
Olandesi e austriaci sollevano dubbi sulla finanziaria. Berlino e Parigi più diplomatiche: «L'interlocutore è la Commissione Ue». Bce in ansia: «Sfidare le regole ha un prezzo alto».Stallo sulla Brexit, con il periodo di transizione che sarà «probabilmente» esteso oltre la fine di dicembre 2020, per concedere più tempo a Londra e all'Unione europea per negoziare i termini del loro rapporto futuro. Nulla di fatto sull'immigrazione, con i capi di stato e di governo concentrati ciascuno sugli interessi della propria nazione. Il Consiglio europeo di ieri a Bruxelles si è chiuso con due nulla di fatto riguardo ad altrettanti temi di cruciale importanza per il futuro del continente. Gli esponenti delle opposizioni in Italia si auguravano che l'Europa si dedicasse a bacchettare il nostro governo per i contenuti della manovra finanziaria, ma sono rimasti delusi: i 28 leader si sono concentrati sui temi all'ordine del giorno. Anzi: qualche accenno alla situazione italiana c'è stato, ma di segno opposto a quello auspicato dagli avversari di Lega e M5s. Se alcune nazioni, come l'Austria e l'Olanda, hanno criticato la manovra, le due grandi potenze europee, Francia e Germania, hanno avuto parole di grande apertura nei confronti del premier Giuseppe Conte e della legge di bilancio, che il presidente del Consiglio ha illustrato per sommi capi durante gli incontri bilaterali. «La manovra italiana», ha detto il presidente francese, Emmanuel Macron, «non è un tema bilaterale e su questo argomento la Francia non dà lezioni dopo 10 anni passati in procedura per deficit eccessivo. Spetta alla Commissione Ue valutare e con questa ci deve essere un dialogo costruttivo». Berlino non si discosta molto: «Ho incontrato il premier Conte brevemente», ha commentato da parte sua la cancelliera tedesca Angela Merkel, «mi ha illustrato le riforme, soprattutto quelle contro la corruzione, sulla trasparenza digitale e sulla pubblica amministrazione, che sono un esempio molto buono che punta nella giusta direzione e ho detto che è incoraggiante. Sul bilancio», ha aggiunto la Merkel, «è con la Commissione Ue che l'Italia deve parlare. Certamente nel mio colloquio con il primo ministro italiano abbiamo parlato anche del bilancio, come hanno fatto anche altri, ma non posso che ripetere che l'interlocutore è la Commissione e gli ho chiesto di avere un dialogo sincero con esssa». E arriviamo a Jean-Claude Juncker: «Non abbiamo discusso il budget italiano», ha dichiarato il presidente della Commissione Ue, «oggi non era il luogo, ed il tempo, ma so che nel passato la Commissione è stata accusata di essere stata generosa col bilancio italiano. I Paesi al telefono si sono raccomandati di non aggiungere flessibilità alla flessibilità. Negli ultimi tre anni l'Italia ha speso 30 miliardi di euro. Siamo stati molto generosi», ha aggiunto Juncker, «gentili e positivi con l'Italia. Perché l'Italia è l'Italia».Tonico e determinato come di consueto, il premier Giuseppe Conte al termine del vertice ha commentato con toni sereni e concilianti l'andamento dei lavori: «È smentito che sia una deviazione senza precedenti, la più grande deviazione della storia, nel taglio del deficit strutturale. Dire che la situazione sta precipitando per la lettera della Commissione Ue», ha sottolineato Conte, «mi sembra una valutazione eccessiva. È normale che arrivi abbiamo la possibilità di replicare fino a lunedì. Insomma c'è tutto un processo che va avviato e parlare di precipitazione di questo processo è una valutazione pessimistica. Ho illustrato le linee della nostra manovra economica», ha aggiunto Conte, «ad alcuni dei nostri principali partner europei, tra cui Angela Merkel, Emmanuel Macron e Mark Rutte, nell'ambito di incontri bilaterali. Nel corso dell'eurosummit ho esposto la posizione italiana in materia di riforma dell'Unione economica e monetaria e ho richiamato le principali caratteristiche della nostra manovra economica, richiamando l'ambizioso piano di riforme strutturali e di