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2023-02-07
Rushdie ritorna dopo l’attentato con una favola indiana femminista
Salman Rushdie (Ansa)
Salman Rushdie è vivo. Lo è nel senso in cui lo siamo tutti noi, dato che, fortunatamente, è sopravvissuto all’accoltellamento del 12 agosto, quando a Chautauqua, nello stato di New York, l’estremista musulmano Hadi Matar lo ha attaccato in quanto nemico dell’islam. Ha perso un occhio e non ha sensibilità in alcune dita della mano, «ma, considerando quello che è successo, non sto poi così male», ha confessato in questi giorni al New Yorker. Ma, soprattutto, Rushdie è vivo nel senso più pieno in cui può esserlo uno scrittore, ovvero attraverso la propria opera.
Oggi esce infatti La città della vittoria, il suo ultimo romanzo, edito in Italia da Mondadori. Un testo completato prima dell’accoltellamento (dal quale, psicologicamente, lo scrittore sta cercando di riprendersi: «Mi siedo per scrivere e non succede nulla», ha confessato nella medesima intervista). E certo l’uscita di un romanzo con un titolo così sfolgorante è un bel segnale contro le intolleranze di ogni genere. Dopo il ritratto di Maometto nei Versetti satanici che gli costò la fatwa da parte dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni - che in realtà cercava solo di rubare la scena ai sunniti afghani che proprio in quei giorni cacciavano i russi atei dal loro Paese - Rushdie inizia il suo romanzo ancora con una polemica religiosa. Stavolta, tuttavia, per quanto siano bellicosi gli induisti radicali, la cosa non gli costerà una condanna a morte. All’inizio de La città della vittoria troviamo infatti una fila di donne pronte per il sati, l’antica pratica indù, oggi proibita, secondo cui, una volta morto il marito, la vedova doveva gettarsi viva sulla sua pira funeraria. Siamo nell’India del XIV secolo e la giovane Pampa Kampana assiste attonita al sacrificio della madre. In quel momento prende la decisione della sua vita: «Avrebbe riso in faccia alla morte e si sarebbe rivolta verso la vita. Non avrebbe sacrificato il proprio corpo solo per seguire nell’aldilà degli uomini morti». Si è già capito dove andremo a parare: la piccola Pampa in quel momento si fonde con la dea Parvati, acquisisce enormi poteri, una straordinaria longevità e mira a costruire una grande città chiamata Bisnaga (letteralmente la «città della vittoria», appunto), in cui le donne saranno uguali agli uomini. Rilettura fantastica dell’impero Vijayanagar, La città della vittoria è anche una risposta al libro di V. S. Naipaul, Una civiltà ferita: l’India, in cui l’invasione musulmana viene aspramente criticata con toni che sono stati fatti propri dal movimento nazionalista Hindutva e dal premier Narendra Modi. E che dire di altre suggestioni politiche, come quando nel romanzo fanno irruzione le misteriose e temibili scimmie rosa: «Dicono che le scimmie rosa non hanno quasi peli sul corpo, e che la pelle nuda è di un orribile colore pallido. Dicono che le scimmie rosa sono grosse e ostili e si muovono in grandi gruppi e vogliono impadronirsi della foresta». Non solo: «A quanto pare non ci sono scimmie femmine. È un esercito di soli maschi». Scimmie senza peli, di colore rosa, che si impadroniscono di terre altrui e hanno un branco di soli maschi: un misto di critica al colonialismo e all’«eteropatriarcato» che fa molto «intersezionale». Occhio, però: tra Rushdie e la nuova sinistra woke non corre buon sangue.
Nel 2015, dopo gli attentati di Parigi, disse sconsolato in un’intervista: «Se I versetti satanici fosse pubblicato oggi sarebbero in molti a dire che è un libro che offende una minoranza. Avrei tante più difficoltà». Per poi rincarare la dose: «Una parte della sinistra in Inghilterra e in Europa è alleata dell’islamismo, ed è un bel problema». Nel 2020, Rushdie, insieme ad altri scrittori come Margaret Atwood e JK Rowling, è stato tra i firmatari di una lettera aperta pubblicata sulla rivista Harper’s Magazine contro la cancel culture. Anche lui, del resto, ha avuto il suo piccolo Me too, quando l’ex moglie Padma Lakshmi lo ha descritto come «ossessionato dal sesso, geloso e molto insicuro». Mascolinità tossica in purezza, secondo il gergo della nuova sinistra. Al conflitto tra i liberal classici alla Rushdie e i loro nipotini scemi woke non va tuttavia dato il senso di un autentico conflitto valoriale. Si tratta, semmai, di una contraddizione interna alla sinistra.
