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2022-03-03
Quando Bach suona il rock
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(Ansa-IStock)
Fu solo dopo la metà degli anni Sessanta che la musica classica incontrò il pop-rock mondiale, per proseguire e svilupparsi per tutto il periodo successivo. Fino ad allora, a partire dagli albori del decennio precedente, la scena mondiale della musica leggera era stata dominata dal rock’n’roll, un’evoluzione del blues dalle radici puramente afro-americane. La fine della seconda guerra mondiale e il dominio culturale ed artistico degli Stati Uniti sul mondo occidentale avevano contribuito alla diffusione del rock, declinato nella lingua locale in molti paesi d’Europa. In Italia il Clan di Adriano Celentano e autori come Bobby Solo e Little Tony si erano appropriati dell’immagine del re del rock mondiale Elvis Presley e di star come Jerry Lee Lewis ed avevano scalato le classifiche nazionali come fece in Francia Johnny Hallyday. Per tutta la prima parte degli anni Sessanta i nuovi autori rimasero sostanzialmente ancorati al rock’n’roll classico, in primis i Beatles degli esordi e i primi Rolling Stones. L’incontro tra le melodie e i canoni dei grandi autori del passato avviene sostanzialmente con gli esordi dello stile «progressive», che dominerà le scene a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. I protagonisti dello stile saranno musicisti tecnicamente preparati, molti dei quali provenienti da studi di conservatorio. Riguardo alle contaminazioni, alle citazioni o alle elaborazioni originali dei pezzi classici ne abbiamo parlato con un grande pianista a livello internazionale, Takahiro Yoshikawa. Gli abbiamo chiesto chi fosse l’autore del passato che più ha influenzato l’evoluzione «progressiva» e in generale quella del pop-rock internazionale. «Nessun dubbio, Johann Sebastian Bach» - ci ha risposto- spiegandoci anche il perché: «Bach - afferma Yoshikawa - è sempre stato un punto di riferimento per gli autori che lo hanno seguito. Una specie di enciclopedia vivente della musica occidentale, culla delle tradizioni musicali popolari e sacre allo stesso tempo, interprete dei canoni inglesi, francesi, tedeschi e italiani che ricorrono nelle sue composizioni». L’origine popolare di molte composizioni di Bach fece sì che le generazioni future di compositori prendessero le sue opere come punto di partenza per elaborazioni originali, molto più di autori successivi altrettanto illustri come ad esempio Mozart». Fu dunque il maestro di Eisenach ad ispirare in molteplici forme l’evoluzione del pop-rock. «La musica di Bach - spiega il pianista giapponese- è concettuale. Lui nella composizione non era legato al colore o timbro di ciascuno strumento. Nella sua «Offerta musicale», composizione scritta nel 1747 partendo da un’improvvisazione dedicata a Federico II di Prussia, la partitura non riporta i nomi degli strumenti, lasciando la massima libertà di interpretazione ed elaborazione». In alcuni casi il riferimento a Bach fu una vera e propria «cover» e questo fu il caso dei Procol Harum, con «A Whither shade of pale» del 1967. Il pezzo non era altro che una fedele copia dell’«Aria sulla quarta corda» riarrangiata alla fine del XIX secolo da August Whilelmj dall’originale Terza suite orchestrale in re maggiore del 1730. Il grandissimo successo del pezzo dei Procol Harum (in Italia riproposto con il titolo Senza luce e interpretato negli anni dai Dik Dik, Fausto Leali, Caterina Caselli e Al Bano) fece da ponte alla divulgazione della classica nelle classifiche pop-rock mondiali. L’anno precedente ad aprire le danze alla nuova contaminazione musicale era stato il quartetto più celebre del mondo, i Beatles. Lo avevano fatto quasi in sordina, grazie all’apporto fondamentale di un compositore di primissimo piano che era anche il produttore musicale dei Fab Four, George Martin. «Rubber Soul», il sesto lp dei Beatles, era uscito alla fine del 1965 ed aveva scalato le classifiche mondiali sin dai primi giorni del 1966. L’undicesima traccia del disco era il brano «In my life», una ballata malinconica sui ricordi del passato interrotta alla penultima strofa da un intermezzo nettamente staccato dalla struttura della canzone e suonato dallo stesso Martin al clavicembalo. Quello che ai profani potrebbe suonare come un minuetto è in realtà l’arrangiamento su un particolare giro musicale del Seicento. E’ Takahiro Yoshikawa a leggere per noi quel passaggio, riconoscendolo immediatamente come una interpretazione del «canone di Pachelbel», una composizione in stile barocco che si ritiene composta dal musicista di Norimberga Johann Pachelbel (1653-1706). Quello che sarà uno dei canoni classici più usati dal pop (gli stessi Beatles lo riproporranno in una delle loro ultime composizioni, «Let it Be») era di fatto una composizione per tre violini e basso continuo, dove quest’ultimo costituisce la base armonica allo sviluppo della melodia in una sequenza di accordi molto ricorrenti nella musica leggera contemporanea (Re/La/Si minore/Fa#minore/Sol/La e ritorno sulla tonica Re). Un giro che è entrato nell’orecchio e nel cuore degli Italiani, perché sul canone di Pachelbel si può cantare tranquillamente «Albachiara» di Vasco Rossi e tanti altri successi pop.