investimenti che stiamo realizzando». Ai cronisti che chiedevano se seguisse con attenzione il valore dello spread, Conte ha risposto lapidario: «La risposta è senz'altro sì. Con molta attenzione. Con le agenzie di rating c'è un'interlocuzione a vari livelli, noi confidiamo di scongiurare una valutazione finale negativa». «Ho parlato con Jean-Claude Juncker al telefono nei giorni scorsi», ha rivelato Conte, «e ho avuto modo di incrociarlo a margine del Consiglio, anticipandogli che sono disponibilissimo a confrontarmi con lui. Forse», ha proseguito Conte, «c'è stata qualche dichiarazione di qualche esponente delle istituzioni europee nel segno della improntitudine, ma quando ho parlato con Juncker ho riscontrato che c'è piena consapevolezza che continuare a fare dichiarazioni fuori dalle sedi istituzionali opportune è assolutamente dannoso per le stesse istituzioni». Mario Draghi, presidente della Bce, esprime preoccupazione: «Mettere in discussione le regole nella Ue», ha detto ai leader europei, secondo quanto riferito da Bloomberg, «può portare a un peggioramento delle condizioni nel settore finanziario e quindi danneggiare la crescita. Le regole devono essere rispettate nell'interesse di tutte le parti, specialmente dei più deboli. Sfidare le regole europee non porta una maggiore prosperità», ha aggiunto Draghi, «ma comporterà un alto prezzo per tutti: può causare un inasprimento delle condizioni del settore finanziario danneggiando la crescita».
(IStock)
L’allarme: le norme verdi alzano i costi e favoriscono i gruppi che operano all’estero.
(Ansa)
Il colosso cinese offre un superbonus da 10.000 euro per i clienti che rottamano i vecchi modelli. La promozione sostiene il fatturato mentre calano gli utili e le immatricolazioni. Più forte la concorrenza dei marchi orientali che dominano il mercato.
Martha Argerich (Michela Lotti)
La leggendaria pianista argentina: «Suono troppo, ho molti dubbi e non so cosa fare del tempo che mi resta. Quest’arte però è grande come l’amore. Non può sconfiggere il male, ma ha il potere di toccare l’inconscio».
di Carlo Melato da Portoferraio, Isola d’Elba
La folta chioma color argento e le mani vigorose «forgiate per il pianoforte», come affermò Vincenzo Scaramuzza, tirannico maestro fissato con l’anatomia che la temprò quando era bambina. Il sorriso buono che ripara l’interlocutore dal fuoco che brucia dentro e il portamento da fata gentile che custodisce i terribili segreti del suono. Tutto secondo copione: Martha Argerich, a 84 anni, è l’inconfondibile leonessa di sempre. L’elemento spiazzante, a poco più di un’ora dal concerto più importante del Festival internazionale Elba isola musicale d’Europa - diretto dal vecchio amico George Edelman - è che la leggendaria pianista argentina, solitamente restia a farsi intervistare («Difficile parlare di musica, è la musica che parla», il suo primo comandamento), accetti l’invito proprio quando per lei sarebbe il momento di riposare. I suoi colleghi infatti corrono a nutrirsi dopo due ore di lavoro regalate alla curiosità del pubblico (spoiler: la serata si concluderà in un trionfo), nelle quali l’antidiva in purezza del concertismo mondiale è riuscita nel miracolo di dirigere attraverso le espressioni del suo viso.
La Argerich ci attende sullo sgabello. Con la mano destra regge una lattina di Coca-Cola che oscilla pericolosamente a pochi centimetri dalle corde e dai martelletti di uno Steinway gran coda, mentre la sinistra non riesce a smettere di cercare nuovi accordi, senza che questo distragga minimamente l’artista.
Le prove aperte sono un preludio di questo evento al Teatro dei Vigilanti di Portoferraio: prima il Quintetto per due violini, viola, violoncello e pianoforte op. 44 del suo «amico dell’anima», Robert Schumann, poi il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi op. 35 di Dmitri Shostakovich, a 50 anni dalla morte del compositore russo.
«Schumann lo amo ancora moltissimo, è una persona eccezionale».
Ne parla come se fosse vivo...
