2019-10-16
Quando si perde il senso delle parole il lavoro può diventare disumano
Pubblichiamo un estratto dell'ultimo libro di Carlo Bellieni. Una raccolta che restituisce il significato originale a 200 termini per chi si occupa di scuola, medicina, economia, ingegneria. Ma anche di anime.Ho iniziato a interessarmi dell'etica del lavoro, io bioeticista medico, quando mi è apparsa chiara una cosa: che il lavoro in medicina diventa non etico non solo quando fa morire, quando fa ammalare o quando omette cure (quello è già reato), ma quando crea le condizioni perché il mal-trattamento abbia luogo: se tratta le persone non da persone, ma da cose. È l'antitesi dell'imperativo kantiano: trattare le persone non come fini ma come mezzi. Insomma, è non etico per il medico lavorare come un robot, mettendo tra parentesi la propria umanità, scimmiottando la famosa «intelligenza artificiale», che può essere un grande supporto, ma mai un sostituto dell'uomo e mai una cosa da imitare da parte del medico. È questo che non è etico! L'umano che copia il meccanico rende la medicina (e ogni lavoro) fredda e inefficace; è ciò che accade quando il medico pensa che le cose che fa, le numerose opzioni tecniche di cui dispone, debbano offuscare il suo cervello, la sua umanità, il modo «in cui le fa». È un comportamento di «brutte copie» del comportamento originale.Da qui sono partito: dalla considerazione del lavoro medico, fino alla considerazione del lavoro in generale. Il lavoro come brutta copia dell'originale, cioè del lavoro davvero umano, è un orrore. Perché o è fatica o è routine noiosa e deprimente: e i lavoratori si perdono l'oggi (il gusto di lavorare), lo ieri (la memoria), il domani vero (il desiderio di produrre e creare). [...]«La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali». (Charles Péguy).Nulla è peggio del lavoro routinario: ce lo insegnava Charlie Chaplin nel film Tempi moderni, e continuano a insegnarcelo i vari studi di psicologia, sociologia e medicina. [...] Quello che veramente è lontano dall'etica è il lavoro che perde senso, uno dei tratti del moderno nichilismo secondo Friedrich Nietzsche. Il Faraone durante la prigionia degli ebrei in Egitto, per troncarne le velleità di rivolta li costringeva a lavori sempre più faticosi; ma gli ebrei non si davano per vinti e stringendo i denti, scavavano solchi, forgiavano mattoni; allora il Faraone pensò un semplice stratagemma per fiaccarli: toglier loro la paglia ai mattoni che costruivano, col risultato di ottenere mattoni senza presa, senza forza, di ottenere un lavoro che si autodisfaceva, un lavoro senza senso. Fu quello il colpo di grazia per far scattare la rivolta e la decisione della fuga dall'Egitto. Era una brutta copia del lavoro. [...]FetoÈ solo da pochi anni che il termine feto indica il livello di vita umana prima della nascita. Ad esempio Leonardo da Vinci, nei suoi famosi schizzi anatomici sulla gravidanza, mai indica il bambino che deve nascere con il termine feto, ma usa sempre la parola putto o bambino. Il termine feto viene dal greco fytòs che significa il fecondato, il cresciuto, e dal verbo greco phyo che significa cresco. Nel corso dei secoli i termini bambino e feto erano spesso intercambiabili, pur usandosi feto per lo più a indicare lo stato prenatale. Ritroviamo in testi settecenteschi espressioni come «La madre somministra al feto quei sieri che conserva nel seno e questi sieri tirati dal feto servono al medesimo da purgante» (Francesco Valle); nel Satyricon di Petronio leggiamo: «querulae fetus suis, hostia lactens» («vittima ancora lattante, il feto della querula scrofa»).Il termine feto deriva infatti da una radice indoeuropea che significa «succhiare» e la parola fetus, in epoca romana, significava esattamente «frutto» oppure «progenie»: «nec ulla aetate uberior oratorum fetus fuit» («il frutto degli oratori non fu più fecondo in nessun'altra epoca»), scriveva Cicerone; e Catullo indicava come «dulces musarum fetus» i figli delle muse, cioè le poesie.Insomma, i romani non usavano il termine feto solo per indicare il bambino nascituro, perché sapevano bene che il figlio non ancora nato era un puer: «Puer an puella matris esset in ventre» («Che un bimbo o una bimba fosse nel ventre») scriveva Marziale, per non parlare poi dei riferimenti biblici: «Appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo» (Vangelo di Luca). Anche certe tracce nel linguaggio