È la cornice rinascimentale (e recentemente restaurata) di Palazzo Tarasconi a ospitare l’attesissima mostra che celebra il centenario della nascita di uno dei maggiori artisti del XX secolo e personalità di spicco della Pop Art. Esposte al pubblico una selezione di oltre 50 opere - tutte provenienti da prestigiose collezioni europee e americane - che ne ripercorrono l’intera carriera artistica, dagli anni Sessanta in poi.
È la cornice rinascimentale (e recentemente restaurata) di Palazzo Tarasconi a ospitare l’attesissima mostra che celebra il centenario della nascita di uno dei maggiori artisti del XX secolo e personalità di spicco della Pop Art. Esposte al pubblico una selezione di oltre 50 opere - tutte provenienti da prestigiose collezioni europee e americane - che ne ripercorrono l’intera carriera artistica, dagli anni Sessanta in poi.Newyorkese di origine ebraica, padre agente immobiliare e madre casalinga, Roy Lichtenstein (1923-1977) è figlio di quella classe media americana i cui aspetti pop e consumistici ha ironicamente interpretato, amplificato e criticato in quella forma d’arte in cui si è distinto e che ha contribuito a creare: la «pop art». La stessa di Andy Warhol, il genio con cui ha condiviso stili, temi e tendenze artistiche, ma non gli eccessi e l’eccentricità esasperata.Molto critico verso la società nordamericana a lui contemporanea, Lichtenstein si serviva del fumetto - del popolarissimo e conosciutissimo linguaggio del fumetto - per farne la parodia. Personaggi dei cartoons mischiati a sfondi astratti, colore, dinamismo e la tecnica dei «puntini Ben Day » (un economico procedimento di stampa che permette di ottenere particolari sfumature cromatiche grazie all’uso di punti e linee separati fra loro) i suoi tratti distintivi. O meglio. I tratti distintivi del Lichtenstein che tutti conosciamo e ri-conosciamo, quello operativo dagli inizi degli anni Sessanta in poi. In realtà la sua arte è anche altro. Laureato in belle arti, Lichtenstein aveva un forte legame con i grandi maestri classici e ben conosceva cubismo e impressionismo. Il fumetto viene dopo, come « sperimentazione ». Una sperimentazione che gli ha dato la fama. E, insieme a Warhol, lo ha elevato a massimo esponente di un fenomeno artistico di massa, ben delineato e definito nelle sue caratteristiche.La Mostra a ParmaCurata da Gianni Mercurio - fra i massimi esperti di arte americana e già curatore di tante personali su Andy Warhol – l’esposizione allestita nei rinnovati spazi di Palazzo Tarasconi ripercorre l’intera carriera artistica di Roy Lichtenstein, proponendo una carrellata di opere che ne toccano tutti i generi e le tematiche: i fumetti e la pubblicità, la natura morta, il paesaggio, le incursioni nell’astrazione e nelle forme dei grandi maestri, gli interni bidimensionali, la serie dei nudi femminili. E a proposito dei suoi nudi, è interessante leggere le parole dello stesso artista «Non so veramente perché ho scelto i nudi. Non ne avevo mai realizzati prima, quindi questo poteva essere un motivo, tuttavia io sentivo anche che il chiaroscuro sarebbe stato bene su un corpo. E nei miei nudi c’è così poco della sensazione della carne, o delle tonalità della pelle - sono poco realistici - che l’utilizzo degli stessi nudi sottolinea la separazione tra realtà e convenzione artistica. Sono sicuro che qualcun altro può vedere la scelta del nudo in maniera differente, ma le immagini avrebbero potuto essere nature morte, per quel che mi riguarda. In effetti, il primo lavoro con cui mi cimentai in questa direzione era una natura morta» (brano estratto da «Portraits: Talking with Artists at the Met, the Modern, the Louvre, and Elsewhere» di Michael Kimmelman – 11 agosto 1998 – New York, Random House)Variazioni pop apre l’anno che Palazzo Tarasconi dedicherà all’America e alla Pop Art: da settembre 2023 il tributo a questa corrente artistica continuerà infatti con un altro grande artista, Keith Haring e la mostra Radiant Vision.
        Lirio Abbata (Ansa)
    
La Cassazione smentisce i rapporti Cav-Mafia? «Repubblica»: «La sentenza non c’è».
        (Stellantis)
    
Nel 2026 il marchio tornerà a competere nella massima categoria rally, dopo oltre 30 anni di assenza, con la Ypsilon Rally2 HF. La storia dei trionfi del passato dalla Fulvia Coupé alla Stratos alla Delta.
