2022-03-05
Quanto ci costa davvero la guerra
Il capitolo energia (con la quale finanziamo Vladimir Putin, rischiando pure di restare al buio) non è il solo prezzo da pagare all’insipienza di chi ci ha cacciati in questa situazione. Duro colpo a export e turismo. E dall’acciaio al grano, mancano le forniture per le imprese.Le guerre non sono mai gratis e dunque anche quella in Ucraina non lo è. Intendiamoci: non mi riferisco al costo di vite umane, perse dall’una e dall’altra parte. La tragedia che si sta consumando davanti ai nostri occhi si concluderà con un bagno di sangue e questo, purtroppo, lo do per scontato, chiunque sia il vincitore. Ma se il principale prezzo da pagare per l’insensato conflitto scoppiato tra Mosca e Kiev è un massacro, ce n’è poi uno secondario, tutt’altro che marginale, che saranno costretti a sostenere i cobelligeranti, cioè noi. Sì, non illudiamoci che l’Italia non venga chiamata a sostenere la spesa di questa guerra. Come ha ben spiegato sulla Stampa Domenico Quirico, ossia uno che di conflitti se ne intende perché ha trascorso al fronte una buona parte della sua vita di inviato, per quante capriole linguistiche facciamo la scelta di inviare mitragliatrici e granate agli ucraini è una discesa in campo. Non siamo alla dichiarazione ufficiale di entrata in guerra contro la Russia, ma nei fatti è così. E il prezzo non si limiterà ai 150 milioni autorizzati dal governo per gli invii di armamenti da consegnare alle milizie al fianco di Kiev, ma la somma finale sarà inevitabilmente molto più alta e già qualche effetto si vede.Il primo lo si registra in Borsa: miliardi andati in fumo che chissà quando si recupereranno. Ma forse, penserete, questo riguarda i ricconi. Sì e no, perché perdono gli investitori ma anche le aziende e quindi l’economia reale. Ma questo è solo l’inizio, perché, come abbiamo scritto c’è un costo dell’energia che riguarda tutti. Noi importiamo da Mosca il 46 per cento del gas che consumiamo. Ed è inutile che ci facciamo illusioni, dando credito alle rassicurazioni di Luigi Di Maio e del governo: alla fornitura di Putin non c’è alternativa, per lo meno per i prossimi anni. Il viaggio in Algeria del ministro degli Esteri è stato un flop, dato che gli algerini non hanno nessuna voglia di inimicarsi i russi ma anche perché per pompare altro metano, prima bisogna estrarlo e non è cosa che si faccia in due minuti. Non va meglio con la Libia, dove il gasdotto Green Stream è in una zona sotto il controllo dei soldati del generale Haftar, che, come è noto, è sostenuto da Mosca. È vero che i mercenari fanno alla svelta a cambiare bandiera, ma comunque anche in Cirenaica prima di esportarlo il gas si deve estrarre. E a ogni buon conto in quelle tubature al massimo possono passare 8 miliardi di metri cubi, contro i 33 che la Russia ci vende. Non c’è da fare affidamento neppure sul metano azero, perché tra Baku e Mosca i rapporti sono stretti e non bisogna dimenticare che la mediazione di Putin è stata fondamentale nella soluzione della guerra fra Armenia e Azerbaijan, che ha consentito a quest’ultimo Paese di prendersi il Nagorno-Karabakh. In pratica, come ha detto Elio Vito, ex Forza Italia nella commissione Difesa della Camera, meglio cominciare a spegnere la luce. Altro che carbone, sostituire il gas russo, che oltre a riscaldare le nostre case ci consente di accendere la luce e far funzionare il frigorifero e il condizionatore, per ora è impossibile. Risultato, ogni giorno versiamo nella casse di Mosca una montagna di soldi e da quando è iniziata la guerra e il prezzo del metano è aumentato siamo costretti a versarne ancora di più. La spesa per l’energia, da riscaldamento e per la produzione, rappresenta sicuramente il salasso maggiore e se con le bollette di fine anno ce ne siamo resi conto, con quelle prossime sarà anche peggio. Ma il conto non è finito. Perché le sanzioni contro Putin danneggiano sicuramente l’economia moscovita, ma pure la nostra. Pensate solo al turismo. Nel 2019, prima della pandemia, con Aeroflot arrivavano 1,7 milioni di visitatori, che in media pernottavano 3,7 notti, per una spesa di 2,5 miliardi. Tanto per capirci, per fatturato i turisti russi venivano solo dopo americani e cinesi e per la Pasqua ortodossa arrivavano in massa, al punto che quest’anno ne erano attesi 175.000, per un fatturato di 20 milioni in pochi giorni per i soli alberghi.Nella sostanza, l’Italia dovrà dire addio a 22 miliardi di scambi commerciali e dovremo rinunciare a esportare vino, capi d’abbigliamento, macchinari, mobili e calzature. Senza contare che oltre agli affari andati in fumo per effetto del conflitto, stanno rincarando una serie di materie prime, che vanno dal rame al nichel, per finire all’acciaio di cui la Russia è esportatrice, per non parlare poi dei fertilizzanti, che sono indispensabili nel settore agro alimentare. Per restare nel settore, il prezzo delle farine è schizzato all’insù e addirittura sul mercato cominciano a scarseggiare le forniture. Si dirà, è il prezzo da pagare per la difesa della libertà. Giusto, però bisognerà spiegarlo agli italiani, i quali all’improvviso si trovano con un’inflazione alle stelle e, come dice Elio Vito, dovranno imparare a spegnere la luce e usare le candele, ad abbassare il riscaldamento e se possono dovranno accendere il caminetto (delle emissioni inquinanti per ora ce ne facciamo un baffo, del resto se Draghi vuole accendere le centrali a carbone un fuocherello non farà certo la differenza). Sì, qualcuno prima o poi dovrà spiegare quali sono i costi della guerra che facciamo per procura ma di cui dobbiamo pagare i conto. E magari, dopo aver detto la verità su quello che ci aspetta, forse sarebbe anche il caso che dica di chi sono le responsabilità di un incendio che divampa e poteva essere spento anni fa. Perché è vero che Putin è pazzo e pericoloso, soprattutto se parla di bomba atomica, ma di pazzi e pericolosi ce ne sono in circolazione anche altri.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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