2023-02-07
Rushdie ritorna dopo l’attentato con una favola indiana femminista
Lo scrittore, accoltellato da un fanatico musulmano la scorsa estate, di nuovo in libreria con un romanzo. Critico nei confronti della sinistra woke, in realtà non fa che ripeterne le medesime idee in modo educato. Adelphi ripubblica il «Giornale di guerra e di prigionia», in cui rivive l’esperienza del primo conflitto mondiale con una prosa viva che anticipa «Apocalypse now».Lo speciale contiene due articoli. Salman Rushdie è vivo. Lo è nel senso in cui lo siamo tutti noi, dato che, fortunatamente, è sopravvissuto all’accoltellamento del 12 agosto, quando a Chautauqua, nello stato di New York, l’estremista musulmano Hadi Matar lo ha attaccato in quanto nemico dell’islam. Ha perso un occhio e non ha sensibilità in alcune dita della mano, «ma, considerando quello che è successo, non sto poi così male», ha confessato in questi giorni al New Yorker. Ma, soprattutto, Rushdie è vivo nel senso più pieno in cui può esserlo uno scrittore, ovvero attraverso la propria opera. Oggi esce infatti La città della vittoria, il suo ultimo romanzo, edito in Italia da Mondadori. Un testo completato prima dell’accoltellamento (dal quale, psicologicamente, lo scrittore sta cercando di riprendersi: «Mi siedo per scrivere e non succede nulla», ha confessato nella medesima intervista). E certo l’uscita di un romanzo con un titolo così sfolgorante è un bel segnale contro le intolleranze di ogni genere. Dopo il ritratto di Maometto nei Versetti satanici che gli costò la fatwa da parte dell’ayatollah Ruhollah Khomeyni - che in realtà cercava solo di rubare la scena ai sunniti afghani che proprio in quei giorni cacciavano i russi atei dal loro Paese - Rushdie inizia il suo romanzo ancora con una polemica religiosa. Stavolta, tuttavia, per quanto siano bellicosi gli induisti radicali, la cosa non gli costerà una condanna a morte. All’inizio de La città della vittoria troviamo infatti una fila di donne pronte per il sati, l’antica pratica indù, oggi proibita, secondo cui, una volta morto il marito, la vedova doveva gettarsi viva sulla sua pira funeraria. Siamo nell’India del XIV secolo e la giovane Pampa Kampana assiste attonita al sacrificio della madre. In quel momento prende la decisione della sua vita: «Avrebbe riso in faccia alla morte e si sarebbe rivolta verso la vita. Non avrebbe sacrificato il proprio corpo solo per seguire nell’aldilà degli uomini morti». Si è già capito dove andremo a parare: la piccola Pampa in quel momento si fonde con la dea Parvati, acquisisce enormi poteri, una straordinaria longevità e mira a costruire una grande città chiamata Bisnaga (letteralmente la «città della vittoria», appunto), in cui le donne saranno uguali agli uomini. Rilettura fantastica dell’impero Vijayanagar, La città della vittoria è anche una risposta al libro di V. S. Naipaul, Una civiltà ferita: l’India, in cui l’invasione musulmana viene aspramente criticata con toni che sono stati fatti propri dal movimento nazionalista Hindutva e dal premier Narendra Modi. E che dire di altre suggestioni politiche, come quando nel romanzo fanno irruzione le misteriose e temibili scimmie rosa: «Dicono che le scimmie rosa non hanno quasi peli sul corpo, e che la pelle nuda è di un orribile colore pallido. Dicono che le scimmie rosa sono grosse e ostili e si muovono in grandi gruppi e vogliono impadronirsi della foresta». Non solo: «A quanto pare non ci sono scimmie femmine. È un esercito di soli maschi». Scimmie senza peli, di colore rosa, che si impadroniscono di terre altrui e hanno un branco di soli maschi: un misto di critica al colonialismo e all’«eteropatriarcato» che fa molto «intersezionale». Occhio, però: tra Rushdie e la nuova sinistra woke non corre buon sangue. Nel 2015, dopo gli attentati di Parigi, disse sconsolato in un’intervista: «Se I versetti satanici fosse pubblicato oggi sarebbero in molti a dire che è un libro che offende una minoranza. Avrei tante più difficoltà». Per poi rincarare la dose: «Una parte della sinistra in Inghilterra e in Europa è alleata dell’islamismo, ed è un bel problema». Nel 2020, Rushdie, insieme ad altri scrittori come Margaret Atwood e JK Rowling, è stato tra i firmatari di una lettera aperta pubblicata sulla rivista Harper’s Magazine contro la cancel culture. Anche lui, del resto, ha avuto il suo piccolo Me too, quando l’ex moglie Padma Lakshmi lo ha descritto come «ossessionato dal sesso, geloso e molto insicuro». Mascolinità tossica in purezza, secondo il gergo della nuova sinistra. Al conflitto tra i liberal classici alla Rushdie e i loro nipotini scemi woke non va tuttavia dato il senso di un autentico conflitto valoriale. Si tratta, semmai, di una contraddizione interna alla sinistra.Da sempre vicino ai democratici americani, nonché loro elettore da quando, nel 2016, ha acquisito la cittadinanza statunitense, Rushdie ha sostenuto la guerra alla Serbia e quella all’Afghanistan, con qualche riserva solo per quella all’Iraq, pur auspicando la rimozione di Saddam Hussein. Eventi in seguito ai quali il Kosovo è divenuto un focolaio islamista in piena Europa, l’Iraq ha cessato di essere uno Stato laico e l’Afghanistan… è tornato esattamente al punto di partenza. È stato vicino al movimento Occupy, che ha segnato profondamente l’immaginario della stessa sinistra woke. E il suo sogno femminista e multiculturale sembra la versione educata dell’incubo propugnato in modo sgrammaticato dalla cancel culture. La città della vittoria è stato definito un romanzo sul «potere delle parole». Ma è proprio nella convinzione che le parole facciano le cose che i nuovi censori accenderebbero roghi per chi sbaglia un pronome.