I Beatles e George Martin saranno il fulcro dell’abbraccio tra la musica sinfonica classica e il rock anche negli anni successivi, contribuendo in modo determinante alla diffusione globale di questa nuova contaminazione. Nel 1967 usciva infatti uno dei dischi più ascoltati al mondo, «Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band», un concept album pieno di rimandi e arrangiamenti orchestrali. Il primo indizio viene da una «ghost track» all’inizio del disco dove in sottofondo si può sentire la London Philarmonic Orchestra nella fase di accordatura degli archi. Dello stesso anno è un’altro successo mondiale dei Beatles, «Penny Lane», che avrebbe dovuto essere inclusa in «Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band» ma che fu poi pubblicata come singolo. Il brano di per sé appariva all’orecchio di George Martin come una canzonetta, ben fatta ma senza un tocco unico che la distinguesse dalle altre, come avvenuto per molte hit del quartetto. La soluzione venne ancora dal grande Bach con uno strumento, secondo Takahiro Yoshikawa, molto ricercato e che pochi suonano: il trombino (in inglese piccolo trumpet), uno strumento a fiato del tutto simile a una tromba, ma di dimensioni ridotte ed intonata un’ottava sopra, in si bemolle. Era un ottone impiegato nelle opere di Bach e più in generale nella musica barocca. Questo piccolo strumento fu la chiave di volta che George Martin utilizzò per rendere unico l’arrangiamento di una canzonetta, pensando al Secondo concerto brandeburghese che il maestro aveva appena ascoltato alla Bbc insieme a Paul McCartney. L’indomani Martin chiamò il trombettista David Mason, del Royal College of Music di Londra e organizzò una session con i Beatles in cui Mason inventò, ispirandosi all’opera di Bach, quell’assolo che renderà unica la canzone, ancora una volta firmata dal genio tedesco. La luna di miele tra il compositore barocco e il quartetto di Liverpool proseguirà anche negli album successivi. Nel doppio lp del 1968, «the White album», un pezzo per chitarra acustica composto da Paul McCartney ne è la prova. In questo brano di nuovo l’eco di Bach fa da guida a «Blackbird», con l’utilizzo del basso continuo in una reinterpretazione della famosissima «Bourrée in mi minore», che i Jethro Tull riprenderanno integralmente l’anno successivo con Ian Anderson al flauto traverso. L’ultimo disco dei Beatles in termini di data di registrazione (e l’ultimo in studio) fu uno dei più grandi capolavori della storia del pop-rock: «Abbey Road». Qui, nel brano malinconico «Because» attacca il clavicembalo di George Martin con un accompagnamento in terzine che è la rielaborazione di uno dei brani più conosciuti di Ludwig van Beethoven, la «Sonata al chiaro di luna».
I Beatles si sciolsero nel 1970, quando il «progressive» era agli albori e molti altri autori avrebbero guardato alla musica classica, anche tra i grandi la cui carriera era iniziata nel decennio precedente, come il cantautore newyorchese Paul Simon. Nel 1973 uscì l’album «There goes Ryhmin’ Simon» dove era contenuto il brano «American Tune». Al primo ascolto il pezzo, che nel testo parla di deriva del sogno americano, potrebbe sembrare una ballata nella tradizione della East coast. In realtà il tema portante è ancora una volta opera del grande Bach. Anzi no. Takahiro Yoshikawa ci riporta ancora più indietro nel tempo, perché spiega che il grande compositore tedesco prese a sua volta ispirazione da un musicista suo conterraneo di un secolo precedente, Hans Leo Hassler, che compose la «Passione corale» attorno al 1600. La passione di Gesù, musicata dal testo latino scritto nel medioevo e tradotta in tedesco dal poeta luterano Paul Gerhardt, fu ripresa e riarrangiata integralmente da Bach nella «Passione di Matteo» (1727). Paul Simon dichiarò di avere esplicitamente attinto all’opera corale, ben riconoscibile all’inizio e alla fine della strofa.
L’anno successivo all’uscita di «American Tune» un’altro album che farà storia verrà lanciato sul mercato mondiale. Era il 18 novembre 1974 quando i Genesis presentarono il loro primo concept album, «The lamb lies down on Broadway», la cui intro di pianoforte ricordava molto alcuni passaggi del «Concerto per pianoforte n.2» (1900) di Sergej Rachmaninoff mentre nel tour mondiale che precedette il lancio del disco il frontman Peter Gabriel fece distribuire al pubblico un opuscolo con le «note di sala» sull’esempio di Héctor Berlioz (Idée Fixe). Il libretto conteneva informazioni per seguire la storia contenuta nel brano della durata di 23 minuti, «Supper’s Ready».
La presenza della musica classica come influenza diretta o come semplice (si fa per dire) citazione all’interno di brani originali proseguirà in diversi successi degli anni successivi all’era del rock «prog». Uno degli esempi più noti è certamente il repertorio dei Queen, intriso di passaggi musicali ispirati soprattutto all’opera classica. Al di là di evidenti echi noti a tutti come quelli che costituiscono la struttura musicale ed il cantato di uno dei più grandi capolavori della band, «Bohemian Rapsody», la lirica è protagonista in una citazione palese con la performance canora di Freddie Mercury. Le prime battute di «It’s a hard life» altro non sono che una reinterpretazione della melodia di «Vesti la giubba», aria famigerata de «I pagliacci» di Ruggero Leoncavallo. Anche Sting, in un successo scritto durante l’era della perestrojka di Gorbaciov, si produsse in una citazione «sotto traccia» in «Russians» (1985). Sotto il cantato è infatti presente una linea melodica fedelmente ripresa dal tema «Romanza» tratta dall’opera «Il luogotenente Kize», scritta per l’omonimo film sovietico da Sergej Prokofiev nel 1934. Anni più tardi sarà un’altra popstar britannica a riprendere Prokofiev in una delle sue hit più famose degli ultimi anni. In «Partying like a russian», Robbie Williams propone l’inserimento di uno stralcio della «Danza dei cavalieri» tratta dall’opera del 1935 «I Montecchi e i Capuleti». Frédéric Chopin sarà invece il protagonista della citazione di una delle più importanti band degli anni Novanta, i Radiohead, che nel loro album più famoso, «Ok computer» del 1997 si ispirano esplicitamente al «Preludio in Mi minore», dall’opera 28 - n.4 con un arrangiamento folk-grunge fatto dall’accompagnamento di chitarra acustica e la linea melodica cantata. Così come Chopin, anche Beethoven fa la sua comparsa in un brano di uno dei gruppi-rivelazione degli ultimi anni, i 21 Pilots. Il duo nato in Ohio nel 2009 «rappa» sulla «Sonata al chiaro di luna» che lega il parlato e il beat di batteria e percussioni in «Neon gravestones», mentre il «canone di Pachelbel» di cui abbiamo parlato più sopra ritorna in «Memories» dei Maroon Five. Il tempo a disposizione di Takahiro, reduce da una lunga tournée nel suo Giappone, sta per finire e quando ormai è agli sgoccioli ci tocca tornare di nuovo con la mente alle origini del rock, perché ci ricordiamo che Elvis Presley uscì con un grandissimo successo che era ripreso da un brano classico. Nel 1961 usciva «Can’t help falling in love» e quella hit che consumò i juke box e fece innamorare le coppie che la ballavano guancia a guancia era nata in verità nel 1785 dalla mente di Jean-Paul-Egide Martini. «Plaisir d’amour» fu una composizione che piacque particolarmente alla regina Maria Antonietta di Francia. Alla fine ci ricordiamo anche che un «lento», di quelli che chiudevano le serate nelle discoteche degli anni Settanta, ci fu regalato da Rachmaninoff. «All by myself» di Eric Carmen attingeva a piene mani e riprendeva il “Concerto per pianoforte n.2 in do minore». L’ultimo nostro pensiero è per Lady Gaga, che omaggia i classici senza interferire. Takahiro mi ricorda che nel video ufficiale di «Marry the night», per circa un quarto d’ora le crude scene del ricovero in psichiatria della protagonista (Lady Gaga stessa) sono accompagnate dalle note drammatiche ed incalzanti della sonata per pianoforte «Patetica» di Beethoven.
