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2024-09-02
Su Real Time tornano gli episodi di «Casa a prima vista»
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«Casa a prima vista» (Real Time)
Non è il «sogno» o l’esperienza condivisa, terreno comune sul quale - presto o tardi - si è costretti, tutti, a scivolare. La ragione del successo che ha reso grande Casa a prima vista è più complessa. Forse, ha a che fare con l’accessibilità. Forse, con il bisogno eterno di guardare agli altri per misurare il proprio valore e le proprie fortune. Forse, con la natura pettegola intrinseca a ogni uomo, il fascino magnetico del pettegolezzo, il brivido che scaturisce puntuale dalla formulazione di un giudizio. O, forse, da un combinato disposto degli elementi precedenti. Casa a prima vista, che da stasera torna a impreziosire l’access prime-time di Real Time, sfidando i talk e la politica, ha dato in pasto ai telespettatori quanto di più privato dovrebbe esistere: il focolare domestico, e, pure, la liquidità necessaria a renderlo tale.
«Budget?» è una fra le prime domande che gli intervistatori, muti, pongono agli aspiranti acquirenti. Questi mugugnano qualcosa in un video di presentazione: numeri, e gli agenti immobiliari, dall’altra parte, storcono il naso. «Bassino», dicono, «Serviranno compromessi, rinunce». Lo spauracchio dei conti in tasca, esibiti sulla pubblica piazza, cade prima ancora che il programma cominci. Prima che le telecamere si insinuino nelle case dei compratori, ne immortalino gli angoli e ritornino sulle loro facce, per sapere cosa mai li spinga a cambiare, a comprare. Allargarsi, restringersi, quali ambizioni, quali progetti, e che lavori, poi, per sostenerli. La parte iniziale di Casa a prima vista, ormai diventato un cult senza precedenti nella storia di Real Time, è un compendio di domande inopportune, di curiosità soddisfatte senza troppo badare alla forma. Ed è irresistibile farsi testimoni di questo «esame» e passare, poi, ad altro: la proposta, le visite.
Il format, diviso ad oggi fra Milano e Roma, con qualche comparizione saltuaria in altre zone d’Italia, per lo più limitrofe alle città, prevede che tre agenti immobiliari si sfidino. Ciascuno è chiamato a presentare una casa che possa soddisfare gli aspiranti acquirenti. Questi le devono visitare tutte, avendo cura di badare ai dettagli (infissi, prestazioni, luminosità, ogni cosa possa inficiare o innalzare il valore di quelle quattro mura). Poi, devono scegliere. In palio, non c’è nulla. Nemmeno l’obbligo di comprarla per davvero, la casa prescelta. Ma avere accesso ai sogni altrui è prezioso. Ci scopriamo, perciò, a misurarli, riportarli alla scala personale che muove ciascuna azione individuale. Ci chiediamo cosa faremmo noi, se ci piacerebbe la tal cucina, magari la preferiremmo diversa. La ricerca di una casa si trasforma, strada facendo. Il particolare sfuma. Casa a prima vista diventa una sorta di rito di passaggio, l’esperienza universale di chiunque ambisca ad avere un tetto sopra la testa. Anche (e soprattutto) nei mercati pazzi di Roma e Milano, nella «bolla» che costringe (e mal comune, si sa, mezzo gaudio) un numero infinito di compratori televisivi a enumerare fra la propria lista: «Periferia, prego».
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Casa a prima vista, che da stasera torna a impreziosire l’access prime-time di Real Time, sfidando i talk e la politica, ha dato in pasto ai telespettatori quanto di più privato dovrebbe esistere: il focolare domestico, e, pure, la liquidità necessaria a renderlo tale.Non è il «sogno» o l’esperienza condivisa, terreno comune sul quale - presto o tardi - si è costretti, tutti, a scivolare. La ragione del successo che ha reso grande Casa a prima vista è più complessa. Forse, ha a che fare con l’accessibilità. Forse, con il bisogno eterno di guardare agli altri per misurare il proprio valore e le proprie fortune. Forse, con la natura pettegola intrinseca a ogni uomo, il fascino magnetico del pettegolezzo, il brivido che scaturisce puntuale dalla formulazione di un giudizio. O, forse, da un combinato disposto degli elementi precedenti. Casa a prima vista, che da stasera torna a impreziosire l’access prime-time di Real Time, sfidando i talk e la politica, ha dato in pasto ai telespettatori quanto di più privato dovrebbe esistere: il focolare domestico, e, pure, la liquidità necessaria a renderlo tale. «Budget?» è una fra le prime domande che gli intervistatori, muti, pongono agli aspiranti acquirenti. Questi mugugnano qualcosa in un video di presentazione: numeri, e gli agenti immobiliari, dall’altra parte, storcono il naso. «Bassino», dicono, «Serviranno compromessi, rinunce». Lo spauracchio dei conti in tasca, esibiti sulla pubblica piazza, cade prima ancora che il programma cominci. Prima che le telecamere si insinuino nelle case dei compratori, ne immortalino gli angoli e ritornino sulle loro facce, per sapere cosa mai li spinga a cambiare, a comprare. Allargarsi, restringersi, quali ambizioni, quali progetti, e che lavori, poi, per sostenerli. La parte iniziale di