
L'ufficio affissioni del Comune di Roma ha rimosso i cartelloni della campagna contro l'utero in affitto. E sono in arrivo sanzioni pecuniarie per una cifra complessiva che può andare dai 20.000 ai 100.000 euro.Oscuramento e multa a quattro zeri. Ad una settimana dall'ordine del sindaco Virginia Raggi, l'ufficio affissioni e pubblicità del Comune di Roma ieri ha provveduto alla rimozione dei manifesti contro l'utero in affitto ideati da Pro Vita e Generazione famiglia, due tra le associazioni che animano il Family day.A colpi di raschietto viene quindi negata la libertà di pensiero rispetto ad una pratica che, ricordiamo, in Italia è perseguita penalmente con la reclusione da tre mesi a due anni. Ma l'imposizione del pensiero unico oggi mira soprattutto a colpire i portafogli delle voci non conformi per negare loro l'agibilità politica. Le due realtà pro family riferiscono infatti che la campagna contro la maternità surrogata sarà sanzionata per una cifra complessiva che può andare dai 20.000 ai 100.000 euro. Questo perché per ogni singolo cartellone la multa può variare dai 400 ai 2.000 euro e il tutto va moltiplicato per le oltre 50 affissioni apparse per le strade della capitale.Per giustificare l'azione censoria il Comune ha subito agitato «le prescrizioni previste al comma 2 dell'art. 12 bis del Regolamento in materia di Pubbliche affissioni di Roma Capitale, che vieta espressamente esposizioni pubblicitarie dal contenuto lesivo del rispetto di diritti e libertà individuali». Concetto ribadito il 18 ottobre tramite una memoria della Giunta capitolina, in cui si afferma che la campagna «appare certamente discriminatoria e lesiva dei diritti e delle libertà individuali» e si «invita il dipartimento competente di concerto con la polizia locale ad attivarsi tempestivamente ed efficacemente con ogni mezzo consentito dalle leggi e dai regolamenti vigenti per rimuovere i materiali comunicativi e sanzionare gli autori della campagna».Il giorno seguente, 19 ottobre, è arrivata anche la condanna da parte di un organismo nazionale, l'Istituto dell'autodisciplina pubblicitaria (Iap) che notificava l'ingiunzione di desistenza nei confronti del messaggio pubblicitario «Due uomini non fanno una madre. Stop utero in affitto», in quanto lo «sfruttamento dell'immagine di sofferenza del bambino contrasta con il rispetto dovuto alla dignità della persona».Sì, avete letto bene, secondo lo Iap, ad essere lesiva della dignità della persona non è una pratica che prevede la compravendita di gameti e nemmeno il fatto che si affitti il grembo di una donna e che il bambino un volta nato sia subito sottratto a sua madre per evitare ogni contatto emotivo tra i due. No, a essere lesivo è un manifesto che rappresenta senza fronzoli tutto questo mercimonio di esseri umani, ritraendo un bambino molto piccolo, con un codice a barre sul petto, che si agita disperato dentro un carrello, spinto da due ragazzi identificati come «genitore 1» e «genitore 2», e a fianco la scritta: «Due uomini non fanno una madre. Stop utero in affitto».Eppure sorprende la solerzia dell'intervento del Comune, visto che rispetto alle vere emergenze legate al degrado la macchina amministrativa capitolina ha abituato i romani a ben altre tempistiche. A tal proposito Toni Brandi e Jacopo Coghe, rispettivamente presidenti di Pro Vita e Generazione Famiglia, riferiscono che ad ordinare alla Raggi l'immediata rimozione dei manifesti è stato il presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Non si tratta di un esercizio di facile dietrologia ma di quanto hanno verificato le due associazioni ascoltando emittente radiofonica vicina alla comunità Lgbt.In una nota, le due realtà aderenti al Family day raccontano che «su Mucca