Takahiro Yoshikawa, pianista
Milanese d’adozione, Takahiro Yoshikawa divide la sua attività di concertista tra l’Italia e il natio Giappone. A Tokyo si è diplomato e dottorato in pianoforte presso l’Università delle Arti di Tokyo, a Milano ha proseguito i suoi studi con insegnanti come Anita Porrini e Silvia Bianchera Bettinelli, frequentando l’Accademia Teatro alla Scala. È impegnato in una intensa attività concertistica e discografica in Italia e in Giappone come solista e in formazioni cameristiche. Numerose le sue esibizioni al Teatro alla Scala e in concerti con i Solisti della Scala. Suona in duo da più di 15 anni con il primo clarinettista solista del Teatro alla Scala Fabrizio Meloni con cui tiene anche varie Masterclass. Ha ricevuto numerosi premi internazionali. Per seguirlo il suo sito web ufficiale è www.takahiroyoshikawa.com
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L'incontro tra la classica e il pop-rock ha creato capolavori. Fu soprattutto Bach a lasciare il segno: dai Beatles a Paul Simon ai Radiohead. Un pianista classico di grande talento, Takahiro Yoshikawa, ci aiuta a leggere le contaminazioni. Da Chopin a Beethoven a Prokofiev attraverso i grandi successi della musica leggera.Fu solo dopo la metà degli anni Sessanta che la musica classica incontrò il pop-rock mondiale, per proseguire e svilupparsi per tutto il periodo successivo. Fino ad allora, a partire dagli albori del decennio precedente, la scena mondiale della musica leggera era stata dominata dal rock’n’roll, un’evoluzione del blues dalle radici puramente afro-americane. La fine della seconda guerra mondiale e il dominio culturale ed artistico degli Stati Uniti sul mondo occidentale avevano contribuito alla diffusione del rock, declinato nella lingua locale in molti paesi d’Europa. In Italia il Clan di Adriano Celentano e autori come Bobby Solo e Little Tony si erano appropriati dell’immagine del re del rock mondiale Elvis Presley e di star come Jerry Lee Lewis ed avevano scalato le classifiche nazionali come fece in Francia Johnny Hallyday. Per tutta la prima parte degli anni Sessanta i nuovi autori rimasero sostanzialmente ancorati al rock’n’roll classico, in primis i Beatles degli esordi e i primi Rolling Stones. L’incontro tra le melodie e i canoni dei grandi autori del passato avviene sostanzialmente con gli esordi dello stile «progressive», che dominerà le scene a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. I protagonisti dello stile saranno musicisti tecnicamente preparati, molti dei quali provenienti da studi di conservatorio. Riguardo alle contaminazioni, alle citazioni o alle elaborazioni originali dei pezzi classici ne abbiamo parlato con un grande pianista a livello internazionale, Takahiro Yoshikawa. Gli abbiamo chiesto chi fosse l’autore del passato che più ha influenzato l’evoluzione «progressiva» e in generale quella del pop-rock internazionale. «Nessun dubbio, Johann Sebastian Bach» - ci ha risposto- spiegandoci anche il perché: «Bach - afferma Yoshikawa - è sempre stato un punto di riferimento per gli autori che lo hanno seguito. Una specie di enciclopedia vivente della musica occidentale, culla delle tradizioni musicali popolari e sacre allo stesso tempo, interprete dei canoni inglesi, francesi, tedeschi e italiani che ricorrono nelle sue composizioni». L’origine popolare di molte composizioni di Bach fece sì che le generazioni future di compositori prendessero le sue opere come punto di partenza per elaborazioni originali, molto più di autori successivi altrettanto illustri come ad esempio Mozart». Fu dunque il maestro di Eisenach ad ispirare in molteplici forme l’evoluzione del pop-rock. «La musica di Bach - spiega il pianista giapponese- è concettuale. Lui nella composizione non era legato al colore o timbro di ciascuno strumento. Nella sua «Offerta musicale», composizione scritta nel 1747 partendo da un’improvvisazione dedicata a Federico II di Prussia, la partitura non riporta i nomi degli strumenti, lasciando la massima libertà di interpretazione ed elaborazione». In alcuni casi il riferimento a Bach fu una vera e propria «cover» e questo fu il caso dei Procol Harum, con «A Whither shade of pale» del 1967. Il pezzo non era altro che una fedele copia dell’«Aria sulla quarta corda» riarrangiata alla fine del XIX secolo da August Whilelmj dall’originale Terza suite orchestrale in re maggiore del 1730. Il grandissimo successo del pezzo dei Procol Harum (in Italia riproposto con il titolo Senza luce e interpretato negli anni dai Dik Dik, Fausto Leali, Caterina Caselli e Al Bano) fece da ponte alla divulgazione della classica nelle classifiche pop-rock mondiali. L’anno precedente ad aprire le danze alla nuova contaminazione musicale era stato il quartetto più celebre del mondo, i Beatles. Lo avevano fatto quasi in sordina, grazie all’apporto fondamentale di un compositore di primissimo piano che era anche il produttore musicale dei Fab Four, George Martin. «Rubber Soul», il sesto lp dei Beatles, era uscito alla fine del 1965 ed aveva scalato le classifiche mondiali sin dai primi giorni del 1966. L’undicesima traccia del disco era il brano «In my life», una ballata malinconica sui ricordi del passato interrotta alla penultima strofa da un intermezzo nettamente staccato dalla struttura della canzone e suonato dallo stesso Martin al clavicembalo. Quello che ai profani potrebbe suonare come un minuetto è in realtà l’arrangiamento su un particolare giro musicale del Seicento. E’ Takahiro Yoshikawa