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2022-03-13
Il rialzo dei casi prova che non serve. Ma tornano i talebani del green pass
Ansa
Parli di libertà e spuntano i chiusuristi. La prossima settimana dovrebbe vedere la luce il tanto atteso decreto con la road map delle riaperture. Non si sa ancora quand’è che il Cdm ci metterà la testa: pare dopodomani, ma una data non è stata fissata. Intanto, a ridosso dell’appuntamento, già ritardato a causa dello scoppio della guerra in Ucraina, rimette la testa fuori il partito dei divieti. Dopo giorni in cui le poche pagine dei quotidiani dedicate al Covid trasmettevano un sostanziale «rompete le righe», è ricominciata la campagna sulla «prudenza».
La Stampa è stata molto esplicita: «Allarme quinta ondata», titolava ieri. Sul quotidiano è ricomparso l’irriducibile Walter Ricciardi, pronto a saltare sopra il rialzo dei contagi, per ricordare che «allentando l’attenzione si favorisce il virus». Il consulente del ministro Roberto Speranza, inossidabile propugnatore della pericolosa utopia del Covid zero, recupera dunque il classico registro minatorio: «La narrazione che tutto sia finito, che dell’obbligo vaccinale e della mascherina anche al chiuso possiamo farne a meno, non ci faranno passare un’estate tranquilla», ammonisce. Strana logica: se punturine forzate e mascherine fanno miracoli, com’è che le infezioni sono aumentate lo stesso? Solo perché i virologi sono spariti dalla tv?
Pure Cesare Cislaghi, della Società italiana di epidemiologia, sempre sulla Stampa, reagisce all’apparente resa dei rigoristi: «È sbagliato dare informazioni per tranquillizzare, perché la caduta degli atteggiamenti di prudenza sta rappresentando un grosso problema». Il potere sta sostituendo la militarizzazione alla sanitarizzazione delle coscienze. Ed è un guaio.
C’è da scommettere che la sterzata di ieri sia la premessa di una nuova inondazione di allarmismi. Le avvisaglie di un cambio di paradigma si percepiscono altresì nell’intervista di Stefania Salmaso al Corriere: «La fine dell’emergenza e il ritorno all’ordinario spero non significhi far cadere i più importanti sistemi di monitoraggio delle infezioni». Anche perché, insiste l’epidemiologa, «non è scontato che il Covid sarà stagionale».
Né è un caso che Ricciardi scelga certi bersagli. Tra le ipotesi di allentamento della gabbia pandemica, infatti, c’è l’attenuazione della disciplina sull’iniezione coatta, con l’abolizione del requisito di super green pass sul lavoro per gli over 50. Inoltre si ragiona, se non sull’eliminazione dei Dpi negli spazi interni, almeno sulla rimozione, da maggio, dell’obbligo di lasciapassare verde al chiuso (la soppressione all’aperto scatterebbe già da aprile, con il superamento dello stato d’emergenza). La ratio della campagna è inequivocabile: se Matteo Salvini ritwitta Andrea Crisanti, invocando l’abolizione immediata del green pass, scatta il soccorso rosso a Speranza, che non intende mollare l’osso e cedere al pressing della Lega (nella maggioranza) e di Fdi (all’opposizione).
Ergo, non bisogna lasciarsi ingannare dall’atteggiamento conciliante di Palazzo Chigi, tra l’altro condizionato da guerra, crisi energetica, inflazione, caro bollette e sanzioni alla Russia, elementi che non lasciano presagire una stagione estiva fastosa. In realtà, gli aspetti più deteriori dei lacci e lacciuoli stretti negli ultimi mesi sono proprio quelli destinati a durare più a lungo, mentre l’opinione pubblica viene intortata dai progressivi allentamenti di minore rilevanza. Con buona pace del Carroccio e delle Regioni, le prime a chiedere gli inasprimenti a dicembre e adesso - anime belle! - sconcertate dalla timidezza dell’esecutivo.
La cui tecnica, in sintesi, è stata la seguente: varare le regole più deliranti del mondo; tenere in piedi quelle più vessatorie; e intanto spacciare per grande conquista di libertà ogni timida tappa di fuoriuscita dalle restrizioni. Un preclaro esempio lo offre il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, che ha celebrato il ripristino, dal 10 marzo, delle visite in ospedale, come «un altro segnale concreto di ritorno alla normalità». Peccato che sia necessaria la carta verde rafforzata, mentre chi ha solo due dosi o solo la guarigione, dovrà sottoporsi al tampone. I non vaccinati sono esclusi dal privilegio di andare a trovare i parenti malati. È profilassi? Ma va: se si trattasse di limitare le possibilità di trasmissione del virus, bisognerebbe imporre il test anche a chi ha tre dosi.