«Adoro anche il concerto di Shostakovich, soprattutto in questo periodo difficile per il mondo. Sappiamo che il suo autore pagò sulla propria pelle i guai che gli causò Stalin. Il rapporto di forza tra il dittatore e il musicista fu davvero singolare (Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk - che il teatro alla Scala farà rivivere nella Prima di Sant’Ambrogio - costò al ventisettenne Dmitri una condanna pubblica sulla Pravda, alla quale seguirono censure, emarginazioni e violente pressioni psicologiche, ndr). Ma dobbiamo sottolineare l’eccezionale formazione da camera di questa sera».
L’Elba festival orchestra strings.
«Non consideriamolo “un ensemble di giovani”, anche se chiaramente sono tutti meno vecchi di me» (ride).
Età a parte, si sente una maestra in questo contesto, una guida?
«No».
Dai loro volti però traspare l’emozione di fare musica con lei: non è un privilegio?
«Così dicono… Comunque loro suonano benissimo. E c’è la prima tromba dell’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, Alfonso Gonzales Barquin. Devo dire molto, molto bene...».
La sua espressione lascia intendere un «ma»…
«Beh, il pianoforte ha un suono duro, secco. L’accordatore però ha fatto i miracoli».
Durante le prove ha bisbigliato a lungo con i professori d’orchestra.
«Anche questo teatro è particolare…».
Porta la firma di Napoleone, ma è una piccola bomboniera da 250 posti. Sono le dimensioni a complicare l’acustica?
«L’ultima volta che ho partecipato al festival avevo un pianoforte Fazioli ed eravamo all’aperto. Ricordo un’arena meravigliosa e un caldo pazzesco. Oggi gli elementi sono tutti diversi… La verità è che sono io a sentirmi strana. Nei giorni scorsi ero così stanca che non sapevo nemmeno se sarei riuscita a raggiungere l’isola. Non sono in forma: oggi più o meno, in realtà non lo so…».
Rileggendo la sua biografia, L’enfant et les sortilèges di Olivier Bellamy, ci si accorge che il peso dell’agenda che trabocca di concerti, soprattutto dopo i precoci trionfi al Concorso Busoni e a quello di Ginevra all’età di 16 anni, non l’ha mai abbandonata. Moltissimi anni fa arrivò a procurarsi un taglio a un dito per trovare una tregua. In questa fase della sua vita il palcoscenico le è amico?
«Difficile rispondere. Vivo in uno strano stato: tante domande, sono perplessa riguardo a me stessa».
Cosa la preoccupa?
«Non sono contenta di suonare - e soprattutto viaggiare - così tanto. Non so perché lo faccio, ma da questo punto di vista sono sempre stata contraddittoria. Faccio cose che non ho voglia di fare e poi… mi piacciono. Strano no?».
Gli applausi e l’amore che il pubblico le dimostra sono un sollievo?
«Non sempre perché penso a ciò che verrà dopo. Vorrei avere più tempo libero e non essere soltanto una pianista. Mi piacerebbe scoprire altro…».
Cosa?
«Per capirlo servirebbe la libertà che mi manca. Sono vecchia ormai. Non so cosa fare del tempo che rimane».
Si dice che lei sia perfezionista con sé stessa, ma non con il prossimo. Il direttore d’orchestra Enrico Fagone mi ha confidato che rimane sempre colpito dalla generosità con la quale lei coinvolge musicisti dei quali ama abbracciare la fragilità. Condividere la musica con le persone care le dà gioia?
«All’amicizia tengo molto, è un aiuto reciproco. Per me è stato decisivo il rapporto con Claudio Abbado. Quando lo conobbi ero una bambina e lui un giovane pianista: il migliore in quella masterclass a Salisburgo con Friedrich Gulda. Eseguiva la parte solistica dei concerti mentre io vestivo i panni dell’orchestra all’altro pianoforte. Non poteva ancora immaginare che sarebbe diventato un grande direttore. Poi ricordo Maurizio Pollini. I nostri diversi stili ci colpirono a vicenda. Ci incontrammo al Concorso di Ginevra e ogni volta che ci penso mi viene da ridere…».
Perché?
«Uomini e donne gareggiavano separati (la Argerich vinse, il formidabile pianista italiano arrivò secondo nella categoria maschile, ndr). Claudio e Maurizio non ci sono più e mi mancano terribilmente».