a leggere per noi quel passaggio, riconoscendolo immediatamente come una interpretazione del «canone di Pachelbel», una composizione in stile barocco che si ritiene composta dal musicista di Norimberga Johann Pachelbel (1653-1706). Quello che sarà uno dei canoni classici più usati dal pop (gli stessi Beatles lo riproporranno in una delle loro ultime composizioni, «Let it Be») era di fatto una composizione per tre violini e basso continuo, dove quest’ultimo costituisce la base armonica allo sviluppo della melodia in una sequenza di accordi molto ricorrenti nella musica leggera contemporanea (Re/La/Si minore/Fa#minore/Sol/La e ritorno sulla tonica Re). Un giro che è entrato nell’orecchio e nel cuore degli Italiani, perché sul canone di Pachelbel si può cantare tranquillamente «Albachiara» di Vasco Rossi e tanti altri successi pop.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/quando-bach-suona-il-rock-2656829307.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="musica-classica-rock" data-post-id="2656829307" data-published-at="1646321152" data-use-pagination="False"> Musica Classica & Rock I Beatles e George Martin saranno il fulcro dell’abbraccio tra la musica sinfonica classica e il rock anche negli anni successivi, contribuendo in modo determinante alla diffusione globale di questa nuova contaminazione. Nel 1967 usciva infatti uno dei dischi più ascoltati al mondo, «Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band», un concept album pieno di rimandi e arrangiamenti orchestrali. Il primo indizio viene da una «ghost track» all’inizio del disco dove in sottofondo si può sentire la London Philarmonic Orchestra nella fase di accordatura degli archi. Dello stesso anno è un’altro successo mondiale dei Beatles, «Penny Lane», che avrebbe dovuto essere inclusa in «Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band» ma che fu poi pubblicata come singolo. Il brano di per sé appariva all’orecchio di George Martin come una canzonetta, ben fatta ma senza un tocco unico che la distinguesse dalle altre, come avvenuto per molte hit del quartetto. La soluzione venne ancora dal grande Bach con uno strumento, secondo Takahiro Yoshikawa, molto ricercato e che pochi suonano: il trombino (in inglese piccolo trumpet), uno strumento a fiato del tutto simile a una tromba, ma di dimensioni ridotte ed intonata un’ottava sopra, in si bemolle. Era un ottone impiegato nelle opere di Bach e più in generale nella musica barocca. Questo piccolo strumento fu la chiave di volta che George Martin utilizzò per rendere unico l’arrangiamento di una canzonetta, pensando al Secondo concerto brandeburghese che il maestro aveva appena ascoltato alla Bbc insieme a Paul McCartney. L’indomani Martin chiamò il trombettista David Mason, del Royal College of Music di Londra e organizzò una session con i Beatles in cui Mason inventò, ispirandosi all’opera di Bach, quell’assolo che renderà unica la canzone, ancora una volta firmata dal genio tedesco. La luna di miele tra il compositore barocco e il quartetto di Liverpool proseguirà anche negli album successivi. Nel doppio lp del 1968, «the White album», un pezzo per chitarra acustica composto da Paul McCartney ne è la prova. In questo brano di nuovo l’eco di Bach fa da guida a «Blackbird», con l’utilizzo del basso continuo in una reinterpretazione della famosissima «Bourrée in mi minore», che i Jethro Tull riprenderanno integralmente l’anno successivo con Ian Anderson al flauto traverso. L’ultimo disco dei Beatles in termini di data di registrazione (e l’ultimo in studio) fu uno dei più grandi capolavori della storia del pop-rock: «Abbey Road». Qui, nel brano malinconico «Because» attacca il clavicembalo di George Martin con un accompagnamento in terzine che è la rielaborazione di uno dei brani più conosciuti di Ludwig van Beethoven, la «Sonata al chiaro di luna».I Beatles si sciolsero nel 1970, quando il «progressive» era agli albori e molti altri autori avrebbero guardato alla musica classica, anche tra i grandi la cui carriera era iniziata nel decennio precedente, come il cantautore newyorchese Paul Simon. Nel 1973 uscì l’album «There goes Ryhmin’ Simon» dove era contenuto il brano «American Tune». Al primo ascolto il pezzo, che nel testo parla di deriva del sogno americano, potrebbe sembrare una ballata nella tradizione della East coast. In realtà il tema portante è ancora una volta opera del grande Bach. Anzi no. Takahiro Yoshikawa ci riporta ancora più indietro nel tempo, perché spiega che il grande compositore tedesco prese a sua volta ispirazione da un musicista suo conterraneo di un secolo precedente, Hans Leo Hassler, che compose la «Passione corale» attorno al 1600. La passione di Gesù, musicata dal testo latino scritto nel medioevo e tradotta in tedesco dal poeta luterano Paul Gerhardt, fu ripresa e riarrangiata integralmente da Bach nella «Passione di Matteo» (1727). Paul Simon dichiarò di avere esplicitamente attinto all’opera corale, ben riconoscibile all’inizio e alla fine della strofa. L’anno successivo all’uscita di «American Tune» un’altro album che farà storia verrà lanciato sul mercato mondiale. Era il 18 novembre 1974 quando i Genesis presentarono il loro primo concept album, «The lamb lies down on Broadway», la cui intro di pianoforte ricordava molto alcuni passaggi del «Concerto per pianoforte n.2» (1900) di Sergej Rachmaninoff mentre nel tour mondiale che precedette il lancio del disco il frontman Peter Gabriel fece distribuire al pubblico un opuscolo con