Nella spettrale Kiev, il quartiere generale di chi resta a lottare contro i russi. Civili e militari convivono e preparano ordigni.
Nella spettrale Kiev, il quartiere generale di chi resta a lottare contro i russi. Civili e militari convivono e preparano ordigni.Dopo l’intensificarsi dei bombardamenti durante la notte, le persone che ancora sono a Kiev continuano le normali azioni quotidiane come se la vita fosse normale, ma solo con i botti delle bombe a fare da cornice. In realtà ci sono avvisaglie dai vari organi di stampa, dalle milizie locali e dall’intelligence che l’armata Russa stia per sferrare un «large scale attack», il che significa che il peggio deve ancora arrivare.Da altri media invece si hanno notizie che danno Vladimir Putin per spacciato, con l’esercito stanco e demoralizzato.Questa situazione fa sì che tutti qui abbiano opinioni diverse e per noi della stampa è difficile farsi un’idea.Cerchiamo di capirci qualcosa di più raggiungendo Sashko, il ragazzo incontrato a Leopoli e con cui siamo entrati a Kiev in treno, per seguire il suo percorso nella resistenza.Arriviamo davanti al quartier generale di cui ovviamente non si può fotografare niente dall’esterno, ma neanche le finestre dall’interno, così come i soldati che si occupano della sicurezza e i volontari, a meno che non lo vogliano.In questo posto convivono civili e militari, sotto la legge marziale, nessuno quindi prende una decisione senza l’autorizzazione del comando centrale.Quando entriamo nel palazzo sì sente distintamente un grande odore di benzina. Siamo al piano terra e nei corridoi che attraversiamo non si vedono i muri per la quantità di materiale stoccato.Al primo, secondo e terzo piano, ovunque andiamo, nelle stanze sono ammassati centinaia di scatoloni e di aiuti che i furgoncini scaricano in continuazione davanti all’entrata. C’è un gran via vai di persone e il tutto avviene con grande fretta. Ci incolliamo al muro al passaggio di ogni uomo e donna che porta gli aiuti.Al prima piano mentre stiamo cercando la stanza dove stanno confezionando le molotov, l’odore di benzina è sempre più forte. Su una parete del corridoio è appesa la bandiera rossa e nera, quella dei combattenti ucraini in tempo di guerra e a fianco quella regolare gialla e blu.Dietro una vetrata vediamo Sashko, intento con altri ragazzi a tagliare il cotone per le molotov e riempire le bottiglie di polistirolo (il polistirolo assorbe la benzina e quando la bottiglia sì rompe brucia più a lungo).Nella stanza entra una signora possente sulla cinquantina, con un sorriso stampato in bocca come se fosse in vacanza, indossa un pile rosso e un vecchio cappello militare. Incute una certa soggezione.È lei il «capo» di questa sezione e ci racconta come all’inizio della guerra confezionasse molotov in un piccola stanza lì a fianco e come, dopo, quando la resistenza sì è organizzata l’abbiano messa a gestire un’area molto più grande.Katia prima della guerra lavorava come professoressa di chimica e matematica e ora si è riciclata a fare i cocktail di molotov imparati durante le resistenze anti russe che qui durano da tutta una vita.Cocktail sì, perché le molotov non sono bottiglie di benzina con dentro uno stoppino, sono un mix di sostanze e bisogna imparare a farle.Si usa il sapone, il polistirolo, diversi tipi di alcool e benzina, con dosaggi ben precisi e una modo particolare di chiudere le bottiglie con lo stoppino. Per questo sì chiamano «molotov cocktail» e per questo sulla porta della stanza c’è scritto «Bar moscoviti croccanti».Qui un certo senso dell’humor nero traspare un po’ ovunque. Sui cartelli elettronici per le strade sono scritti messaggi che prendono in giro i russi, così come sono stati riscritti i messaggi sui bancomat, sulle insegne delle farmacie, sui tabelloni delle autostrade.Riceviamo la notizia dell’apertura dei corridoi umanitari e del «cessate il fuoco» da parte della Russia