Casa a prima vista, ormai diventato un cult senza precedenti nella storia di Real Time, è un compendio di domande inopportune, di curiosità soddisfatte senza troppo badare alla forma. Ed è irresistibile farsi testimoni di questo «esame» e passare, poi, ad altro: la proposta, le visite.Il format, diviso ad oggi fra Milano e Roma, con qualche comparizione saltuaria in altre zone d’Italia, per lo più limitrofe alle città, prevede che tre agenti immobiliari si sfidino. Ciascuno è chiamato a presentare una casa che possa soddisfare gli aspiranti acquirenti. Questi le devono visitare tutte, avendo cura di badare ai dettagli (infissi, prestazioni, luminosità, ogni cosa possa inficiare o innalzare il valore di quelle quattro mura). Poi, devono scegliere. In palio, non c’è nulla. Nemmeno l’obbligo di comprarla per davvero, la casa prescelta. Ma avere accesso ai sogni altrui è prezioso. Ci scopriamo, perciò, a misurarli, riportarli alla scala personale che muove ciascuna azione individuale. Ci chiediamo cosa faremmo noi, se ci piacerebbe la tal cucina, magari la preferiremmo diversa. La ricerca di una casa si trasforma, strada facendo. Il particolare sfuma. Casa a prima vista diventa una sorta di rito di passaggio, l’esperienza universale di chiunque ambisca ad avere un tetto sopra la testa. Anche (e soprattutto) nei mercati pazzi di Roma e Milano, nella «bolla» che costringe (e mal comune, si sa, mezzo gaudio) un numero infinito di compratori televisivi a enumerare fra la propria lista: «Periferia, prego».
Negli anni Venti la radioattività diventò una moda. Sulla scia delle scoperte di Röntgen e dei coniugi Pierre e Marie Curie alla fine dell’Ottocento, l’utilizzo di elementi come il radio e il torio superò i confini della fisica e della radiodiagnostica per approdare nel mondo del commercio. Le sostanze radioattive furono esaltate per le presunte (e molto pubblicizzate) proprietà benefiche. I produttori di beni di consumo di tutto il mondo cavalcarono l’onda, utilizzandole liberamente per la realizzazione di cosmetici, integratori, oggetti di arredo e abbigliamento. La spinta verso la diffusione di prodotti a base di elementi radioattivi fu suggerita dalla scienza, ancora inconsapevole delle gravi conseguenze sulla salute riguardo al contatto di quelle sostanze sull’organismo umano. Iniziata soprattutto negli Stati Uniti, la moda investì presto anche l’Europa. Il caso più famoso è quello di un integratore venduto liberamente, il Radithor. Brevettato nel 1925 da William Bailey, consisteva in una bevanda integratore in boccetta la cui formula prevedeva acqua distillata con aggiunta di un microcurie di radio 226 e di radio 228. A seguito di un grande battage pubblicitario, la bevanda curativa ebbe larga diffusione. Per 5 anni fu disponibile sul mercato, fino allo scandalo nato dalla morte per avvelenamento da radio del famoso golfista Eben Byers, che in seguito ad un infortunio assunse tre boccette al giorno di Radithor che inizialmente sembravano rinvigorirlo. Grande scalpore fece poi il caso delle «Radium girls», le operaie del New Jersey che dipingevano a mano i quadranti di orologi e strumenti con vernice radioluminescente. Istruite ad inumidire i pennelli con la bocca, subirono grave avvelenamento da radio che generò tumori ossei incurabili. Prima di soccombere alla malattia le donne furono protagoniste di una class action molto seguita dai media, che aprì gli occhi all'opinione pubblica sui danni della radioattività sul corpo umano. A partire dalla metà degli anni ’30 la Fda vietò definitivamente la commercializzazione delle bevande radioattive. Nel frattempo però, la mania della radioattività benefica si era diffusa ovunque. Radio e torio erano presenti in creme di bellezza, dentifrici, dolciumi. Addirittura nell’abbigliamento, come pubblicizzava un marchio francese, che presentò in catalogo sottovesti invernali con tessuti radioattivati. Anche l’Italia mise in commercio prodotti con elementi radioattivi. La ditta torinese di saponi e creme Fratelli De Bernardi presentò nel 1923 la saponetta «Radia», arricchita con particelle di radio. Nello stesso periodo fu messa in commercio la «Fiala Pagliani», simile al Radithor, brevettata dal medico torinese Luigi Pagliani. Arricchita con Radon-222, la fiala detta «radioemanogena» era usata come una vera e propria panacea.
Fu la guerra, più che altri fattori, a generare il declino definitivo dei prodotti radioattivati. Le bombe atomiche del 1945 con le loro drammatiche conseguenze a lungo termine e la continua minaccia di guerra nucleare dei decenni seguenti, fecero comprendere ai consumatori la pericolosità delle radiazioni non controllate, escludendo quelle per scopi clinici. A partire dagli anni Sessanta sparirono praticamente tutti i prodotti a base di elementi radioattivi, vietati nello stesso periodo dalle leggi. Non si è a conoscenza del numero esatto di vittime dovuto all’uso di alimenti o oggetti, in quanto durante gli anni della loro massima diffusione non furono da subito identificati quali causa dei decessi.
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