le «note di sala» sull’esempio di Héctor Berlioz (Idée Fixe). Il libretto conteneva informazioni per seguire la storia contenuta nel brano della durata di 23 minuti, «Supper’s Ready». La presenza della musica classica come influenza diretta o come semplice (si fa per dire) citazione all’interno di brani originali proseguirà in diversi successi degli anni successivi all’era del rock «prog». Uno degli esempi più noti è certamente il repertorio dei Queen, intriso di passaggi musicali ispirati soprattutto all’opera classica. Al di là di evidenti echi noti a tutti come quelli che costituiscono la struttura musicale ed il cantato di uno dei più grandi capolavori della band, «Bohemian Rapsody», la lirica è protagonista in una citazione palese con la performance canora di Freddie Mercury. Le prime battute di «It’s a hard life» altro non sono che una reinterpretazione della melodia di «Vesti la giubba», aria famigerata de «I pagliacci» di Ruggero Leoncavallo. Anche Sting, in un successo scritto durante l’era della perestrojka di Gorbaciov, si produsse in una citazione «sotto traccia» in «Russians» (1985). Sotto il cantato è infatti presente una linea melodica fedelmente ripresa dal tema «Romanza» tratta dall’opera «Il luogotenente Kize», scritta per l’omonimo film sovietico da Sergej Prokofiev nel 1934. Anni più tardi sarà un’altra popstar britannica a riprendere Prokofiev in una delle sue hit più famose degli ultimi anni. In «Partying like a russian», Robbie Williams propone l’inserimento di uno stralcio della «Danza dei cavalieri» tratta dall’opera del 1935 «I Montecchi e i Capuleti». Frédéric Chopin sarà invece il protagonista della citazione di una delle più importanti band degli anni Novanta, i Radiohead, che nel loro album più famoso, «Ok computer» del 1997 si ispirano esplicitamente al «Preludio in Mi minore», dall’opera 28 - n.4 con un arrangiamento folk-grunge fatto dall’accompagnamento di chitarra acustica e la linea melodica cantata. Così come Chopin, anche Beethoven fa la sua comparsa in un brano di uno dei gruppi-rivelazione degli ultimi anni, i 21 Pilots. Il duo nato in Ohio nel 2009 «rappa» sulla «Sonata al chiaro di luna» che lega il parlato e il beat di batteria e percussioni in «Neon gravestones», mentre il «canone di Pachelbel» di cui abbiamo parlato più sopra ritorna in «Memories» dei Maroon Five. Il tempo a disposizione di Takahiro, reduce da una lunga tournée nel suo Giappone, sta per finire e quando ormai è agli sgoccioli ci tocca tornare di nuovo con la mente alle origini del rock, perché ci ricordiamo che Elvis Presley uscì con un grandissimo successo che era ripreso da un brano classico. Nel 1961 usciva «Can’t help falling in love» e quella hit che consumò i juke box e fece innamorare le coppie che la ballavano guancia a guancia era nata in verità nel 1785 dalla mente di Jean-Paul-Egide Martini. «Plaisir d’amour» fu una composizione che piacque particolarmente alla regina Maria Antonietta di Francia. Alla fine ci ricordiamo anche che un «lento», di quelli che chiudevano le serate nelle discoteche degli anni Settanta, ci fu regalato da Rachmaninoff. «All by myself» di Eric Carmen attingeva a piene mani e riprendeva il “Concerto per pianoforte n.2 in do minore». L’ultimo nostro pensiero è per Lady Gaga, che omaggia i classici senza interferire. Takahiro mi ricorda che nel video ufficiale di «Marry the night», per circa un quarto d’ora le crude scene del ricovero in psichiatria della protagonista (Lady Gaga stessa) sono accompagnate dalle note drammatiche ed incalzanti della sonata per pianoforte «Patetica» di Beethoven. Takahiro Yoshikawa, pianistaMilanese d’adozione, Takahiro Yoshikawa divide la sua attività di concertista tra l’Italia e il natio Giappone. A Tokyo si è diplomato e dottorato in pianoforte presso l’Università delle Arti di Tokyo, a Milano ha proseguito i suoi studi con insegnanti come Anita Porrini e Silvia Bianchera Bettinelli, frequentando l’Accademia Teatro alla Scala. È impegnato in una intensa attività concertistica e discografica in Italia e in Giappone come solista e in formazioni cameristiche. Numerose le sue esibizioni al Teatro alla Scala e in concerti con i Solisti della Scala. Suona in duo da più di 15 anni con il primo clarinettista solista del Teatro alla Scala Fabrizio Meloni con cui tiene anche varie Masterclass. Ha ricevuto numerosi premi internazionali. Per seguirlo il suo sito web ufficiale è www.takahiroyoshikawa.com
Angelo Borrelli (Imagoeconomica)
Poi aggiunge che quella documentazione venne trasmessa al Comitato tecnico scientifico. Il Cts validò. I numeri ballavano tra 120 e 140 ventilatori. La macchina partì. La miccia, però, viene accesa per via politica il 10 marzo 2020. Borrelli lo ricostruisce con precisione quasi notarile. «Arriva dalla segreteria del viceministro Pierpaolo Sileri un’email». Il mittente è la segreteria del viceministro. Il senso è chiaro. «Come richiesto dal ministro Speranza e noto al ministro Luigi Di Maio, ti ringrazio in anticipo anche da parte di Pierpaolo per le opportune valutazioni che vorrai effettuare al fine di garantire il più celere arrivo della strumentazione». Sono i ventilatori polmonari cinesi. La disponibilità viene rappresentata dopo un’interlocuzione politica. E a quel punto entra ufficialmente in scena la Silk Road. Il contatto, conferma Borrelli, non arriva per caso. «C’è un’email dell’11 marzo che […] facendo seguito a quanto detto dal dottor Domenico Arcuri, come d’accordo, ecco i contatti della Silk Road».