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/rushdie-ritorna-favola-indiana-femminista-2659381541.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gadda-soldato-altro-che-hemingway" data-post-id="2659381541" data-published-at="1675767232" data-use-pagination="False"> Gadda soldato: altro che Hemingway «La demenza, l’orrore, il male, la povertà, la fame, l’asservimento alle leggi brutali sono oggi il collegio de’ miei compagni; le ore passano nel desiderio atroce del cibo, nella rapida voluttà del deglutire, nell’orrore della fame insaziata, nel freddo dell’inverno nordico, nella solitudine tra la folla». Questa è la Grande guerra, narrata senza filtri e ricami romanzeschi edulcorati fino all’infingimento, cui non si sottrasse neanche Hemingway. Alla sua voce americana, retorica e sopravvalutata, si sovrappone la prepotenza iperrealista di Carlo Emilio Gadda in Giornale di guerra e di prigionia, giustamente riproposto dalla Adelphi oggi che incombono la memoria di un conflitto successivo a quello che per venti anni fu considerato unico e il rischio attuale di un terzo, che non lascerebbe tracce dell’umanità.Il conflitto che inaugurò il Novecento fu lo spartiacque non solo tra il XIX e il XX secolo, ma anche tra il passato pieno di aspettative positiviste di «magnifiche sorti e progressive» e un futuro dalle tinte dell’apocalisse. Gadda vi fu direttamente coinvolto per rispondere al richiamo patriottico che nel 1915 trasformò l’Italia fresca di unificazione in potenza militare, capace di intervenire di propria iniziativa alla conquista di uno spazio geopolitico Il ricorrere del termine «orrore» non può non rimandare ad Apocalypse Now. Con sessant’anni di anticipo su Francis Ford Coppola, Gadda cattura nello sguardo e soprattutto nella carne, l’atrocità della guerra. Non c’è epica, ancora meno vanagloria posticcia, nel suo vivere dentro l’inane e immane tragedia del soldato contro soldato.L’insieme compone una sorta di enciclopedia autobiografica. Gadda la riempie di nomi, circostanze, dibattiti ideali, osservazioni su entrambi i fronti. Non solo il nemico germanico. Anche il contingente nazionale, con precisione di dettagli: «Il mio reparto, 89º, è costituito dal 5º. Reggimento, ma è amministrato dal Deposito del 5º. – Consta di elemento lombardi (comaschi bergamaschi, bresciani) che formano la mia sezione, di elementi veneti che formano la sezione Iº. (Ten. Venier); la 3ª. Sez. (Sottotenente Musizza) è mista. Il comandante è il Cap. Mario Ciresi proveniente dalla truppe coloniali eritree. –»Precisione che conserva negli scorci d’azione: «Si fa fuoco la notte sui lavori di trinceramento e d’apprestamento nemici: è questo una specie di tiro d’interdizione: ogni dieci-quindici minuti si spara, con la macchina precisamente puntata, una breve serie di colpi a fuoco lento». È la guerra di trincea raccontata con nessun indugio spettacolare e ritoccato. L’esposizione sotto forma di cronaca. Fanno da contrappunto le mappe, gli schizzi disegnati da Gadda, gli incidenti fortuiti, i malanni («questo fottuto mal di pancia), le lettere da e a casa, i riferimenti familiari, la quotidianità di uno stato bellico dall’apparenza di prolungarsi all’infinito.In queste pagine, Gadda spunta alla letteratura con una prosa già compiuta e nello stesso tempo in via di divenire. E lo fa con un affondo viscerale nel cuore di tenebra dello scontro diretto, da soldato a soldato. Omesse anche certe divagazioni soverchie di Emilio Lussu in Un anno sull’Altopiano, senza cui Francesco Rosi non avrebbe mai potuto trarne nel il film Uomini contro.Se Giacomo Debenedetti poté a ragione parlare della «cattedrale Proust», la stessa metafora architettonica si applica a Carlo Emilio Gadda. Dalla decomposizione del giallo in Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana alla reinvenzione fantastica del Nordovest italiano de La cognizione del dolore, composta quasi in parallelo con quella del nordest de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, per finire con la satira del pamphlet Eros e Priapo: da furore a cenere, composto nel 1945 ma uscito nel 1967, l’estensione letteraria dell’autore milanese, già in questa rassegna tutt’altro che esauriente, non concede requie al lettore avido di perdersi, appunto, fra le navate di un intelletto creativo. Il Giornale di guerra e di prigionia è già di per sé un contenitore multimediale, composto di parole scaturite non dalla mente ma dalla corporeità narrativa di Gadda.Sul piano editoriale, il testo è suddiviso per annate e date specifiche, lungo l’arco che va dal 1915 al 1919, con un corredo fotografico utilissimo a accrescere la concretezza del racconto. E quando per Gadda arriva la prigionia, è lapidario: «Io gettai anche la mia rivoltella e tutti lasciarono i fucili, lì dov’erano…»Non vi sarà riscatto da Caporetto e dagli errori di strategia del comando italiano. Ma Gadda non vi si attarda per sterile antimilitarismo. Rapporta ogni cosa al proprio ruolo di cellula dell’immensa massa tumorale che si propagava a metastasi nelle trincee e sui campi dell’Europa, divorando vincitori e vinti.All’inizio di Morte nel pomeriggio, Hemingway scrive che per un narratore non c’è di meglio che formarsi alla vista della violenza e del sangue, e li cerca nelle arene delle corride. Diversamente da lui, Gadda li trovò malgré soi.