moderno ci testimoniano questo: il termine fawn in inglese - come l'analogo faon in francese - significa «cucciolo», ovvero «cerbiatto», e deriva proprio dalla parola fetus, attraverso una sua deriva del termine tardo latino feto (-onis) di ugual significato. D'altronde anche il termine «embrione» ha subìto un destino simile, quello di essere svilito nel tempo, dato che in origine più che una parola era una specie di aggettivo che vuol dire «che fiorisce dentro» (en-brýein), il cui soggetto, evidentemente, è «il bambino», in Omero «giovane animale».BocciareIl termine bocciare è abbastanza discusso come etimologia. Si pensa che venga dalla similitudine col gioco delle bocce, in cui suole far sbalzare fuori dal campo una biglia con il colpo di un'altra biglia. O si pensa che venga dall'uso di dare i voti dentro delle palline (bocce). In realtà è un termine sgradevole, che indica un evento violento; ma siccome nella vita di eventi violenti se ne ripeteranno innumerevoli volte, ha anche una sua valenza pedagogica, con una morale. E la morale è questa: la vita ti fa saltare per aria come una boccia a volte, spesso per una tua responsabilità, qualche volta per beffa, per caso, per disgrazia... ma è un dato di fatto, che la vita ti fa saltare e ti ci devi abituare, devi prenderla come un male comune, vaccinarti, saperti rialzare e sapere come e con chi rialzarti. E questo ha un corollario, che qualche volta però è colpa tua, che non tutto andrà bene se non ti impegni, e che l'impegno non garantisce nulla ma certo senza impegno, se le cose vanno male, te la sei andata a cercare. [...] Oggi suole contestare la durezza della vita, così come suole contestare, in maniera rozza, affannata e violenta, una bocciatura con ricorsi e sentenze o con un atteggiamento rissoso o manesco verso i professori, da parte dei genitori che prendono la scuola come un commercio, in cui ci si aspetta di essere promossi di default. Invece la scuola, pur se tante riforme ce lo fanno credere, non è un'azienda, un esamificio, un supermarket dove basta entrare, scegliere e comprare. La scuola, anche nella sua durezza, è pedagogia pura.MaestranzaOggigiorno dire maestranza è parlare di operai, carpentieri e muratori in maniera massificata e ripetitiva. La colpa è il modo meccanico in cui il lavoro è ripartito attualmente, tanto che difficilmente si ha la soddisfazione della creatività nell'eseguirlo. Ma quando il lavoro era soggetto a ritmi meno frenetici e meno ripartito secondo criteri rigidi, chi lavorava assurgeva a rango di creatore nella pur piccola porzione di lavoro che gli era sottoposta, tanto da essere definito maestro; certo, il termine maestro era soprattutto riservato ai capostruttura, capisquadra eccetera, ma i grossi asini da soma in greco venivano chiamati kantarion anche ogni lavoratore aveva un'importanza specifica nel pezzetto che gli era riservato, tanto che il termine maestranza arrivò a indicare tutto il nugolo di lavoratori - almeno quelli che lavoravano bene - e lo indica ancor oggi, anche se di arte magistrale nel singolo lavoro oggi se ne ha ben poco spazio.BancaPresso i romani, quelli che usavano fare i cambiavalute usavano un tavolo o mensa-argentaria o banco, per il loro lavoro. Da qui il termine banca. Questa banca, quando il gestore non era più in grado di onorare i suoi impegni, veniva spezzata, e si usava il termine di bancarotta per indicare questo tipo di fallimento economico. Le prime banche avevano dei criteri etici oggi impensabili: in particolare era vietato lucrare sui prestiti, cosa che magari veniva aggirata facilmente ma che era alla base dell'economia etica, basata sui principi evangelici secondo i quali era proibito chiedere interesse monetario sui prestiti fatti alle persone della stessa religione: «Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all'indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l'aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso» (Libro dell'Esodo). Per aggirare il rischio di usura, molte delle banche medievali erano monti di pietà, un'istituzione finanziaria senza scopo di lucro, sorta in Italia nella seconda metà del XV secolo su iniziativa di alcuni frati francescani, allo scopo di erogare prestiti di limitata entità (microcredito) a condizioni favorevoli rispetto a quelle di mercato. L'erogazione finanziaria avveniva in cambio di un pegno o caparra.
Abdel Fattah Al-Sisi e Donald Trump (Ansa)