e corriamo cosi verso la stazione di Kiev dove ci rendiamo conto che l’esodo, soprattutto dopo le ultime notizie di imminente attacco sta continuando a ritmo serrato. Le scene davanti ai vagoni sono agghiaccianti: la calca per salire e le urla della gente spaesata che viene rimandata nelle sale d’aspetto, il personale delle carrozze che fatica a tenere la calma dall’alto di quei due gradini che tutti aspirano di salire. Qui incontriamo Ania, una ragazza che sta scappando verso Usgorot, località dove di solito si va in vacanza e che ora dicono sia diventata una specie di città. Da lì arrivare al confine è più facile e si può comunque avere qualche ora o qualche giorno di vantaggio sui russi rispetto a Kiev. È avvolta in una kefia, mentre il suo cappello e la sua felpa (non sappiamo se volontariamente) formano i colori del suo Paese. Parla con un ottimo inglese e si legge l’orgoglio nelle sue parole: «Il nostro governo sta facendo delle cose incredibili, hanno organizzato più treni e più viaggi, ci informano ogni minuto». Sembra quasi non far caso al caos che ha a poche decine di metri di distanza.Continua dicendoci che tutti hanno grande speranza e grande fiducia nell’esercito e nella resistenza che si è creata. Mentre parla le viene da piangere, ma deglutisce e sbarra gli occhi per non far uscire le lacrime, la sua faccia acqua e sapone la rende ancora più dolce di quel che già è. Continua facendo un’analisi di ciò che andrebbe fatto ora: «L’Europa deve chiudere lo spazio aereo sopra di noi; ci deve fornire gli aeroplani che ci servono per difenderci e non per attaccare. La diplomazia è una carta fondamentale, ma come è possibile che l’Europa non capisca che fra poco saremo come la Siria, come è possibile che tutto il frutto del vostro lavoro non serva a far capire la situazione e la distruzione che sta investendo il nostro Paese?». Prima di congedarsi ci ringrazia per ciò che stiamo facendo e ci ricorda quanto sia importante il nostro lavoro qui, e rivolta al cameraman, suo concittadino, guardandosi negli occhi, esclama: «Slava Ukarine!»,Ci dirigiamo dunque in piazza Maidan dove nei due o tre alberghi principali sono tutti riuniti i giornalisti internazionali.Più ci si avvicina al centro di Kiev e più la situazione è spettrale, ma allo stesso tempo si ha una sensazione di grande protezione, di grande sicurezza e la speranza è che i bellissimi viali e gli stupendi palazzi di questa città non vengano sventrati come è già stato fatto in Siria.In centro non è rimasto nessuno, a differenza che nei quartieri più periferici. A piazza Maidan ci sono militari che fanno parte di una forza di sicurezza speciale, i cecchini che non si vedono, ma che ci sono, i cronisti e i fotografi e un gruppo di barboni riuniti in un sottopasso della metropolitana che si fermano a osservare qualche giornalista affamato di audience che fa una diretta con il casco appena tolto dal cellophane, nel posto ancora più sicuro di tutta l’Ucraina. Alla faccia dei coraggiosi colleghi che stanno rischiando la vita per farci avere le immagini del fronte della battaglia. Mentre scriviamo le grandi finestre del grattacielo al ventunesimo piano che non davano segni di cedimento iniziano a tremare e ora si vedono anche i bagliori da Irpin. La battaglia finale forse è cominciata.
Emanuele Orsini (Ansa)
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Getty images
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Maria Rita Gismondo (Imagoeconomica)
Smontata l’intera gestione pandemica: «Speranza nel panico Avremmo potuto evitare tanti decessi e casi. Fu tutto sbagliato».
«Murdaugh: Morte in famiglia» (Disney+)
In Murdaugh: Morte in famiglia, Patricia Arquette guida il racconto di una saga reale di potere e tragedia. La serie Disney+ ricostruisce il crollo della famiglia che per generazioni ha dominato la giustizia nel Sud Carolina, fino all’omicidio e al processo mediatico.