Da sempre vicino ai democratici americani, nonché loro elettore da quando, nel 2016, ha acquisito la cittadinanza statunitense, Rushdie ha sostenuto la guerra alla Serbia e quella all’Afghanistan, con qualche riserva solo per quella all’Iraq, pur auspicando la rimozione di Saddam Hussein. Eventi in seguito ai quali il Kosovo è divenuto un focolaio islamista in piena Europa, l’Iraq ha cessato di essere uno Stato laico e l’Afghanistan… è tornato esattamente al punto di partenza. È stato vicino al movimento Occupy, che ha segnato profondamente l’immaginario della stessa sinistra woke. E il suo sogno femminista e multiculturale sembra la versione educata dell’incubo propugnato in modo sgrammaticato dalla cancel culture. La città della vittoria è stato definito un romanzo sul «potere delle parole». Ma è proprio nella convinzione che le parole facciano le cose che i nuovi censori accenderebbero roghi per chi sbaglia un pronome.
Gadda soldato: altro che Hemingway
«La demenza, l’orrore, il male, la povertà, la fame, l’asservimento alle leggi brutali sono oggi il collegio de’ miei compagni; le ore passano nel desiderio atroce del cibo, nella rapida voluttà del deglutire, nell’orrore della fame insaziata, nel freddo dell’inverno nordico, nella solitudine tra la folla». Questa è la Grande guerra, narrata senza filtri e ricami romanzeschi edulcorati fino all’infingimento, cui non si sottrasse neanche Hemingway. Alla sua voce americana, retorica e sopravvalutata, si sovrappone la prepotenza iperrealista di Carlo Emilio Gadda in Giornale di guerra e di prigionia, giustamente riproposto dalla Adelphi oggi che incombono la memoria di un conflitto successivo a quello che per venti anni fu considerato unico e il rischio attuale di un terzo, che non lascerebbe tracce dell’umanità.Il conflitto che inaugurò il Novecento fu lo spartiacque non solo tra il XIX e il XX secolo, ma anche tra il passato pieno di aspettative positiviste di «magnifiche sorti e progressive» e un futuro dalle tinte dell’apocalisse. Gadda vi fu direttamente coinvolto per rispondere al richiamo patriottico che nel 1915 trasformò l’Italia fresca di unificazione in potenza militare, capace di intervenire di propria iniziativa alla conquista di uno spazio geopolitico Il ricorrere del termine «orrore» non può non rimandare ad Apocalypse Now. Con sessant’anni di anticipo su Francis Ford Coppola, Gadda cattura nello sguardo e soprattutto nella carne, l’atrocità della guerra. Non c’è epica, ancora meno vanagloria posticcia, nel suo vivere dentro l’inane e immane tragedia del soldato contro soldato.L’insieme compone una sorta di enciclopedia autobiografica. Gadda la riempie di nomi, circostanze, dibattiti ideali, osservazioni su entrambi i fronti. Non solo il nemico germanico. Anche il contingente nazionale, con precisione di dettagli: «Il mio reparto, 89º, è costituito dal 5º. Reggimento, ma è amministrato dal Deposito del 5º. – Consta di elemento lombardi (comaschi bergamaschi, bresciani) che formano la mia sezione, di elementi veneti che formano la sezione Iº. (Ten. Venier); la 3ª. Sez. (Sottotenente Musizza) è mista. Il comandante è il Cap. Mario Ciresi proveniente dalla truppe coloniali eritree. –»Precisione che conserva negli scorci d’azione: «Si fa fuoco la notte sui lavori di trinceramento e d’apprestamento nemici: è questo una specie di tiro d’interdizione: ogni dieci-quindici minuti si spara, con la macchina precisamente puntata, una breve serie di colpi a fuoco lento». È la guerra di trincea raccontata con nessun indugio spettacolare e ritoccato. L’esposizione sotto forma di cronaca. Fanno da contrappunto le mappe, gli schizzi disegnati da Gadda, gli incidenti fortuiti, i malanni («questo fottuto mal di pancia), le lettere da e a casa, i riferimenti familiari, la quotidianità di uno stato bellico dall’apparenza di prolungarsi all’infinito.In queste pagine, Gadda spunta alla letteratura con una prosa già compiuta e nello stesso tempo in via di divenire. E lo fa con un affondo viscerale nel cuore di tenebra dello scontro diretto, da soldato a