evento isolato o imprevedibile. Al contrario, si inserisce in una lunga scia di attacchi e intimidazioni antisemite contro la comunità ebraica e le sue istituzioni. Più in generale, rappresenta l’esito di almeno vent’anni di progressiva penetrazione jihadista nel Paese. A dimostrarlo sono anche i numeri dei foreign fighter australiani: circa 200 cittadini avrebbero raggiunto, tra il 2011 e il 2019, la Siria e l’Iraq per unirsi a organizzazioni jihadiste come lo Stato islamico e il Fronte Al Nusra. In Australia, per motivi incomprensibili le autorità non monitorano da anni ambienti di culto radicalizzati dove si inneggia ad Al Qaeda, Isis, Hamas, Hezbollah e Iran, alimentando un clima di radicalizzazione che ha prodotto gravi conseguenze.
Tra i principali predicatori radicali figura Wisam Haddad, noto anche come Abu Ousayd, leader spirituale di una rete pro Isis, individuata da un’inchiesta della Abc. Nonostante fosse sotto osservazione da decenni, non è mai stato formalmente accusato di terrorismo, un’anomalia che evidenzia l’inerzia dello Stato. Haddad feroce antisemita, predica una visione intransigente della Sharia, rifiutando il concetto di Stato e nazionalismo, attirando giovani radicalizzati e facilmente manipolabili. La sua rete ha contribuito al passaggio dalla radicalizzazione verbale al reclutamento operativo. Uno degli attori chiave di questa rete è Youssef Uweinat, ex reclutatore dell’Isis. Conosciuto come Abu Musa Al Maqdisi, ha adescato minorenni australiani, spingendoli alla violenza tramite chat criptate e propaganda jihadista, con messaggi espliciti, immagini di decapitazioni e video di bambini addestrati all’uso delle armi. Condannato nel 2019, Uweinat è stato rilasciato nel 2023 senza misure di sorveglianza severe e ha riallacciato i contatti con Haddad. Inoltre, Uweinat faceva parte di una cellula Isis infiltrata da una fonte dell’Asio, l’intelligence australiana, che ha documentato i piani di attacco e i legami con jihadisti all’estero.
Anche Joseph Saadieh, ex leader giovanile dell’ Al Madina Dawah Centre, ha fatto parte della rete. Arrestato nel 2021 con prove di supporto all’Isis, è stato rilasciato dopo un patteggiamento per un reato minore. L’inchiesta Abc riporta inoltre il ritorno di figure storiche del jihadismo australiano, come Abdul Nacer Benbrika, condannato per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, presunto leader di una cellula Isis a Sydney. Questi ritorni indicano un tentativo di rilancio della rete jihadista. Secondo l’Asio, l’Isis ha recuperato capacità operative, aumentando il rischio di attentati in Australia. Tuttavia, nonostante l’allarme lanciato dalle agenzie, lo Stato australiano non sembra in grado di fermare le figure chiave del jihadismo domestico. Haddad continua a predicare liberamente, nonostante accuse di incitamento all’odio antisemita, e i suoi interlocutori principali sono ex detenuti per terrorismo senza misure di sorveglianza. Questo scenario solleva molti interrogativi sulla sostenibilità di una strategia che si limita a monitorare senza intervenire sui nodi ideologici e relazionali del jihadismo interno. La storia di Uweinat, Saadieh e altre figure simili suggerisce che la minaccia jihadista non emerge dal nulla, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza e sulla capacità dello Stato di affrontare la radicalizzazione interna in modo efficace. Tutto questo ridimensiona la retorica dell’Australia come Paese blindato, dove entrano solo «i migliori» e solo a determinate condizioni. La realtà racconta ben altro: reti jihadiste attive, predicatori radicali liberi di operare e militanti già condannati che tornano a muoversi senza alcun argine. Non si tratta di una falla nei controlli di frontiera, ma di una resa dello Stato sul fronte interno. La radicalizzazione è stata lasciata prosperare come testimoniano le recenti manifestazioni in cui simboli dell’Isis e di Al Qaeda sono stati mostrati senza conseguenze, rendendo il contesto ancora più esplosivo.
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