Alla fin fine, ciò che davvero interessa al governo è conservare il green pass in quanto dispositivo di sorveglianza. E il modo migliore per assicurarsi che la gente lo accetti, è modularne l’impatto con un andamento a fisarmonica: via da bar e ristoranti nella bella stagione, poi d’inverno se ne riestende il raggio d’azione. Nel frattempo, lo si mantiene sui luoghi di lavoro. Tant’è che, da Roma, trapela l’intenzione di non abrogarlo prima di giugno. Con Massimo Ciccozzi che, sul Messaggero, ventila l’ipotesi della quarta dose per tutti, fa comodo avere a disposizione un mezzo per attuare l’obbligo vaccinale surrettizio. Quanto a futuri impieghi deviati del green pass, dal campo fiscale a quello della riduzione delle «impronte ecologiche», basta collegare i puntini. O farsi un giro in Cina.
Rispunta l’ossessione quarta dose
Con l’indice Rt in crescita e l’aumento di nuovi casi, e mentre il Regno Unito si prepara a un nuovo richiamo di vaccino per gli over 75, immunodepressi e ospiti delle case di riposo, da noi è ripartito il dibattito dei virologi sulla quarta dose per tutti. Ieri è stata la volta del professore Guido Rasi, ordinario di Microbiologia clinica dell’Università Tor Vergata di Roma ed ex direttore dell’Ema, a margine del convegno organizzato a Bari: «La quarta dose? Da valutare. Un monitoraggio attento ci dirà se dovremo ragionare di continuare con questo vaccino, cercarne migliori o se si possa convivere così. Ma saranno i numeri a dircelo, e saranno fondamentali quelli che raccoglieremo da adesso a giugno, per essere pronti per la stagione che tradizionalmente fa vedere una risorgenza delle infezioni. Abbiamo un’alta percentuale di vaccinati e immunizzati ma anche l’incertezza di quanto duri veramente l’immunità, soprattutto la seconda linea immunitaria, quella della memoria, che è quella su cui contiamo per ottobre».
Sul secondo booster frena Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo): «La quarta dose c’è già per gli immunodepressi in Italia. Per andare oltre queste categorie credo non ci siano evidenze sufficienti. Quindi aspettiamo un attimo, servono conferme sul fatto che serva realmente». «Sicuramente credo che sia prematuro parlare di una quarta dose per tutta la popolazione, per le persone sane che non hanno problemi» chiarisce Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che aggiunge: «Il problema non è tanto la quarta dose, quanto il momento in cui farla: se qualcuno ha ricevuto la terza dose a ottobre, è molto probabile che prima del prossimo autunno-inverno dovrà fare una dose di richiamo. Il discorso è se farla oggi, ad aprile, maggio, giugno, o se attendere e farla più avanti, magari cercando di avere una risposta anticorpale migliore per affrontare il prossimo autunno-inverno. Sappiamo infatti che questo virus ha un andamento stagionale, quindi non vorrei che si facesse l’errore di anticipare troppo la quarta dose e che poi ci si trovasse il prossimo autunno-inverno a doverne fare una quinta. Secondo me un’eventuale nuova dose di richiamo esteso dovrà avvenire prima dell’autunno».
Massimo Ciccozzi, direttore dell’Unità di Statistica medica ed epidemiologia molecolare del Campus Bio-medico di Roma, pensa che dopo Omicron possano crearsi delle altre varianti, non più contagiose, ma «che possono aggirare il vaccino. Per questo credo che una quarta dose di richiamo sarà necessaria a ottobre e che la dose dovrà essere tarata sulla variante Omicron e non più sul ceppo originale di Wuhan. Oltre ai fragili, saranno i dati a dirci se dovranno essere coinvolte altre fasce della popolazione».
Intanto ieri, secondo i dati del ministero della Salute, sono stati 53.825 i nuovi casi di Covid-19, (700 più di venerdì). Le vittime sono invece 133, contro le 156 di venerdì, per un totale di 156.782 vittime da inizio pandemia. I dimessi e i guariti sono 12.180.724, con un incremento di 45.393 rispetto a venerdì. Sono 985.622 le persone attualmente positive, con un aumento di 9.143 nelle scorse 24 ore. I tamponi sono stati 417.777 tra antigenici e molecolari e la positività è risalita al 12,9% (+0,4%).
Ancora in calo i ricoveri: nelle terapie intensive sono 14 in meno (venerdì -18) con 40 ingressi arrivando a 513 ricoverati, mentre i ricoveri ordinari diminuiscono di 40 unità (venerdì -140), per un totale di 8.234.
