2023-08-31
Se anche celebrare Martin Luther King oggi diventa espressione di «razzismo»
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Martin Luther King Jr (Getty Images)
In Francia un gruppo di studenti viene chiamato a riproporre il celebre discorso «I have a dream» del leader nero assassinato. Ma, poiché i ragazzi sono tutti bianchi, il ministero è costretto a ritirarlo.Il 28 agosto del 1963 – quindi esattamente 60 anni fa - Martin Luther King Jr. pronunciava davanti ad almeno 200.000 persone radunate a Washington, negli Stati Uniti, per una delle più grandi marce politiche mai organizzate nel paese, il suo famoso discorso «I have a dream». Le celebrazioni di quell’evento, tuttavia, mettono in luce tutte le contraddizioni che, sul tema della razza, attanagliano oggi l’Occidente. Un caso eclatante viene dalla Francia. Qui, il ministère de l'Éducation ha postato martedì sui social un video in cui un gruppo di studenti recitava il testo del famoso discorso, ma il filmato ha raccolto così tante critiche che alla fine il ministero ha deciso di toglierlo dai social. Motivo? I ragazzi non appartenevano a «minoranze visibili», mancava la «diversità». In altre parole: erano tutti bianchi. «Di fronte alle polemiche suscitate da questo video e alla violenza di certi commenti nei confronti degli studenti che si erano gettati con entusiasmo nel progetto, il servizio di comunicazione del ministero ha deciso di ritirare questo video dai suoi profili social», si legge nello scarno e mesto comunicato infine postato dall’account ufficiale del dicastero. Polemica rivelatrice: persino un omaggio a Martin Luther King, oggi, può passare per razzista. Del resto gli animi sono talmente esacerbati e le coordinate ideologiche talmente confuse che, anche ad avere la migliore intenzione antirazzista, si rischia sempre di sbagliare: metti un video con soli studenti neri? La reazione sarà: «Quindi per voi il messaggio di King è una cosa che riguarda solo i neri! Ma sono proprio i bianchi che dovrebbero ragionare su quelle parole! ». Mescoli le etnie? «Stai parificando oppressori e oppressi, quelle parole non hanno lo stesso significato se ha pronunciarle è un nero o un bianco». E così via.C’è tuttavia un altro aspetto, di portata più ampia, che emerge da questo fatto tutto sommato banale. Quando il ministero dice che quei ragazzi si erano buttati con entusiasmo nel progetto, dice probabilmente la verità. Non solo: è molto probabile che, fino a questo momenti, essi non sapessero di essere «bianchi». Certamente si guardavano allo specchio, ma, educati al più rigoroso antirazzismo e cosmopolitismo illuminista, probabilmente non avevano mai pensato a se stessi in termini etnici o addirittura razziali. Del resto è proprio questa una delle cose che i neo-antirazzisti rimproverano ai bianchi: anche quando rifiutano con tutto il cuore le ideologie sulla superiorità della razza, restano ciechi sul proprio «privilegio bianco», si concepiscono in termini astratti, lasciandosi così sfuggire le ingiustizie di cui si fanno loro malgrado portatori. Il compito del neo-antirazzismo sarebbe quindi quello di far «aprire gli occhi» (woke significa «svegliato») ai bianchi sui rapporti di forza che essi si trascinano dietro per il solo fatto di avere la pelle chiara. Ma la cosa ha un rovescio della medaglia non calcolato: che succede se i bianchi, una volta sensibilizzati sulla loro identità etnica e su tutto ciò che questo comporta, sviluppassero orgoglio e non vergogna per la propria identità? Il geografo e sociologo Christophe Guilluy ha scritto: «L’emergere di un gruppo “bianco” è una novità […]. Se l’etnicizzazione delle minoranze “magrebine” e “nere” rispetto alle maggioranze “bianche” è conosciuta, in compenso l’etnicizzazione dei “bianchi” nei quartieri a forte popolamento immigrato è raramente tenuto in conto […]. Giorno dopo giorno, i giovani fanno la scoperta di un’identità etnica alla quale non avevano mai fatto riferimento».Conversando con Le Figaro, il docente e scrittore Aymeric Patricot ha raccontato questo aneddoto rivelatore: «Ho incontrato una ragazzina che era la sola bianca della sua classe di seconda e che mi ha confessato di essere caduta in depressione. Tutti i prof, all’inizio di ogni anno, domandavano a ogni studente da dove venisse. La ragazzina aveva la percezione di essere una nullità e si è inventata delle origini per non sentirsi esclusa». È un punto chiave. La storia dei francesi non è più interessante. Quella degli arabi, dei centrafricani, degli antilliani, degli asiatici lo è, quella degli europei no. Ma, a forza di rimproverare loro le malefatte dei loro antenati, a forza di dare una profondità storica alla loro appartenenza etnica, forse gli antirazzisti stanno iniziando a gettare una luce proprio su quel passato dimenticato. Una luce che ha riflessi ideologici, certamente. Ma è un meccanismo che non necessariamente sarà sempre controllabile da quelli che l’hanno messo in moto.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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