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Lo ha annunciato uno dei protagonisti degli anni d'oro della casa di Chivasso, Miki Biasion, assieme al ceo Luca Napolitano e al direttore sportivo Eugenio Franzetti: la Lancia, assente dal 1992 dalla massima categoria rallystica, tornerà protagonista nel campionato Wrc con la Ypsilon Rally2 HF. La gara d'esordio sarà il mitico rally di Monte Carlo, in programma dal 22 al 26 gennaio 2026.
Lancia è stata per oltre quarant’anni sinonimo di vittoria nei mondiali di Rally. Un dominio quasi senza rivali, partito all’inizio degli anni Cinquanta e terminato con il ritiro dalle competizioni all’inizio degli anni Novanta.
Nel primo dopoguerra, la casa di Chivasso era presente praticamente in tutte le competizioni nelle diverse specialità: Formula 1, Targa Florio, Mille Miglia e Carrera. All’inizio degli anni ’50 la Lancia cominciò l’avventura nel circo dei Rally con l’Aurelia B20, che nel 1954 vinse il rally dell’Acropoli con il pilota francese Louis Chiron, successo replicato quattro anni più tardi a Monte Carlo, dove al volante dell’Aurelia trionfò l’ex pilota di formula 1 Gigi Villoresi.
I successi portarono alla costituzione della squadra corse dedicata ai rally, fondata da Cesare Fiorio nel 1960 e caratterizzata dalla sigla HF (High Fidelity, dove «Fidelity» stava alla fedeltà al marchio), il cui logo era un elefantino stilizzato. Alla fine degli anni ’60 iniziarono i grandi successi con la Fulvia Coupè HF guidata da Sandro Munari, che nel 1967 ottenne la prima vittoria al Tour de Corse. Nato ufficialmente nel 1970, il Mondiale rally vide da subito la Lancia come una delle marche protagoniste. Il trionfo arrivò sempre con la Fulvia 1.6 Coupé HF grazie al trio Munari-Lampinen-Ballestrieri nel Mondiale 1972.
L’anno successivo fu presentata la Lancia Stratos, pensata specificamente per i rallye, la prima non derivata da vetture di serie con la Lancia entrata nel gruppo Fiat, sotto il cui cofano posteriore ruggiva un motore 6 cilindri derivato da quello della Ferrari Dino. Dopo un esordio difficile, la nuova Lancia esplose, tanto da essere definita la «bestia da battere» dagli avversari. Vinse tre mondiali di fila nel 1974, 1975 e 1976 con Munari ancora protagonista assieme ai navigatori Mannucci e Maiga.
A cavallo tra i due decenni ’70 e ’80 la dirigenza sportiva Fiat decise per un momentaneo disimpegno di Lancia nei Rally, la cui vettura di punta del gruppo era all’epoca la 131 Abarth Rally.
Nel 1982 fu la volta di una vettura nuova con il marchio dell’elefantino, la 037, con la quale Lancia tornò a trionfare dopo il ritiro della casa madre Fiat dalle corse. Con Walter Röhrl e Markku Alèn la 037 vinse il Mondiale marche del 1983 contro le più potenti Audi Quattro a trazione integrale.
Ma la Lancia che in assoluto vinse di più fu la Delta, che esordì nel 1985 nella versione speciale S4 sovralimentata (S) a trazione integrale (4) pilotata dalle coppie Toivonen-Wilson e Alen-Kivimaki. Proprio durante quella stagione, la S4 fu protagonista di un drammatico incidente dove morì Henri Toivonen assieme al navigatore Sergio Cresto durante il Tour de Corse. Per una questione di giustizia sportiva il titolo piloti fu tolto alla Lancia alla fine della stagione a favore di Peugeot, che era stata accusata di aver modificato irregolarmente le sue 205 Gti.
L’anno successivo esordì la Delta HF 4WD, che non ebbe rivali con le nuove regole del gruppo A: fu un dominio assoluto anche per gli anni successivi, dove la Delta, poi diventata HF Integrale, conquistò 6 mondiali di fila dal 1987 al 1992 con Juha Kankkunen e Miki Biasion. Lancia si ritirò ufficialmente dal mondo dei rally nel 1991 L’ultimo mondiale fu vinto l’anno successivo dal Jolly Club, una scuderia privata appoggiata dalla casa di Chivasso.
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