2019-07-08
Quando l’accoglienza è Cosa Nostra. I rapporti oscuri tra cosche e coop
L'ultimo caso tra Lodi e Parma, dove dietro a quattro onlus spuntano i clan. L'ex procuratore antimafia lanciò l'allarme nel 2017. Gli stessi scafisti hanno confessato che non potrebbero operare senza coperture dei boss.«I profitti dell'immigrazione clandestina vengono spartiti dalle mafie che gestiscono anche molti centri di accoglienza e smistano la manodopera nel territorio nazionale». Era il settembre 2017 e a spiegare con chiarezza i rapporti tra cosche e business sui profughi era l'ex procuratore antimafia, Vincenzo Macrì, uno che di certo non può essere spacciato per un populista. «Sono quelli delle mafie, mafie capisci? Lavoriamo di regola con loro, gli vendiamo la roba e anche il fumo. L'ultima volta che ho fatto questa rotta non ho trasportato persone, ho portato della merce», raccontava qualche tempo dopo, con parole più semplici uno scafista intervistato dal Fatto Quotidiano.In audizione alla Commissione antimafia, nello stesso anno, il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, spiegava: «C'è una massa di denaro destinata all'accoglienza dei migranti che attira gli interessi delle organizzazioni mafiose». E in effetti, non c'è chi, conoscendo almeno un po' il modus operandi delle mafie italiane, e il controllo totale che esercitano sul territorio, possa dire di non essersi domandato, almeno una volta, quanto sarebbe oggettivamente difficile per organizzazioni criminali non italiane fare sbarcare al Sud migliaia di esseri umani senza la benedizione dei boss di qualsivoglia tipo di mafia.Eppure, ancora oggi sulla connessione tra gestione profughi e mafie c'è un tabù, che nemmeno il ripetersi delle inchieste che lo dimostrano sta riuscendo a rompere del tutto. Forse perché, riconoscendolo, si dovrebbero allacciare fili di altre relazioni pericolose. Che a loro volta potrebbero portare a chi, politicamente parlando, il traffico di profughi, in Italia, lo ha favorito. O forse perché, come ipotizzava Il Foglio commentando in modo critico le parole di Macrì, «a qualcuno, in una direzione distrettuale antimafia di qualche procura siciliana», potrebbe venire in mente di contestare «il reato di concorso esterno per qualche Ong». All'epoca dell'intervista, il giornale di Giuliano Ferrara aveva dato dell'ingenuo al procuratore, ma gli ultimi due anni di inchieste sembrano andare nella direzione opposta. L'ultimo caso è quello di pochi giorni fa: tra Lodi e Parma la procura di Milano ha fatto arrestare 11 persone per associazione a delinquere, truffa allo Stato e autoriciclaggio per oltre 7,5 milioni di euro. La cifra, enorme, sarebbe il provento della gestione dei profughi da parte di quattro onlus (Volontari senza frontiere, Milano solidale, Amici di Madre Teresa e Area solidale) e una buona parte del totale, pari a 4,5 milioni, secondo gli inquirenti sarebbe finita in mano ad affiliati delle cosche. Quando non addirittura nelle tasche delle famiglie dei boss finiti in carcere, per il mantenimento di un buon tenore di vita, secondo un'usanza tipica dei clan che garantiscono mogli e figli degli adepti più sfortunati.Le onlus toccate dell'inchiesta, infatti, secondo le indagini, sarebbero collegate «a noti pluripregiudicati appartenenti alla 'ndrangheta» e sarebbero state utilizzate per consentire a persone recluse di «accedere ai benefici di legge attraverso l'assunzione presso le predette cooperative», oltre che per «garantire supporto economico ad alcuni soggetti colpiti da condanne per reati, tra gli altri, di associazione a delinquere di stampo mafioso». In sostanza, le cooperative servivano da contenitore, per far lavorare decine di affiliati, che beneficiavano a piene mani dei fondi pubblici elargiti per il mantenimento dei migranti.Un altro caso eclatante, nel recente passato, è stato quello che ha scoperchiato il calderone al Centro d'accoglienza di Crotone, gestito dalle cosche che agivano sotto copertura. L'operazione denominata Jonny, partita nel 2017, era stata mastodontica: aveva impegnato oltre 500 agenti e, dopo mesi di indagini, aveva consentito di smantellare la cosca che faceva capo alla famiglia Arena la