2025-03-08
La Cassazione impone al governo di risarcire i danni ai clandestini
Ribaltata la sentenza della Corte d’Appello: presidenza del Consiglio e ministero dell’Interno (cioè noi) dovranno pagare i passeggeri della Diciotti che nell’estate del 2018 rimasero per nove giorni a bordo.L’ultima decisione dottrinale sfornata dalla magistratura ribalta la sentenza della Corte d’appello di Roma e impone alla presidenza del Consiglio dei ministri e al ministero dell’Interno di risarcire i passeggeri della nave militare Diciotti che nell’estate 2018 rimasero per nove giorni in mare in attesa di poter calare lo scalandrone. Con due massime i giudici prevaricano sulla politica: il soccorso in mare è un dovere che prevale su tutte le norme contro il contrasto dell’immigrazione irregolare e il divieto di sbarco non può essere considerato un atto politico sottratto al sindacato dei giudici. «Va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale». Un passaggio che, tradotto dallo slang giuridico, suona più o meno così: il divieto di sbarco deciso dall’autorità politica non è insindacabile. Ed ecco l’argomentazione: «Non lo è (un atto sottratto al controllo giurisdizionale, ndr) perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la Costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione». Firmato Ettore Cirillo, presidente delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, un giudice molto attivo su Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica. Il relatore è Emilio Iannello, anche lui commentatore di norme e cavilli su Giustizia insieme, il periodico online diretto da Marcello Basilico, ex della giunta e del comitato esecutivo dell’Anm ed eletto al Csm con AreaDg. L’ordinanza sul ricorso presentato da un gruppo di migranti eritrei, quindi, nonostante il procuratore generale ne avesse chiesto il rigetto, rimanda alla Corte d’appello la decisione sul presunto danno non patrimoniale (un concetto in contrasto con la giurisprudenza consolidata e che era stato escluso in Appello) da risarcire ai passeggeri. E stabilisce dei principi diametralmente opposti alle scelte politiche dell’epoca (il ministro dell’Interno era Matteo Salvini): «Si è in presenza di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini. Le motivazioni politiche non rendono politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo». Per i giudici, quindi, in tema di sbarchi la politica non dovrebbe intervenire. Nelle 37 pagine dell’ordinanza l’hanno ripetuto in modo ossessivo: «L’azione del governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati». I punti fermi sono questi: per i giudici il soccorso in mare non si tocca e neppure il diritto di sbarcare in tempi rapidi. Nonostante questi sollevino interrogativi sulla sicurezza nazionale e sulla gestione dei flussi migratori. Il principio, infatti, non tiene conto di scenari complessi come l’utilizzo delle operazioni di soccorso per aggirare le normative sull’ingresso regolare, né delle difficoltà logistiche che possono derivare dall’obbligo di sbarcare chiunque venga salvato. La seconda questione riguarda il soccorso. Un principio antico, che affonda le radici nelle regole consuetudinarie del mare e che, per la Cassazione, ha un valore assoluto: «L’obbligo al soccorso corrisponde a una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo». E, sempre secondo i giudici, sarebbe un obbligo da portare a termine «organizzando lo sbarco nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Guai quindi a chi prende decisioni politiche in senso opposto, qualsiasi sia la finalità. Salvini bloccò lo sbarco proprio in nome di una scelta politica: la linea dura contro i flussi irregolari. E finì davanti al Tribunale dei ministri di Palermo per sequestro di persona. L’inchiesta passò poi a Catania, dove la procura guidata da Carmelo Zuccaro chiese l’archiviazione. E successivamente il Senato, «con voto del 20 marzo 1989», scrivono, toppando, i giudici (era il 2019), negò l’autorizzazione a procedere, chiudendo la partita. A riaprire il caso giuridico ci ha pensato la Suprema corte. Le cui decisioni, «al pari di quelle di altri giudici», ha precisato ieri in una nota la prima presidente Margherita Cassano, scesa nell’agone a difendere i suoi colleghi, affermando un principio ovvio, «possono essere oggetto di critica». Subito dopo però introduce un nuovo galateo della critica giudiziaria: «Sono inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto». In parole povere: le decisioni dei giudici possono essere criticate, ma non troppo. Ed è scattata la solidarietà della Giunta esecutiva centrale dell’Anm: «Ogni volta che una decisione è sgradita, viene collegata a una valutazione ideologica». Probabilmente il sindacato delle toghe immaginava che alla decisione orientata della Cassazione seguisse un applauso convinto delle forze di maggioranza.