soldato. Omesse anche certe divagazioni soverchie di Emilio Lussu in Un anno sull’Altopiano, senza cui Francesco Rosi non avrebbe mai potuto trarne nel il film Uomini contro.Se Giacomo Debenedetti poté a ragione parlare della «cattedrale Proust», la stessa metafora architettonica si applica a Carlo Emilio Gadda. Dalla decomposizione del giallo in Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana alla reinvenzione fantastica del Nordovest italiano de La cognizione del dolore, composta quasi in parallelo con quella del nordest de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, per finire con la satira del pamphlet Eros e Priapo: da furore a cenere, composto nel 1945 ma uscito nel 1967, l’estensione letteraria dell’autore milanese, già in questa rassegna tutt’altro che esauriente, non concede requie al lettore avido di perdersi, appunto, fra le navate di un intelletto creativo. Il Giornale di guerra e di prigionia è già di per sé un contenitore multimediale, composto di parole scaturite non dalla mente ma dalla corporeità narrativa di Gadda.Sul piano editoriale, il testo è suddiviso per annate e date specifiche, lungo l’arco che va dal 1915 al 1919, con un corredo fotografico utilissimo a accrescere la concretezza del racconto. E quando per Gadda arriva la prigionia, è lapidario: «Io gettai anche la mia rivoltella e tutti lasciarono i fucili, lì dov’erano…»Non vi sarà riscatto da Caporetto e dagli errori di strategia del comando italiano. Ma Gadda non vi si attarda per sterile antimilitarismo. Rapporta ogni cosa al proprio ruolo di cellula dell’immensa massa tumorale che si propagava a metastasi nelle trincee e sui campi dell’Europa, divorando vincitori e vinti.All’inizio di Morte nel pomeriggio, Hemingway scrive che per un narratore non c’è di meglio che formarsi alla vista della violenza e del sangue, e li cerca nelle arene delle corride. Diversamente da lui, Gadda li trovò malgré soi.
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Lo scrittore, accoltellato da un fanatico musulmano la scorsa estate, di nuovo in libreria con un romanzo. Critico nei confronti della sinistra woke, in realtà non fa che ripeterne le medesime idee in modo educato. Adelphi ripubblica il «Giornale di guerra e di prigionia», in cui rivive l’esperienza del primo conflitto mondiale con una prosa viva che anticipa «Apocalypse now».Lo speciale contiene due articoli. Salman Rushdie è vivo. Lo è nel senso in cui lo siamo tutti noi, dato che, fortunatamente, è sopravvissuto all’accoltellamento del 12 agosto, quando a Chautauqua, nello stato di New York, l’estremista musulmano Hadi Matar lo ha attaccato in quanto nemico dell’islam. Ha perso un occhio e non ha sensibilità in alcune dita della mano, «ma, considerando quello che è successo, non sto poi così male», ha confessato in questi giorni al New Yorker. Ma, soprattutto, Rushdie è vivo nel senso più pieno in cui può esserlo uno scrittore, ovvero attraverso la propria opera. Oggi esce infatti La città della vittoria, il suo ultimo romanzo, edito in Italia da Mondadori. Un testo completato prima dell’accoltellamento (dal quale, psicologicamente, lo scrittore sta cercando di riprendersi: «Mi siedo per scrivere e non succede nulla», ha confessato nella medesima intervista). E certo l’uscita di un romanzo con un titolo così sfolgorante è un bel segnale contro le intolleranze di ogni genere. Dopo il ritratto di Maometto nei Versetti satanici che gli costò la fatwa da parte dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni - che in realtà cercava solo di rubare la scena ai sunniti afghani che proprio in quei giorni cacciavano i russi atei dal loro Paese - Rushdie inizia il suo romanzo ancora con una polemica religiosa. Stavolta, tuttavia, per quanto siano bellicosi gli induisti radicali, la cosa non gli costerà una condanna a morte. All’inizio de La città della vittoria troviamo infatti una fila di donne pronte per il sati, l’antica pratica indù, oggi proibita, secondo cui, una volta morto il marito, la vedova doveva gettarsi viva sulla sua pira funeraria. Siamo