2023-08-31
Un’educazione sentimentale per redimere i maschi? Facciamola con «Fight Club»
Dopo i recenti casi di stupro, il mondo femminista chiede di processare e indottrinare gli uomini. Un libro dedicato al film con Brad Pitt ci offre però un’altra soluzione.Il maschio è da rieducare? E perché non, invece, da allenare? Le agghiaccianti cronache degli stupri di Palermo e Caivano, nonché le polemiche (strumentali) sulle parole di Andrea Giambruno hanno riportato al centro del dibattito il tema della cosiddetta rape culture, ovvero quell’insieme di pratiche, stereotipi, atteggiamenti, ideologie che costituirebbero il brodo culturale da cui nascono i violentatori. Le femministe sono sul piede di guerra. Qualche intellettuale maschio le segue a ruota, autoflagellandosi sulle colonne dei quotidiani di sinistra per spiegare di quanto anche lui, malgrado le buone intenzioni progressiste, sia in fondo un po’ colpevole, perché di tanto in tanto si gira a guardare il sedere delle ragazze che passano. L’idea che si fa largo è quella di decostruire la mascolinità a partire dalle scuole. In questo mood generale - le cui contraddizioni sono evidenti, a cominciare dal fatto che spesso i più accaniti «rieducatori» dei maschi sono anche fan sfegatati dell’importazione dall’Africa di giovani uomini dalla cultura machista e tribale - giunge benvenuta la pubblicazione di un libro su un classico contemporaneo. Parliamo de La filosofia di Fight Club, di Massimo Bracci (Odoya), dedicato al romanzo scritto nel 1996 da Chuck Palahniuk e portato sul grande schermo da David Fincher tre anni dopo. Potrà sembrare blasfemo proporre come antidoto agli abusi sulle donne il film in cui Repubblica, a caldo, vide una «ribellione contro il logorio della vita moderna», fatta «di sostanza qualunquista» e che «inclina alla violenza rigeneratrice di marca fascista». Eppure Bracci, ripercorrendo anche la biografia di Palahniuk, ci spiega che alla base di quell’orgia di testosterone ci sia in realtà una necessità di comunicazione, di confronto e di riconoscimento. All’origine di Fight Club ci sono alcune esperienze personali di Palahniuk. La prima fu una rissa in campeggio: lo scrittore, scrive Bracci, «fu ispirato non tanto dai pugni presi per sé stessi, quanto dalla reazione dei colleghi che ignorarono il volto tumefatto per timore di una possibilità esistenziale spaventosa, quella di subire violenza fisica e umiliazione cocente in seguito allo scontro con un altro uomo». Lo scrittore scopre che gli uomini comuni che rifiutano la violenza sono «privi di un riconoscimento, della stima propria e altrui, della sensazione di forza che cresce nel superare un ostacolo». In un’altra occasione, Palahniuk si azzuffa in fabbrica con un collega, in un giorno di caldo insopportabile. Tutti, attorno, li incitano e tifano. In quel momento, Chuck capisce il valore catartico della violenza. L’uomo con cui si picchiò diventerà in seguito il suo migliore amico. Palahniuk comincia a cercare la rissa di proposito, nei bar. «A volte», scrive Bracci, «dopo qualche pugno in faccia con uno sconosciuto, accade l’inaudito: ci si stringe la mano o ci si abbraccia, si condivide una birra e si fa amicizia. Palahniuk scopre che queste persone desideravano più di tutto qualcuno con cui parlare. Questa fu la vera ispirazione per Fight Club». Lo scrittore una volta ha dichiarato: «Casomai non ve ne foste accorti, tutti i miei libri parlano di una persona solitaria che cerca un modo per entrare in contatto con gli altri». Certo, si può obiettare: perché parlare dopo? Perché non aprirsi subito anziché passare per una maratona di botte? Perché la razionalità dell’uomo non ruota attorno a un logos astratto, ma è incarnata, passa attraverso i corpi e si esprime attraverso di essi. E questo è vero soprattutto per il maschio. Ha ragione Palahniuk a dire che «sarebbe stato affascinante scrivere Fight Club con tutti i sessi invertiti», con lottatrici donne e Marla Singer al maschile. Ma non avrebbe avuto la stessa pregnanza. Sarebbe insensato negare che Fight Club offra una specifica espressione di genere, che racconti un turbamento e delle dinamiche prettamente maschili. Ma, attenzione: non necessariamente maschiliste. In fin dei conti, quando Brad Pitt/Tyler Durden dice: «Siamo una generazione di uomini cresciuti dalle donne. Mi chiedo se un’altra donna è veramente quello che ci serve», non sta semplicemente facendo del separatismo di genere. Sta anche smitizzando il rapporto uomo-donna, sta insegnando autonomia esistenziale. Quante volte - purtroppo - leggiamo nella cronaca di omicidi nati perché «lui non sopportava che lei avesse posto fine alla relazione»? È questa dipendenza patologica, questo attaccamento feticistico che Tyler Durden contesta. Secondo Bracci, la violenza di Fight Club - che comunque è sempre volontaria, rituale, codificata, mai prevaricatrice o competitiva - «intende decostruire la mascolinità più che inverarla». Forse «decostruire» non è la parola giusta, anche perché viviamo già nel mondo del maschio decostruito. Di sicuro è una pratica che lo mette in questione, lo interroga, che non si affida a categorie irriflesse e tramandate a rapporti sedimentati. Il messaggio di Tyler, del resto, elogia sì il combattimento, ma attraverso di esso smonta gli altri attributi della cosiddetta «mascolinità tossica»: successo, competizione, status symbol, eccetera. Proprio perché ha agguantato sé stesso, il maschio di Fight Club non ha bisogno di affermarsi in modo invadente. Non bisogna, infine, dimenticare una cosa. Come spiega Charles Guignon in Fight Club, raccolta inglese di saggi filosofici dedicati al film e curata da Thomas E. Wartenberg (Routledge), il personaggio di Marla, per quanto borderline, «manifesta una coesione e una stabilità di carattere che vanno ben oltre ciò che mostra qualsiasi uomo nel film. Laddove gli uomini vedono il loro problema nella necessità di “completarsi”, anche se ciò implica creare un alter ego per fornire ciò che manca nel sé, Marla può essere vista come se avesse già raggiunto una sorta di completezza». È in virtù di questa sua «completezza» che Marla diventa l’ostacolo, ma allo stesso tempo anche la figura salvifica, di questa acida ricerca del Graal postmoderna che è Fight Club. Palahniuk non è quindi un cantore della lotta tra i sessi, quanto piuttosto il distruttore di uno dei pochi pregiudizi collettivi oggi socialmente accettati: «Dalla declinazione multiforme delle opposizioni di genere», scrive Bracci, «si evince che Palahniuk nel complesso delle sue opere non supporta lobbisticamente la categoria, ma smaschera gli eccessi di colpevolizzazione in una società che esprime un perverso godimento nel degradare la mascolinità».
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