2022-10-31
Roger Abravanel: «Il merito non è soltanto uno slogan»
Il superconsulente: «Già altri, da Di Maio alla Gelmini, ne hanno parlato. Ora avrei molte domande da porre a Giorgia Meloni per capire se finalmente vuole fare sul serio. Con la competizione aumenta la democrazia».Roger Abravanel, oltre che director emeritus di McKinsey, la possiamo definire «ideologo della meritocrazia»? Ha proposto iniziative, collaborato anche con la politica e scritto numerosi saggi, con proventi in beneficenza. Tra questi, La ricreazione è finita: scegliere la scuola, trovare il lavoro, con Luca D’Agnese (Rizzoli).«Vada per ideologo, qualcuno mi ha definito “campione della meritocrazia”. Mi occupo di questo tema da molto di più di 15 anni. Cercare la felicità, il successo grazie alla eccellenza negli studi è un valore che ha accompagnato la mia vita». Fece un master Insead, l’Harvard europea, con una borsa di studio, poi è stato selezionato tra i 40.000 alunni dell’università come uno dei 50 che «hanno cambiato il mondo». Lei si considera un aristocratico 2.0?«Mio padre non ha potuto lasciarmi patrimoni, confiscati dalla rivoluzione libica contro gli italiani ed ebrei, ma mi ha spinto a laurearmi al Politecnico di Milano a 21 anni, fare il militare, poi il master e poi a McKinsey per 35 anni, dove la meritocrazia è stata un valore essenziale».La chiamiamo su un numero estero. Dove si trova?«A Tel Aviv, ragioni personali e di lavoro. Qui 20 anni fa aprii l’ufficio della McKinsey e dal 2006 sono membro di prestigiosi consigli di amministrazione. Qui è tutto un fervore di meritocrazia, istruzione, scienza e opportunità per i giovani: viene spesso dimenticato dai media che mostrano solo la politica e il conflitto con i palestinesi».Ha visto che è successo in Italia al ministero dell’Istruzione? Giorgia Meloni ha voluto che si chiami anche «del merito». Che cosa ha pensato a caldo?«L’importante è che non sia una parola giustapposta solo in chiave politica, una sorta di slogan populista. Non è la prima volta. Luigi Di Maio propose il ministero della meritocrazia, Mariastella Gelmini fece il Fondo per il merito, bloccato dalla Corte dei conti».Lei affiancò Gelmini ai tempi della riforma e delle prove Invalsi, Istituto nazionale di valutazione delle scuole.«Tolse l’istituto dal commissariamento, rese le prove obbligatorie. Poi, negli anni, è diventata una forma di meritocrazia delle carte bollate: i dati non vengono utilizzati per valutare le scuole né per certificare il merito degli studenti Le borse di studio purtroppo finiscono a mediocri figli di evasori, visto che al Sud c’è il doppio dei “100 e lode” alla maturità rispetto al Nord, uno scandalo che denuncio da anni eppure non cambia. Oggi avrei molte domande per Giorgia Meloni per capire se intende veramente portare avanti l’idea del merito nella scuola o il suo è l’ennesimo slogan».Ce ne dice alcune?«La prima è se intende finalmente valutare le scuole - per esempio con la performance didattica degli studenti misurata con i test Invalsi - e gli insegnanti. Occorre valutare i presidi che a loro volta sono gli unici a potere valutare gli insegnanti. Ma da noi non è possibile perché sono stati privati del potere e quando Matteo Renzi ha provato a restituirglielo con la “buona scuola” sindacati e insegnanti lo hanno bloccato dicendo che voleva fare i “presidi sceriffi”. La signora Meloni vuole riprendere una giusta idea di un suo avversario politico? Da madre, potrebbe poi anche scardinare la comunicazione attuale: spiegare che i test Invalsi servono perché se una classe ha pessimi risultati è frutto della scarsa qualità insegnante, e viceversa».Tra i critici, c’è chi ha scritto che l’operazione suona come un gioco di magia da bambini: non basta un nome per mettere a posto le cose.«Su questo sono d’accordo, gliel’ho detto. Il problema è avere chiaro l’obiettivo, al di là dell’ideologia e realizzare iniziative concrete. Circolava l’idea di una libertà di scelta tra scuola di élite e di rigore negli studi, come i licei delle grandi città, e una scuola di socialità dove si fa poco. Per fortuna Meloni l’ha accantonata: sarebbe una fuga dal problema e creerebbe un “giardinetto del merito” dove il merito c’è già, senza attaccare il vero dramma che sono le scuole di massa, istituti tecnici e professionali e i licei al Sud. Un disastro sponsorizzato da sindacati, molti docenti e politici di sinistra».Alcuni docenti si ribellano al grido di «la scuola non è un gioco a quiz».