nell’India del XIV secolo e la giovane Pampa Kampana assiste attonita al sacrificio della madre. In quel momento prende la decisione della sua vita: «Avrebbe riso in faccia alla morte e si sarebbe rivolta verso la vita. Non avrebbe sacrificato il proprio corpo solo per seguire nell’aldilà degli uomini morti». Si è già capito dove andremo a parare: la piccola Pampa in quel momento si fonde con la dea Parvati, acquisisce enormi poteri, una straordinaria longevità e mira a costruire una grande città chiamata Bisnaga (letteralmente la «città della vittoria», appunto), in cui le donne saranno uguali agli uomini. Rilettura fantastica dell’impero Vijayanagar, La città della vittoria è anche una risposta al libro di V. S. Naipaul, Una civiltà ferita: l’India, in cui l’invasione musulmana viene aspramente criticata con toni che sono stati fatti propri dal movimento nazionalista Hindutva e dal premier Narendra Modi. E che dire di altre suggestioni politiche, come quando nel romanzo fanno irruzione le misteriose e temibili scimmie rosa: «Dicono che le scimmie rosa non hanno quasi peli sul corpo, e che la pelle nuda è di un orribile colore pallido. Dicono che le scimmie rosa sono grosse e ostili e si muovono in grandi gruppi e vogliono impadronirsi della foresta». Non solo: «A quanto pare non ci sono scimmie femmine. È un esercito di soli maschi». Scimmie senza peli, di colore rosa, che si impadroniscono di terre altrui e hanno un branco di soli maschi: un misto di critica al colonialismo e all’«eteropatriarcato» che fa molto «intersezionale». Occhio, però: tra Rushdie e la nuova sinistra woke non corre buon sangue. Nel 2015, dopo gli attentati di Parigi, disse sconsolato in un’intervista: «Se I versetti satanici fosse pubblicato oggi sarebbero in molti a dire che è un libro che offende una minoranza. Avrei tante più difficoltà». Per poi rincarare la dose: «Una parte della sinistra in Inghilterra e in Europa è alleata dell’islamismo, ed è un bel problema». Nel 2020, Rushdie, insieme ad altri scrittori come Margaret Atwood e JK Rowling, è stato tra i firmatari di una lettera aperta pubblicata sulla rivista Harper’s Magazine contro la cancel culture. Anche lui, del resto, ha avuto il suo piccolo Me too, quando l’ex moglie Padma Lakshmi lo ha descritto come «ossessionato dal sesso, geloso e molto insicuro». Mascolinità tossica in purezza, secondo il gergo della nuova sinistra. Al conflitto tra i liberal classici alla Rushdie e i loro nipotini scemi woke non va tuttavia dato il senso di un autentico conflitto valoriale. Si tratta, semmai, di una contraddizione interna alla sinistra.Da sempre vicino ai democratici americani, nonché loro elettore da quando, nel 2016, ha acquisito la cittadinanza statunitense, Rushdie ha sostenuto la guerra alla Serbia e quella all’Afghanistan, con qualche riserva solo per quella all’Iraq, pur auspicando la rimozione di Saddam Hussein. Eventi in seguito ai quali il Kosovo è divenuto un focolaio islamista in piena Europa, l’Iraq ha cessato di essere uno Stato laico e l’Afghanistan… è tornato esattamente al punto di partenza. È stato vicino al movimento Occupy, che ha segnato profondamente l’immaginario della stessa sinistra woke. E il suo sogno femminista e multiculturale sembra la versione educata dell’incubo propugnato in modo sgrammaticato dalla cancel culture. La città della vittoria è stato definito un romanzo sul «potere delle parole». 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Alla sua voce americana, retorica e sopravvalutata, si sovrappone la prepotenza iperrealista di Carlo Emilio Gadda in Giornale di guerra e di prigionia, giustamente riproposto dalla Adelphi oggi che incombono la memoria di un conflitto successivo a quello che per venti anni fu considerato unico e il rischio attuale di un terzo, che non lascerebbe tracce dell’umanità.Il conflitto che inaugurò il Novecento fu lo spartiacque non solo tra il XIX e il XX secolo, ma anche tra il passato pieno di aspettative positiviste di «magnifiche sorti e progressive» e un futuro dalle tinte dell’apocalisse. Gadda vi fu