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La lieve salita dei contagi dimostra l’inutilità dei diktat. Però i rigoristi invocano prudenza e il mantenimento dei divieti. Allentamenti incerti: card abolita all’aperto da aprile, obbligo vaccinale per over 50 fino a giugno.Massimo Ciccozzi: «Probabile nuovo richiamo a ottobre per tutti». Guido Rasi: «Valuteremo a seconda dei positivi». Frenano Filippo Anelli e Matteo Bassetti: «Prematuro». Intanto, calano morti e ricoveri.Lo speciale contiene due articoli.Parli di libertà e spuntano i chiusuristi. La prossima settimana dovrebbe vedere la luce il tanto atteso decreto con la road map delle riaperture. Non si sa ancora quand’è che il Cdm ci metterà la testa: pare dopodomani, ma una data non è stata fissata. Intanto, a ridosso dell’appuntamento, già ritardato a causa dello scoppio della guerra in Ucraina, rimette la testa fuori il partito dei divieti. Dopo giorni in cui le poche pagine dei quotidiani dedicate al Covid trasmettevano un sostanziale «rompete le righe», è ricominciata la campagna sulla «prudenza». La Stampa è stata molto esplicita: «Allarme quinta ondata», titolava ieri. Sul quotidiano è ricomparso l’irriducibile Walter Ricciardi, pronto a saltare sopra il rialzo dei contagi, per ricordare che «allentando l’attenzione si favorisce il virus». Il consulente del ministro Roberto Speranza, inossidabile propugnatore della pericolosa utopia del Covid zero, recupera dunque il classico registro minatorio: «La narrazione che tutto sia finito, che dell’obbligo vaccinale e della mascherina anche al chiuso possiamo farne a meno, non ci faranno passare un’estate tranquilla», ammonisce. Strana logica: se punturine forzate e mascherine fanno miracoli, com’è che le infezioni sono aumentate lo stesso? Solo perché i virologi sono spariti dalla tv?Pure Cesare Cislaghi, della Società italiana di epidemiologia, sempre sulla Stampa, reagisce all’apparente resa dei rigoristi: «È sbagliato dare informazioni per tranquillizzare, perché la caduta degli atteggiamenti di prudenza sta rappresentando un grosso problema». Il potere sta sostituendo la militarizzazione alla sanitarizzazione delle coscienze. Ed è un guaio. C’è da scommettere che la sterzata di ieri sia la premessa di una nuova inondazione di allarmismi. Le avvisaglie di un cambio di paradigma si percepiscono altresì nell’intervista di Stefania Salmaso al Corriere: «La fine dell’emergenza e il ritorno all’ordinario spero non significhi far cadere i più importanti sistemi di monitoraggio delle infezioni». Anche perché, insiste l’epidemiologa, «non è scontato che il Covid sarà stagionale». Né è un caso che Ricciardi scelga certi bersagli. Tra le ipotesi di allentamento della gabbia pandemica, infatti, c’è l’attenuazione della disciplina sull’iniezione coatta, con l’abolizione del requisito di super green pass sul lavoro per gli over 50. Inoltre si ragiona, se non sull’eliminazione dei Dpi negli spazi interni, almeno sulla rimozione, da maggio, dell’obbligo di lasciapassare verde al chiuso (la soppressione all’aperto scatterebbe già da aprile, con il superamento dello stato d’emergenza). La ratio della campagna è inequivocabile: se Matteo Salvini ritwitta Andrea Crisanti, invocando l’abolizione immediata del green pass, scatta il soccorso rosso a Speranza, che non intende mollare l’osso e cedere al pressing della Lega (nella maggioranza) e di Fdi (all’opposizione). Ergo, non bisogna lasciarsi ingannare dall’atteggiamento conciliante di Palazzo Chigi, tra l’altro condizionato da guerra, crisi energetica, inflazione, caro bollette e sanzioni alla Russia, elementi che non lasciano presagire una stagione estiva fastosa. In realtà, gli aspetti più deteriori dei lacci e lacciuoli stretti negli ultimi mesi sono proprio quelli destinati a durare più a lungo, mentre l’opinione pubblica viene intortata dai progressivi allentamenti di minore rilevanza. Con buona pace del Carroccio e delle Regioni, le prime a chiedere gli inasprimenti a dicembre e adesso - anime belle! - sconcertate dalla timidezza dell’esecutivo.La cui tecnica, in sintesi, è stata la seguente: varare le regole più deliranti del mondo; tenere in piedi quelle più vessatorie; e intanto spacciare per grande conquista di libertà ogni timida tappa di fuoriuscita dalle restrizioni. Un preclaro esempio lo offre il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, che ha celebrato il ripristino, dal 10 marzo, delle visite in ospedale, come «un altro segnale concreto di ritorno alla normalità». Peccato che sia necessaria la carta verde rafforzata, mentre chi ha solo due dosi o solo la guarigione, dovrà sottoporsi al tampone. I non vaccinati sono esclusi dal privilegio di andare a trovare i parenti malati. È profilassi? Ma va: se si trattasse di limitare le