Ed è a questo punto che la deputata di Fratelli d’Italia Alice Buonguerrieri scatta: «Quindi è un contatto, quello della società Silk Road, che vi viene dalla struttura commissariale?». La risposta è secca. «Sì, viene dalla struttura commissariale di Domenico Arcuri». Arcuri, in quel momento, non è ancora formalmente commissario straordinario (lo diventerà il 18 marzo). Ma è già dentro il Dipartimento, si muove nel Comitato tecnico operativo, il Cto. «Perché il commissario Arcuri era già presente al dipartimento e iniziava ad affiancare…», cerca di spiegare Borrelli. Il passaggio politico-amministrativo non è casuale. Perché la Silk Road arriva sul tavolo della Protezione civile per quella via. La fornitura è pesante. «Ventilatori polmonari per un totale di 140», al costo di 2 milioni e 660.000 euro. «Ho qui la lettera di commessa», conferma Borrelli. La firma in calce non è italiana. «La lettera è firmata da un director, Wu Bixiu». E c’è un timbro cinese. La Verità quell’intermediazione all’epoca l’aveva ricostruita. La Silk Road Global Information limited che intermedia la fornitura è legata alla Silk Road cities alliance, un think tank del governo di Pechino a sostegno della Via della Seta. Ai vertici di quell’ente c’era anche Massimo D’Alema, insieme a ex funzionari del governo cinese. E infatti, conferma ora Borrelli, «c’è anche una email in cui si cita il presidente D’Alema». Però, quando gli viene chiesto apertamente se D’Alema abbia fatto da tramite, mette le mani avanti: «Io non so nulla di questo».
Di certo Baffino doveva aver rassicurato l’azienda cinese. Tant’è che la società aveva scritto: «Abbiamo appena ricevuto informazioni dall’onorevole D’Alema che il vostro governo acquisterà tutti i ventilatori nella lista. Quindi acquisteremo i 416 set per voi il prima possibile». «I nostri», spiega Borrelli, «gli hanno risposto «noi compriamo quelli che ci servono», cioè 140 e non 460». Ma c’è una parte di questa storia che non è ancora finita al vaglio della Commissione d’inchiesta guidata da Marco Lisei. Quei ventilatori polmonari, aveva scoperto La Verità, non erano in regola e la Regione Lazio li ritirò perché non conformi ai requisiti di sicurezza. «Dai lavori della commissione Covid sta emergendo una trama che collega la struttura commissariale di Arcuri, nominato da Giuseppe Conte, alla sinistra e, nello specifico, a D’Alema», afferma Buonguerrieri a fine audizione. Poi tira una riga: «Risulta che, ancor prima di essere nominato commissario straordinario, Arcuri sponsorizzava alla Protezione civile una società rappresentata da cinesi legata a D’Alema». «Le audizioni stanno portando alla luce passaggi che meritano un serio approfondimento istituzionale», tuona il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Galeazzo Bignami. Ma la storia non è finita.
«Il presidente del consiglio, per garbo, mi ha informato, perché sarebbe stato per me un colpo sapere dalla stampa che ci sarebbe stato poi un soggetto (Arcuri, ndr) che sarebbe entrato nel nell’organizzazione organizzazione della gestione dell’emergenza», ricorda ancora Borrelli. Che in un altro passaggio conferma che i pagamenti avvenivano anche per conto di Arcuri: «Io avevo il dottor Pietro Colicchio (dirigente della Protezione civile, ndr) e il suo direttore generale a casa col Covid e disponevano bonifici per i pagamenti per l’acquisto di Dpi. Dopo anche per conto del commissario Arcuri». Ma la Protezione civile con la nomina di Arcuri era ormai stata scippata delle deleghe sugli acquisti. A questo punto Borrelli fa l’equilibrista con un passaggio che ovviamente è stato apprezzato dai commissari del Pd: «L’avvento di Arcuri ha sgravato me e la mia struttura». Gli unici, però, che in quel momento avevano dato alla pandemia il peso che meritava erano proprio i vertici della Protezione civile. Già dal 2 febbraio, infatti, avevano segnalato al ministero l’assenza dei dispositivi di protezione. «Fu Giuseppe Ruocco (in quel momento segretario generale del ministero, ndr)», ricorda Borrelli, «a comunicare che ci sarebbe stata una riunione per predisporre una richiesta di eventuali necessità, partendo dallo stato attuale di assoluta tranquillità. Ruocco mi assicurò che se fosse emerso un quadro di esigenze lo avrebbe portato alla mia attenzione. Circostanza mai avvenuta». Il ministero si sarebbe svegliato solo 20 giorni dopo. «Il 22 febbraio nel Cto», spiega Borrelli, «per la prima volta venivano impartite indicazioni operative per l’utilizzo di Dpi». Solo il 24 febbraio, dopo alcune interlocuzioni con Confindustria, veniva «segnalato che non arrivavano notizie confortanti quanto alle disponibilità sul mercato». A quel punto bisognava correre ai ripari. La Protezione civile viene svuotata di competenza sugli acquisti e arriva Arcuri. Con le sue «deroghe». «Io», ricorda Borrelli, «non so se avesse delle deroghe ulteriori o meno, però, ecco, lui aveva le stesse deroghe che avevamo noi». Ma era lui a comprare.
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Ecco #DimmiLaVerità del 17 dicembre 2025. L'esperto di geopolitica Daniele Ruvinetti ci svela gli ultimissimi retroscena del negoziato di pace per l'Ucraina.