Il festival dell’Elba ha visto anche sua figlia, Annie Dutoit Argerich, dare corpo e voce alla Ode a Napoleone di Lord Byron, trasfigurata musicalmente da Arnold Schönberg in una specie di dodecafonia dal volto umano. Byron, come Schönberg, sembra molto critico verso quel Bonaparte che su quest’isola lasciò il segno, se ne andò 210 anni fa per riconquistare il mondo, senza però sapere che nel suo destino c’era Waterloo.
«Una prova molto difficile, Annie è stata bravissima (bis in programma a Oxford il 22 gennaio 2026 per il compleanno dello scrittore romantico, ndr). La delusione di Byron è propria di chi ha tanto amato. Ne ho parlato a lungo con mia figlia e mi ha convinto» (ride).
«La tomba è stato il tuo unico dono per chi ti adorava», sentenzia il poeta a proposito dell’«uom fatale». Ricorda la disillusione di Beethoven o quella di Manzoni: «Fu vera gloria?». Anche lei, sul New York Times, si è chiesta: «Cosa siamo noi pianisti? Niente».
«È vero, anch’io mi domando a cosa serva la gloria. In un film di Pedro Almodóvar (Tutto su mia madre, ndr) una donna afferma: “Il successo non ha sapore, né odore”. È così. E, in qualunque campo, non è nemmeno stabile. Pensi a quanti presidenti vengono eletti e poi scaricati dal popolo».
Ma quindi a cosa serve la musica?
«È un miracolo, la meraviglia della vita. È come chiedersi a cosa serve l’amore. Nella mia esistenza ho conosciuto una persona a cui non piaceva la musica, di qualunque tipo e genere. Non mi è mai più capitato».
È un’arte che regge l’urto davanti al mondo in fiamme?
«È l’espressione di qualcosa che non conosciamo fino in fondo. Di sicuro ha un potere enorme. Fare musica insieme è fondamentale, parla all’inconscio. Basti pensare a cosa ha generato Daniel Barenboim con la sua West-Eastern Divan orchestra (formazione che riunisce musicisti proveniente da Israele, Palestina e non solo, ndr). È molto interessante. Purtroppo però non basta».
Da Est al Medio Oriente è il male a trionfare?
«Ho conosciuto la madre di un ostaggio israeliano, rapito a 22 anni. So che suonava il pianoforte, nel frattempo ne ha compiuti 24. Spero che sia ancora vivo. Sono sofferenze terribili…».
Qual è il vero compito degli artisti oggi? Schierarsi?
«In qualche modo è sempre stato così. Arturo Toscanini o Pablo Casals lo hanno fatto, altri no. I musicisti sono persone, non immagini. Rispondono alla loro coscienza».
C’è un luogo nel quale trova la pace?
«Nella musica di Ludwig van Beethoven. Sono alle prese con la Grande fuga».
Da bambina scrisse che il padre della musica era Johann Sebastian Bach. Il suo Dio Beethoven. Ha cambiato idea?
«No, ma oggi sono politeista» (ride).
Prima ha citato Gulda, che per lei ha rappresentato un vero e proprio maestro di libertà. Le ha trasmesso anche la passione per il jazz?
«Certo. Erroll Garner è meraviglioso, Art Tatum mi ricorda Rachmaninoff e poi adoro Chick Corea. Mi spiace che sia scomparso. Tra le nuove leve vado matta per la giapponese Hiromi».
Domenica ci sarà la finale del Busoni. Per la sua vita, la vittoria del 1957 fu la palla di neve che scatenò la valanga. Cosa augura ai partecipanti?
«Di vincere, non è detto che si debba essere travolti. A proposito, sono rimasta impressionata da una giovane pianista».
Il suo nome?
«Martina Meola, 12 anni, vive a Milano. Ero nella giuria del concorso “Jeune Chopin” e ci ha regalato una ballata del compositore polacco meravigliosa».
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Papa Leone XIV (Ansa)
Da domani, il pellegrinaggio Lgbt a Roma con messa («profetica», dice lui) di monsignor Savino. Prevost, però, non riceverà i fedeli omosex, anche se il loro ideologo, il gesuita Martin, giura: «Prevost è come Francesco». Mentre Zuppi lo tira per la stola sui migranti.