2020-05-15
Realtà distorta per manipolarci con la paura
Antonio Masiello/Getty Images
Il pericolo Covid è stato esagerato per manovrarci: siamo assuefatti all'idea che per preservare una parte (gli anziani, certe zone), tutti dovessero fermarsi. Così, però, abbiamo prodotto danni persino peggiori, che affosseranno il sistema sociale e la vita stessa.Non è facile commentare il periodo che stiamo attraversando. Mentre i più lo traducono nei contagi e nei decessi causati da un nuovo virus, qualche avanguardia si è spinta a criticare la gestione della collegata emergenza. Ma è ormai evidente che, dalle reazioni innescate dalla patologia virale, emergono le piaghe di una patologia antropologica più vasta.La sospensione delle attività sociali oggi imposta per arginare le infezioni non ha precedenti in tempi di pace, e forse anche di guerra. Il combinato delle misure in vigore ha creato le condizioni di un esperimento di smantellamento del tessuto sociale che si irradia dalla base degli individui: terrorizzati dalla malattia e dalle sanzioni, braccati con un dispiegamento di mezzi che è raro riscontrare nella repressione dei crimini più gravi, messi agli arresti, isolati nella malattia e nella morte, istigati alla delazione e al terrore del prossimo, cacciati dal tempio, costretti alla disoccupazione e ridotti ad abitare il mondo attraverso gli ologrammi gracchianti di un telefonino. La speranza stessa della liberazione diventa fonte di angoscia per l'incertezza delle previsioni e certi ipotizzati «rimedi» fino a ieri quasi indicibili per i nostri standard giuridici e morali: il tracciamento digitale dei cittadini come si usa con le specie selvatiche, la somministrazione (obbligatoria?) di farmaci che non esistono o, in alternativa, che nulla hanno a che fare con l'emergenza (ad es. i vaccini antinfluenzali), la ventilata ipotesi di prelevare e segregare gli «infermi», i certificati digitali per poter condurre una vita (si fa per dire) normale.Su questa base disgregata e ferita vacilla l'edificio di tutto ciò che è sociale: le produzioni e i consumi, e perciò occupazione, imprese, salari, gettito fiscale. E ancora, la partecipazione politica, la scuola, le amicizie e gli amori, il culto e, non proprio ultima, la stessa salute che si vorrebbe salvare, assediata sul versante psichico da isolamento e privazioni e su quello fisico dalle difficoltà di accedere alla sanità. Tutto nel nome di un'emergenza che, come già altre dei tempi recenti, può prestarsi a gravi strumentalizzazioni in deroga al consenso popolare, come già sembra suggerire il fatto che le soluzioni ora caldeggiate sono più o meno le stesse imposte o proposte per altre emergenze del passato: la digitalizzazione di scuola, politica e lavoro, la sorveglianza di massa e la compressione delle libertà individuali, i pagamenti elettronici, la censura delle informazioni «false», l'estensione degli obblighi di vaccinazione, le cessioni di potere ai tecnici, l'accensione di nuovi debiti pubblici e privati, l'accelerazione dei processi di integrazione sovranazionale. Il fatto che a emergenze diverse corrispondano soluzioni sempre uguali dovrebbe imporre più di qualche cautela.Ciò che più colpisce di questo esperimento è l'adesione non certo scontata dei suoi soggetti. Per tentare una spiegazione è utile ricorrere al concetto di «falsa sineddoche» formalizzato da Vladimiro Giacché per illustrare una tecnica di manipolazione o distorsione cognitiva dove la totalità di un fenomeno si lascia rappresentare da un solo dettaglio. Quella del «coronavirus» sembra in effetti ergersi come un monumento alla falsa sineddoche. Già a partire dalla base numerica delle infezioni, i cui casi registrati rappresenterebbero non solo una piccola parte degli effettivi, ma anche quella più sbilanciata verso gli esiti sintomatici e severi, perché più facilmente noti. L'esclusione della più ampia parte di casi aumenta la percezione della pericolosità per tutti. Come altre patologie, anche quella che giustificherebbe oggi la reclusione di tutti si accanisce in modo grave sulla parte di popolazione più anziana e debilitata. Il 95% dei decessi ha interessato gli ultrasessantenni e l'85% gli ultrasettantenni, con un'età media dei deceduti di 80 anni: un anno in meno dell'aspettativa media di vita maschile in Italia. Tra chi ha meno di 20 anni la mortalità per Covid-19 è di tre casi (0,000029%), chi ne ha meno di 30 ha più probabilità di finire annegato, chi meno di 40 precipitando accidentalmente, chi meno di 50 in un incidente stradale (Istat, 2017). Ma anche su questi numeri grava la falsa sineddoche, se è vero che solo nel 4% dei deceduti non erano già in corso altre patologie. Il presidente dell'ordine dei medici della Liguria Alessandro Bonsignore ha osservato che, inserendo tra i casi di morte per Coronavirus «tutti quelli che sono stati scoperti positivi o durante la vita o anche nel post mortem... stiamo praticamente azzerando la mortalità per qualsiasi patologia naturale che sarebbe occorsa anche in assenza del virus». Non da ultimo, il pericolo nel cui nome si è bloccato tutto il Paese ne ha colpita gravemente solo una parte: le regioni del nord ovest e specialmente la Lombardia, che pur ospitando il 16% della popolazione