L’Indonesia è un gigante che sfiora i 300 milioni di abitanti ed è il più grande arcipelago del mondo. La sua capitale Jakarta è la città più popolosa del globo con quasi 42 milioni di abitanti e nel 2025 ha superato Dacca e Tokyo in questa classifica. Adagiata sulla costa dell’isola di Giava, questa città è diventata un conglomerato incontrollabile che sta lentamente affondando sotto il peso della sua popolazione. L’Indonesia ha il maggior numero di musulmani con quasi 250 milioni di fedeli e secondo alcune proiezioni come quelle della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale potrebbe diventare una delle quattro principali economie internazionali entro il 2050. Jakarta nel 2024 è entrata a far parte del gruppo economico dei Brics, guidato da Cina, Russia ed India, ma non ha mai smesso di attirare investimenti statunitensi e ad avere un rapporto diplomatico diretto con Washington.
In questo quadro economicamente positivo però sono scoppiate una serie di proteste che hanno fortemente contestato il governo del presidente Prabowo Subianto. Questo ex generale, conosciuto per la ferocia con cui ha sempre represso ogni tipo di dissenso, ha stravinto le elezioni utilizzando un avatar che lo ha trasformato in un nonno amorevole. Durante la campagna per le presidenziali, il suo staff ha utilizzato strumenti di intelligenza artificiale come Midjourney per creare un'immagine carina e amichevole ("gemoy", un termine gergale indonesiano per "carino" o "coccoloso") di Prabowo, rivolta in particolare agli elettori più giovani sui social come TikTok. Questa mossa ha avuto un enorme successo portando molti giovani alle urne e consegnando oltre il 60% delle preferenze al vecchio generale. Il nuovo presidente aveva promesso un miracolo economico puntando ad una crescita dell’8% annuale, che però si è fermata intorno al 5,2%. Intanto il costo della vita è sensibilmente cresciuto così come la disoccupazione, mentre la rupia indonesiana ha continuato a svalutarsi arrivando ad un cambio con il dollaro a 16600 ad 1.
Contemporaneamente i cittadini indonesiani hanno visto una progressiva perdita di potere d’acquisto che ha portato ad una stagnazione dei consumi delle famiglie. Ad ottobre l’inflazione è arrivata al 2,75%, massimo livello dalla primavera del 2024, e la gente è scesa in strada per chiedere le dimissioni di tutto il governo. Se internamente le cose stanno andando male per Prabowo Subianto, l’ex generale, ha puntato tutto sulla proiezione internazionale del suo paese, dichiarando più volte di volerlo far diventare una potenza geopolitica regionale. Il ruolo indonesiano nel sud-est asiatico è in crescita e negli anni si sono rafforzati i rapporti con le nazioni vicine, soprattutto con la Malesia. Più complessi i tentativi di avvicinamento con le Filippine, fortemente schierate nell’orbita statunitense, mentre con l’India le relazioni sono sempre state piuttosto altalenanti. L’Indonesia si trova anche spettatore nel latente scontro indo-pacifico fra Pechino e Washington, nel quale per ora Jakarta ha scelto una linea politica basata sull’equidistanza. Con la Cina l’Indonesia ha siglato un accordo per lo sfruttamento congiunto delle risorse nelle acque contese, per evitare una disputa diretta, anche perché Pechino è il suo primo partner economico e commerciale, con gli scambi nel 2025 sono stimati in 160 miliardi di dollari. Jakarta sta cercando di diversificare le sue relazioni commerciali per evitare un’eccessiva dipendenza dalla Cina, intensificando gli scambi anche con l’Unione Europea. L’interscambio con la Ue nel 2024 ha superato i 27 miliardi di euro con l’Europa che importa olio di palma, tessuti, calzature, minerali (nichel e rame), mentre esporta nella nazione asiatica latticini, carni, frutta, macchinari e farmaceutici. Gli Usa restano comunque un partner cruciale per l’Indonesia in ambito di difesa e sicurezza, con esercitazioni congiunte e acquisto di armi, delle quali Washington è il secondo fornitore. L’attivismo di Prabowo Subianto si è visto anche nella questione mediorientale, con il presidente, unico leader del sud-est asiatico, presente in Egitto alla firma della tregua a Gaza.
Odorico da Pordenone, un Marco Polo meno noto che raccontò l'Indonesia nel secolo XIV
Non solo Marco Polo ed il suo «Milione», il resoconto sull’Estremo Oriente forse più famoso al mondo. Altre importanti testimonianze scritte di viaggi «meravigliosi» attraverso l’Asia sono giunte a noi dal Medioevo. Grandi protagonisti delle esplorazioni e dello scambio interreligioso (con le missioni) ma anche di quello geopolitico, furono i francescani. Come afferma il Prof. Luciano Bertazzo, storico francescano e direttore del Centro Studi Antoniani di Padova, contattato dalla Verità. «A fianco di Marco Polo esiste tutta una letteratura non meno interessante in cui il mondo francescano non fu solo portatore di evangelizzazione, ma anche di una spinta all'internazionalizzazione». Già alla metà del Duecento, la presenza della Chiesa cattolica in Estremo Oriente intersecava l'Europa all'Asia. I resoconti dei frati alimentarono il "Meraviglioso" nei racconti di viaggio (detti anche odeporici) sulla scia della «Vita di Alessandro Magno», che inaugurò il connubio tra scientia e mirabilia».
Ai tempi delle crociate, i frati minori assunsero un ruolo «diplomatico» all’interno di un mondo in forte fermento. Erano gli anni della «cattività» del Papato ad Avignone, dell’espansione dell’Islam verso oriente e del potentissimo regno dei Mongoli discendenti di Gengis Khan. Nel mosaico delle forze dominanti i francescani, attivi nell’opera di evangelizzazione alla base dei loro viaggi, furono anche incaricati dal Papato e dai sovrani occidentali di riportare notizie sullo stato dei popoli dell’estremo Oriente per cercare di misurarne la potenza politica e militare unito ad un intento più diplomatico, con il proposito di esplorare una possibile alleanza in funzione anti islamica. I religiosi italiani erano già presenti in Asia fino dalla metà del XIII secolo, come testimoniano i resoconti del francescano Giovanni di Pian del Carpine, che alla metà del Duecento scrisse una «Historia Mongalorum» dopo essere giunto fino a Kharakorum, ricca di informazioni strategico-militari sulla potenza dell’impero mongolo che premeva verso Occidente. Anche Giovanni da Montecorvino, francescano campano, giunse fino in Cina alla corte di Kubilai Khan, morto appena prima dell’arrivo del frate italiano. Qui fondò la prima missione cattolica della Cina e la prima chiesa nel 1305 e fu nominato arcivescovo da Clemente V.