direttamente coinvolto per rispondere al richiamo patriottico che nel 1915 trasformò l’Italia fresca di unificazione in potenza militare, capace di intervenire di propria iniziativa alla conquista di uno spazio geopolitico Il ricorrere del termine «orrore» non può non rimandare ad Apocalypse Now. Con sessant’anni di anticipo su Francis Ford Coppola, Gadda cattura nello sguardo e soprattutto nella carne, l’atrocità della guerra. Non c’è epica, ancora meno vanagloria posticcia, nel suo vivere dentro l’inane e immane tragedia del soldato contro soldato.L’insieme compone una sorta di enciclopedia autobiografica. Gadda la riempie di nomi, circostanze, dibattiti ideali, osservazioni su entrambi i fronti. Non solo il nemico germanico. Anche il contingente nazionale, con precisione di dettagli: «Il mio reparto, 89º, è costituito dal 5º. Reggimento, ma è amministrato dal Deposito del 5º. – Consta di elemento lombardi (comaschi bergamaschi, bresciani) che formano la mia sezione, di elementi veneti che formano la sezione Iº. (Ten. Venier); la 3ª. Sez. (Sottotenente Musizza) è mista. Il comandante è il Cap. Mario Ciresi proveniente dalla truppe coloniali eritree. –»Precisione che conserva negli scorci d’azione: «Si fa fuoco la notte sui lavori di trinceramento e d’apprestamento nemici: è questo una specie di tiro d’interdizione: ogni dieci-quindici minuti si spara, con la macchina precisamente puntata, una breve serie di colpi a fuoco lento». È la guerra di trincea raccontata con nessun indugio spettacolare e ritoccato. L’esposizione sotto forma di cronaca. Fanno da contrappunto le mappe, gli schizzi disegnati da Gadda, gli incidenti fortuiti, i malanni («questo fottuto mal di pancia), le lettere da e a casa, i riferimenti familiari, la quotidianità di uno stato bellico dall’apparenza di prolungarsi all’infinito.In queste pagine, Gadda spunta alla letteratura con una prosa già compiuta e nello stesso tempo in via di divenire. E lo fa con un affondo viscerale nel cuore di tenebra dello scontro diretto, da soldato a soldato. Omesse anche certe divagazioni soverchie di Emilio Lussu in Un anno sull’Altopiano, senza cui Francesco Rosi non avrebbe mai potuto trarne nel il film Uomini contro.Se Giacomo Debenedetti poté a ragione parlare della «cattedrale Proust», la stessa metafora architettonica si applica a Carlo Emilio Gadda. Dalla decomposizione del giallo in Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana alla reinvenzione fantastica del Nordovest italiano de La cognizione del dolore, composta quasi in parallelo con quella del nordest de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, per finire con la satira del pamphlet Eros e Priapo: da furore a cenere, composto nel 1945 ma uscito nel 1967, l’estensione letteraria dell’autore milanese, già in questa rassegna tutt’altro che esauriente, non concede requie al lettore avido di perdersi, appunto, fra le navate di un intelletto creativo. Il Giornale di guerra e di prigionia è già di per sé un contenitore multimediale, composto di parole scaturite non dalla mente ma dalla corporeità narrativa di Gadda.Sul piano editoriale, il testo è suddiviso per annate e date specifiche, lungo l’arco che va dal 1915 al 1919, con un corredo fotografico utilissimo a accrescere la concretezza del racconto. E quando per Gadda arriva la prigionia, è lapidario: «Io gettai anche la mia rivoltella e tutti lasciarono i fucili, lì dov’erano…»Non vi sarà riscatto da Caporetto e dagli errori di strategia del comando italiano. Ma Gadda non vi si attarda per sterile antimilitarismo. Rapporta ogni cosa al proprio ruolo di cellula dell’immensa massa tumorale che si propagava a metastasi nelle trincee e sui campi dell’Europa, divorando vincitori e vinti.All’inizio di Morte nel pomeriggio, Hemingway scrive che per un narratore non c’è di meglio che formarsi alla vista della violenza e del sangue, e li cerca nelle arene delle corride. Diversamente da lui, Gadda li trovò malgré soi.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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