quale, di fatto, gestiva da tempo il centro di accoglienza per migranti di Isola Capo Rizzuto, cioè il Cara Sant'Anna. A coprire il clan erano esponenti della Fraternità di Misericordia e lo scorso 18 giugno, a due anni dall'inchiesta, il gup di Catanzaro ha inflitto condanne per complessivi 640 anni di carcere ai 65 imputati che hanno scelto il rito abbreviato. Tra questi spicca la pena inflitta al governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto, Leonardo Sacco, condannato a più di 17 anni di carcere.Che qualcosa di anomalo accadesse nella gestione del centro calabrese si sapeva da tempo. Addirittura dal lontano 2006, quando Giuseppe De Stefano, vicepresidente dal 2005 al 2011, lo aveva denunciato pubblicamente e scritto più volte, nero su bianco, con appelli indirizzati ai probiviri delle Misericordie, ma anche ai referenti della struttura nella curia vescovile locale. A insospettire De Stefano era stata la crescita esponenziale di quella sede della Misericordia, che in pochi anni, proprio grazie alla gestione dei profughi, era diventata tra le più remunerative per l'organizzazione assistenziale (che riceve percentuali di proventi da ogni sede).Lo scorso gennaio un'inchiesta della Dda di Napoli ha scoperchiato un giro di cooperative attive da tempo nei centri di recupero minori e «vicine alla fazione Schiavone del clan dei Casalesi». Dopo aver ottenuto, indisturbate, la gestione delle delicate strutture di recupero, le coop puntavano dirette sul Cara di Mineo. Senza nemmeno usare prestanome o nascondere più di tanto le proprie origini, membri del clan Schiavone avevano presentato la loro proposta per occuparsi del più importante centro di accoglienza del Sud Italia. Gli inquirenti se ne sono accorti soltanto quando la Prefettura ha chiesto ai partecipanti alla gara d'appalto la certificazione antimafia. Una richiesta davanti alla quale le coop in questione hanno pensato bene di sparire, destando i primi sospetti.Ma la vicinanza tra le mafie e il business profughi si può manifestare in modi diversi, anche attraverso il pizzo per esempio. Sempre nei mesi scorsi, e sempre a Napoli, gli inquirenti hanno scoperto un altro gancio tra mafia e immigrazione clandestina. In cambio di una protezione, un clan di Secondigliano pretendeva una quota del denaro che un albergatore percepiva dalla Regione Campania per ospitare i rifugiati. «Questo dimostra», ha detto in proposito il questore di Napoli, «l'agilità del clan, in grado di sfruttare a proprio favore anche i flussi migratori». E ancora. A Trapani nel luglio 2018 l'operazione Brother portò alla scoperta del cosiddetto «sistema Fratello», un intricato giro di intestazioni fittizie, di cooperative affidate a prestanome, di appropriazioni indebite ed emissioni di fatture false tutte riconducibili all'ex deputato di Alcamo Onofrio Fratello detto Norino. Soprannominato il «re delle cooperative» della provincia di Trapani, Fratello era già condannato nel 2006 a 18 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, ma poi era rientrato sotto falso nome nel business migranti diventando il «capo occulto di una serie di società e coop molto attive nell'accoglienza di profughi».Le prime avvisaglie di un legame sempre più fitto tra criminalità organizzata e gestione profughi sono, però, di più vecchia data. Nella primavera 2016 in Calabria fu avviata un'indagine sulle 'ndrine impegnate nel settore sanitario, nell'edilizia e nell'accoglienza. Tra le altre venne sequestrata La Caravella, una cooperativa di prossima attivazione che aveva come scopo la gestione di una struttura alberghiera da riempire con i profughi. E, soprattutto, nella carrellata delle inchieste non può mancare l'antesignana di tutte le gestioni mafiose del business immigrazione, quella di Mafia Capitale. Impossibile dimenticare l'iconica frase pronunciata da Salvatore Buzzi. Il numero uno della coop 29 giugno, condannato in appello a 18 anni e 8 mesi con l'aggravante di associazione di stampo mafioso, al telefono con Pierina Chiaravalle, braccio operativo dell'associazione, sentenziava: «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno».
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)