possibilità di trasmissione del virus, bisognerebbe imporre il test anche a chi ha tre dosi. Alla fin fine, ciò che davvero interessa al governo è conservare il green pass in quanto dispositivo di sorveglianza. E il modo migliore per assicurarsi che la gente lo accetti, è modularne l’impatto con un andamento a fisarmonica: via da bar e ristoranti nella bella stagione, poi d’inverno se ne riestende il raggio d’azione. Nel frattempo, lo si mantiene sui luoghi di lavoro. Tant’è che, da Roma, trapela l’intenzione di non abrogarlo prima di giugno. Con Massimo Ciccozzi che, sul Messaggero, ventila l’ipotesi della quarta dose per tutti, fa comodo avere a disposizione un mezzo per attuare l’obbligo vaccinale surrettizio. Quanto a futuri impieghi deviati del green pass, dal campo fiscale a quello della riduzione delle «impronte ecologiche», basta collegare i puntini. O farsi un giro in Cina.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/rialzo-casi-prova-non-serve-greenpass-2656942691.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="rispunta-lossessione-quarta-dose" data-post-id="2656942691" data-published-at="1647130832" data-use-pagination="False"> Rispunta l’ossessione quarta dose Con l’indice Rt in crescita e l’aumento di nuovi casi, e mentre il Regno Unito si prepara a un nuovo richiamo di vaccino per gli over 75, immunodepressi e ospiti delle case di riposo, da noi è ripartito il dibattito dei virologi sulla quarta dose per tutti. Ieri è stata la volta del professore Guido Rasi, ordinario di Microbiologia clinica dell’Università Tor Vergata di Roma ed ex direttore dell’Ema, a margine del convegno organizzato a Bari: «La quarta dose? Da valutare. Un monitoraggio attento ci dirà se dovremo ragionare di continuare con questo vaccino, cercarne migliori o se si possa convivere così. Ma saranno i numeri a dircelo, e saranno fondamentali quelli che raccoglieremo da adesso a giugno, per essere pronti per la stagione che tradizionalmente fa vedere una risorgenza delle infezioni. Abbiamo un’alta percentuale di vaccinati e immunizzati ma anche l’incertezza di quanto duri veramente l’immunità, soprattutto la seconda linea immunitaria, quella della memoria, che è quella su cui contiamo per ottobre». Sul secondo booster frena Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo): «La quarta dose c’è già per gli immunodepressi in Italia. Per andare oltre queste categorie credo non ci siano evidenze sufficienti. Quindi aspettiamo un attimo, servono conferme sul fatto che serva realmente». «Sicuramente credo che sia prematuro parlare di una quarta dose per tutta la popolazione, per le persone sane che non hanno problemi» chiarisce Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che aggiunge: «Il problema non è tanto la quarta dose, quanto il momento in cui farla: se qualcuno ha ricevuto la terza dose a ottobre, è molto probabile che prima del prossimo autunno-inverno dovrà fare una dose di richiamo. Il discorso è se farla oggi, ad aprile, maggio, giugno, o se attendere e farla più avanti, magari cercando di avere una risposta anticorpale migliore per affrontare il prossimo autunno-inverno. Sappiamo infatti che questo virus ha un andamento stagionale, quindi non vorrei che si facesse l’errore di anticipare troppo la quarta dose e che poi ci si trovasse il prossimo autunno-inverno a doverne fare una quinta. Secondo me un’eventuale nuova dose di richiamo esteso dovrà avvenire prima dell’autunno». Massimo Ciccozzi, direttore dell’Unità di Statistica medica ed epidemiologia molecolare del Campus Bio-medico di Roma, pensa che dopo Omicron possano crearsi delle altre varianti, non più contagiose, ma «che possono aggirare il vaccino. Per questo credo che una quarta dose di richiamo sarà necessaria a ottobre e che la dose dovrà essere tarata sulla variante Omicron e non più sul ceppo originale di Wuhan. Oltre ai fragili, saranno i dati a dirci se dovranno essere coinvolte altre fasce della popolazione». Intanto ieri, secondo i dati del ministero della Salute, sono stati 53.825 i nuovi casi di Covid-19, (700 più di venerdì). Le vittime sono invece 133, contro le 156 di venerdì, per un totale di 156.782 vittime da inizio pandemia. I dimessi e i guariti sono 12.180.724, con un incremento di 45.393 rispetto a venerdì. Sono 985.622 le persone attualmente positive, con un aumento di 9.143 nelle scorse 24 ore. I tamponi sono stati 417.777 tra antigenici e molecolari e la positività è risalita al 12,9% (+0,4%). Ancora in calo i ricoveri: nelle terapie intensive sono 14 in meno (venerdì -18) con 40 ingressi arrivando a 513 ricoverati, mentre i ricoveri ordinari diminuiscono di 40 unità (venerdì -140), per un totale di 8.234.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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