«È una frase tipica, contro i test come Invalsi e Pisa. Altro che quiz. Il mondo anglosassone ha test a risposta multipla molto seri. In Europa, e in Asia, si utilizzano esami di maturità durissimi. Peccato che in Italia significano poco. Certo, per mettere mano all’esame di maturità occorrerà tempo, è complicato. Idealmente tornerei alla commissione esterna, quello sì. Ma iniziamo a usare i dati Invalsi che sono uno standard nazionale».Ora le leggo cos’ha detto Maurizio Landini, segretario generale della Cgil: «Il ministero del merito è uno schiaffo in faccia alle diseguaglianze». «Sono proprio gli oppositori del merito che alla fine aumentano le diseguaglianze. All’estero tutti i sindacati hanno capito che una società di eguali, dove la scuola crea pari opportunità, è un’utopia».Carlo Calenda si è opposto a Landini, parlando di merito come antidoto alla società classista o a una società appiattita sull’ignoranza. In questa difesa la troveremo d’accordo, no?«Sì, anche se non si tratta di aumentare il “sapere”, ma di imparare ad apprendere e inserirsi nel mondo del lavoro con le competenze soft. L’apprendistato e l’alternanza scuola lavoro da noi sono lontani anni luce dall’Europa di lingua tedesca».Carlo Cottarelli - a favore del merito - ha detto che se tutti devono avere uguali possibilità allora si deve partire dal tempo pieno nelle scuole. Un suo giudizio?«Il tempo pieno è una cosa sacrosanta, assurdo che non ci sia. Dopodiché, non ha a che vedere né con le pari opportunità né con la meritocrazia. Oggi non c’è né al Nord né al Sud, eppure le scuole hanno risultati molto diversi».Giuseppe Conte: la scuola non è il luogo della selezione, ma del riscatto.(Ride) «Ah, questa è splendida. Siamo ancora alla sinistra del secolo scorso. Riscatto da cosa, intende? Da una provenienza sociale debole? Ovvio che la scuola serva a questo, ma se poi non si valutano gli insegnanti di che riscatto parliamo? È l’apoteosi dell’ipocrisia e del populismo».Il ministero dell’Istruzione è l’unico a cui cambiare il nome?«Se lo fanno per la scuola - con obiettivi e azioni - è ancora più importante farlo all’università. Nel nuovo secolo le università sono diventate le protagoniste dell’economia della conoscenza creando aziende e milioni di posti di lavoro grazie ai loro top laureati e alla loro ricerca: per questo sono nate le classifiche dei migliori istituti, ma l’Italia non è nelle top 100. La Svizzera, che è come la Lombardia, ne ha due».Mancano quindi università di eccellenza?«Non solo. Mancano le università che laureano giovani a 21-22 anni formati per entrare nel mondo del lavoro come classe dirigente. Se abbiamo troppo pochi laureati non è solo perché abbiamo poche grandi aziende, ma anche perché le università non formano al lavoro né certificano il merito. C’è un concetto sbagliato nell’istruzione universitaria italiana, soprattutto nelle cosiddette lauree “deboli”: si pensa che la laurea debba solo “fare cultura” e si guarda con disprezzo al mondo delle imprese e del lavoro». Quanta responsabilità è dei docenti? «La maggioranza dei nostri docenti rifiuta le classifiche e la competizione che è l’essenza della meritocrazia: all’estero le università sono templi della meritocrazia, da noi i bastioni del nepotismo. Il nuovo premier vuole affrontare il problema dell’assenza di meritocrazia nelle nostre università?».Il rovescio della medaglia della meritocrazia è - si è letto anche questo negli ultimi giorni - un moralismo calvinista per cui se non ce la fai è colpa tua?«Se si fa un sondaggio nei Paesi davvero meritocratici - soprattutto mondo anglosassone, Nord Europa e Asia - sette persone su dieci ti diranno che i loro risultati, successi o insuccessi, dipendono in primis da sé stessi il resto da fattori esterni come la fortuna, le raccomandazioni e la mancanza di opportunità. In Italia, solo 1 su 10 lo direbbe. In parte è giustificato dalla mancanza di opportunità che il Paese offre ai giovani, che infatti vanno all’estero perché sanno che il loro impegno può pagare».Mentre qui ce la fa chi è più ricco, raccomandato o fortunato?«Questo per colpa di una profonda mancanza di fiducia. La mancanza di fiducia è il vero cancro della società e dell’economia. E della mancanza di meritocrazia. Non si crede nella competizione seria per eccellere, perché non c’è fiducia che la competizione sia “giusta”, qualcuno che aggira le regole si trova sempre. Non è sempre così, ma gli italiani lo credono e questo è ciò che conta» Dopo tutti questi anni, lei di fiducia ne ha ancora, che qualcosa possa migliorare in questo senso?«Ho fiducia nei giovani, nei tantissimi che mi scrivono le loro storie impressionanti. Altro che fannulloni: hanno voglia di cambiare, capiscono i limiti italiani e si rimboccano le maniche. Sono loro le vere élite».Pensa che questo governo abbia la possibilità di andare nella giusta direzione?«Quando Meloni era ministro della Gioventù, lesse i miei libri e mi chiamò per un incontro. Era impressionata dal mio racconto su Singapore, dove sono riusciti a rendere il settore pubblico più meritocratico grazie anche a un programma sui giovani. Poi non successe nulla, probabilmente perché non aveva tutto il potere e l’esperienza. Adesso ha entrambi e mi aspetto molto di più».In quanto ebreo, che pensa di lei?«Non ho pregiudizi. I rimasugli fascisti non mi pare siano in Giorgia Meloni, che anche qui in Israele è vista con grande obiettività. La giudicheremo sui risultati».