nazionale ha espresso il 37% dei casi e addirittura il 54% dei decessi, con picchi di mortalità abnormi in alcune province. Altre vaste aree del Paese sono state solo marginalmente toccate dal problema e non hanno registrato variazioni anomale di mortalità. Ciò nondimeno il caso peggiore è diventato la norma. Ogni italiano ha visto sé stesso come un anziano cardiopatico residente nella provincia di Bergamo e come tale è stato trattato dalle autorità, senza distinguere tra profili di rischio profondamente diversi.La falsa sineddoche è un fallimento cognitivo che distorce la realtà e crea l'illusione di una gerarchia dove una istanza cannibalizza le altre e ne reclama la sacrificabilità. Ciò è tipico del metodo «emergenziale» che impone allarmi di volta in volta improcrastinabili ed esclusivi all'attenzione del pubblico, li incarta nella retorica bellica dell'«attacco senza precedenti» e rende così accettabile il superamento di ogni altro valore. Trascinato da un'eccezione all'altra, il corpo sociale si spoglia della sua complessità e, schiacciato dal pericolo unico, si accartoccia nel pensiero unico e nella parola unica, dirotta le sue energie migliori nell'irrilevante, si riduce a un giocattolo elementare, docile da manovrare.Un organo non può però vivere senza un organismo: non si può curare il primo sopprimendo il secondo. Stupisce dunque la pretesa di evitare un rischio - oggi sanitario - producendo una valanga di rischi peggiori, anche dello stesso tipo. Se la malattia che si teme colpisce una parte della popolazione con esiti gravi in una parte dei casi, la devastazione con cui la si vorrebbe frenare colpisce tutti. Stupisce che non si sia previsto che dall'inizio dell'epidemia le morti per infarto e altre patologie del cuore - prime cause di decesso in Italia - sarebbero triplicate a causa della riduzione dei ricoveri e dei ritardi degli interventi. O che più di due terzi degli italiani avrebbero rinunciato ad accertamenti e visite specialistiche per paura di uscire. O ancora, che sarebbe più che raddoppiato il numero di coloro che si rivolgono alle Caritas. Stupisce infine che tra chi coltiva la grande economia quasi nessuno sia stato sfiorato dal dubbio che una comunità in cui non si lavora e le cui forze più fresche devono abbruttirsi nell'ozio non ce l'abbia neanche più, un'economia. Se già ieri il comparto pubblico piangeva miseria, da domani, con il prosciugamento delle entrate fiscali, chi pagherà gli stipendi dei medici-eroi? E le postazioni di terapia intensiva? E tutta la sanità? E se i giovani che possono lavorare senza grandi pericoli devono astenersi per amore dei vecchi (salvo poi respingerli all'ospedale perché mancano i letti), chi pagherà a questi ultimi non dico le cure, ma anche le pensioni che qualcuno ha già insinuato essere a rischio? E non è questione di soldi. Senza la ricchezza creata dal lavoro i soldi sono carta straccia, oppure debiti da ripagare liquidando gli ultimi tranci del patrimonio comune.Se la falsa sineddoche fotografa l'allucinazione di una civiltà che si crede guidata dal raziocinio, nulla dice delle pulsioni che agitano gli officianti di ciò che si presenta come un culto: con i sacerdoti-esperti, i tabù, gli arredi liturgici in plexiglass, i peccatori-passeggiatori, gli scettici miscredenti, i falsi profeti della plasmaferesi, la coscienza di un nemico onnipresente e invisibile e l'attesa messianica dell'eucarestia vaccinale. Su tutto svetta la dimensione sacrificale che spinge gli oranti a spogliarsi di tutto, dalla materialità degli averi e dell'integrità fisica all'immaterialità delle leggi costituzionali, naturali e morali. Certo, la limitazione di movimenti e contatti può ridurre la trasmissione dei microbi. Come il divieto di accoppiarsi eliminerebbe le malattie veneree, la marchiatura dei sieropositivi l'Hiv, la chiusura delle strade gli incidenti, l'abolizione delle famiglie i maltrattamenti, la soppressione della proprietà il furto. Stiamo scoprendo in breve che la vita stessa è l'unica «malattia sempre mortale» (Italo Svevo). Stiamo rivalutando il pessimismo gnostico che nella materia corruttibile - e quindi anche nella nostra carne - vede il parto di un demiurgo malvagio, lo stiamo celebrando con l'isolamento dei corpi, la dematerializzazione delle loro funzioni sociali e la religione scientifica, tra i cui i primi editti non poteva appunto mancare il divieto di celebrare in assemblea lo scandalo della divinità che si incarna nel pane azzimo (quello con le uvette lo si può invece prendere dalle mani di un commesso). Emerge allora la dimensione ultima e spirituale del problema e il suo essere frutto di una eclissi del trascendente che ha rinchiuso i moderni nell'orizzonte breve e parziale della loro avventura terrena. Se non nel divino, ciò che trascende e completa il nostro essere è nelle opere morali, intellettuali e politiche che superano le generazioni. Qualcuno ha osservato che mentre celebriamo chi ha sacrificato ieri la vita per non perdere la libertà, oggi sacrifichiamo la libertà per non perdere - forse, non si sa mai, ma solo nel caso peggiore - la vita. Con il risultato di perdere entrambe. Di perdere tutto, e quindi anche la parte.
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