A pochi anni dal viaggio di Giovanni da Montecorvino si colloca la spedizione di Odorico da Pordenone, che toccherà anche l’Indonesia, allora praticamente sconosciuta al mondo occidentale. Nato sembra intorno al 1280, fu ordinato frate a Udine ancora giovanissimo, secondo le poche notizie giunte a noi. Il suo viaggio in Oriente, con destinazione Cina, si colloca attorno al 1318 e seguì un itinerario da Venezia a Trebisonda, quindi dalla penisola arabica via nave fino all’India, dove a Thana (attuale Mumbai) raccolse le spoglie dei francescani martirizzati dai musulmani nel 1321. La tappa successiva fu l’Indonesia, una terra praticamente inesplorata fino ad allora. Nella sua Relatio, Odorico dedica spazio alla descrizione di usi e costumi dell’arcipelago. Lamori è il primo abitato dell’Indonesia che il frate friulano descrisse, dipingendolo come una terra non proprio ospitale. Così Odorico dipinse quella che è ritenuta essere un antico regno situato nella parte settentrionale di Sumatra: «Cominciai a perdere la tramontana quando toccai quella terra. In questa regione il calore è enorme e sia gli uomini che le donne vanno in giro nudi, senza coprirsi nessuna parte del corpo. Essi mi deridevano, perché dicevano che Dio aveva creato Adamo nudo e io invece volevo essere vestito contro la volontà di Dio. In questo paese tutte le donne sono messe in comune fra tutti, cosicché nessuno può dire «questa è mia moglie», oppure «questo è mio marito». Quando poi una donna partorisce un figlio o una figlia, lo dà o la dà a chi vuole tra uno di quelli con i quali ha avuto rapporti intimi, e quel bimbo o bimba lo considera il proprio padre. Anche tutto il terreno è in comune fra tutti gli abitanti, cosicché nessuno può dire: «questa o quella parte di terra è mia». Le case invece sono ognuna per conto proprio. Questa gente è pestifera e malvagia: infatti mangiano carne umana, come qui da noi si mangia la carne bovina o quella delle pecore. Tuttavia di per sé questa è una terra buona, che ha grande abbondanza di carni, di biade e di riso, inoltre vi si trova oro in abbondanza[…]».
Un ritratto di una società primitiva e ostile, quella che Odorico raccontò nella sua prima tappa indonesiana. Tutt’altra impressione il frate ebbe della tappa successiva, Giava. Secondo le fonti storiche, nel periodo in cui l’isola fu visitata da Odorico l’isola viveva l’ultimo periodo prospero prima dell’arrivo dell’Islam dall’India, quello del regno Majapahit che, sotto il comandante militare e consigliere dei regnanti Gajah Mada, riuscì nell’espansione territoriale con la conquista di Bali. A Giava l’Islam non era ancora giunto quando Odorico fece visita al palazzo reale, e le religioni principali erano il buddhismo, l’induismo e l’animismo. La descrizione che il friulano fece dell’isola era a dir poco entusiastica: «Quest’isola è abitata molto bene ed è la seconda isola più bella che ci sia al mondo. In essa nasce la canfora e vi crescono cubebe (pepe di Giava), melaghette (nota come melegueta o grani del Paradiso, della famiglia dello zenzero con sentore di zenzero e cardamomo) e noci moscate e molte altre specie di erbe preziose. Vi è grande abbondanza di vettovaglie, a eccezione del vino. Il re di quest’isola possiede un palazzo davvero meraviglioso». E più avanti, nel capitolo dedicato all’arcipelago indonesiano, Odorico sottolineava la potenza militare di Giava, che seppe resistere alla potenza della Cina di Kubilai Khan. «Il Gran Khan del Catai fu molte volte in guerra contro questo regno di Giava, ma questo re riuscì sempre vincitore e lo superò».
Lasciata l’Indonesia, passando forse per il Borneo e probabilmente dalle Filippine, Odorico sbarcò finalmente in Cina dal porto di Canton. Poi via terra riuscì a raggiungere Khambaliq (Pechino), dove lasciò le spoglie dei confratelli martiri e risiedette per tre anni prima di intraprendere il viaggio di ritorno via terra in compagnia del francescano frate Giacomo d’Irlanda attraverso il Tibet, la Persia e di nuovo da Trebisonda fino a Venezia. Odorico tornò nel 1330, dopo 12 anni. A Padova scrisse la sua Relatio, di fronte a frate Guido, ministro provinciale, e allo scriba Guglielmo da Solagna. La destinazione del resoconto di Odorico era Avignone, dove si ipotizza che il frate avrebbe dovuto recarsi per relazionare le meraviglie d’Oriente e dei suoi popoli al Pontefice. Odorico da Pordenone non la raggiungerà mai. Morirà a Udine si presume il 14 gennaio 1331 stroncato da una grave forma di enfisema dovuto alle esalazioni di monossido di carbonio respirate nelle tende dei «Tatari». La fama di santità seguirà immediatamente dopo la morte. A Udine fu realizzata una splendida arca dove riposavano le spoglie. Il processo di canonizzazione iniziò solamente nel 1755 ma fu interrotto. Due volte ancora fu ripreso ed interrotto nel 1931 e nel 1956. Nuovamente istruito negli anni Duemila, l'iter è attualmente in corso.
Per un approfondimento sul viaggio di Odorico da Pordenone si consiglia la lettura di Racconto delle cose meravigliose d'Oriente (Edizioni Messaggero Padova), basato sull'opera critica di riferimento a cura di Annalia Marchisio Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum (Sismel-Edizioni del Galluzzo).
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(Totaleu)
Lo ha detto l’eurodeputato di Forza Italia a margine della sessione plenaria di Strasburgo.