Radio, il presidente del Circolo Mario Mieli ha dichiarato candidamente di aver fatto quello che sa fare meglio, ossia dare fastidio alla politica tartassandola e riuscendo a parlare con l'ufficio della sindaca, ottenendo dopo sole 24 ore di pressing il comunicato in cui lei si impegnava alla rimozione. Sono parole sue, postate su un video ripreso nei nostri profili Facebook».Gli aspetti grotteschi della vicenda sono riassunti nel commento ironico di Filippo Savarese, presidente della piattaforma di petizioni pro family CitizenGo: «Ecco come dobbiamo fare per i rifiuti, i trasporti, le strade, i giardini, il traffico, la metro, il decoro, la movida, le fogne, i topi, i cinghiali e i suk per turisti. Dobbiamo chiamare la Raggi e dirle che abbiamo tutti la tessera del Circolo Mario Mieli - così si mette paura e risolve tutto».Ad ogni modo, Coghe e Brandi si dicono pronti ad andare fino in fondo. «Più censuri la verità più la diffondi», stiamo preparando il ricorso al Tar perché le motivazioni del comune sono generiche e ideologiche. Questa censura colpisce il diritto dei bambini ad non essere messi sul mercato. «Nei prossimi giorni faremo partire la terza fase della compagna», spiegano ancora i due proponenti, «dopo i manifesti con due uomini e quelli con le due donne, saranno affissi quelli con una coppia etero, proprio per denunciare tutti i possibili sfruttatori della compravendita di esseri umani».
Galeazzo Bignami (Ansa)
Malan: «Abbiamo fatto la cosa istituzionalmente più corretta». Romeo (Lega) non infierisce: «Garofani poteva fare più attenzione». Forza Italia si defila: «Il consigliere? Posizioni personali, non commentiamo».
Come era prevedibile l’attenzione del dibattito politico è stata spostata dalle parole del consigliere del presidente della Repubblica Francesco Saverio Garofani a quelle del capogruppo di Fratelli d’Italia a Montecitorio Galeazzo Bignami. «L’onorevole Bignami e Fratelli d’Italia hanno tenuto sulla questione Garofani un comportamento istituzionalmente corretto e altamente rispettoso del presidente della Repubblica», ha sottolineato il capo dei senatori di Fdi, Lucio Malan. «Le polemiche della sinistra sono palesemente pretestuose e in mala fede. Ieri un importante quotidiano riportava le sorprendenti frasi del consigliere Garofani. Cosa avrebbe dovuto fare Fdi, e in generale la politica? Bignami si è limitato a fare la cosa istituzionalmente più corretta: chiedere al diretto interessato di smentire, proprio per non tirare in ballo il Quirinale e il presidente Mattarella in uno scontro istituzionale. La reazione scomposta del Pd e della sinistra sorgono dal fatto che avrebbero voluto che anche Fdi, come loro, sostenesse che la notizia riportata da La Verità fosse una semplice fake news.
Giorgia Meloni e Sergio Mattarella (Ansa)
Faccia a faccia di mezz’ora. Alla fine il presidente del Consiglio precisa: «Non c’è nessuno scontro». Ma all’interlocutore ha rinnovato il «rammarico» per quanto detto dal suo collaboratore. Del quale adesso auspicherebbe un passo indietro.
Poker a colazione. C’era un solo modo per scoprire chi avesse «sconfinato nel ridicolo» (come da sprezzante comunicato del Quirinale) e Giorgia Meloni è andata a vedere. Aveva buone carte. Di ritorno da Mestre, la premier ha chiesto un appuntamento al presidente della Repubblica ed è salita al Colle alle 12.45 per chiarire - e veder chiarite - le ombre del presunto scontro istituzionale dopo lo scoop della Verità sulle parole dal sen sfuggite al consigliere Francesco Saverio Garofani e mai smentite. Il colloquio con Sergio Mattarella è servito a sancire sostanzialmente due punti fermi: le frasi sconvenienti dell’ex parlamentare dem erano vere e confermate, non esistono frizioni fra Palazzo Chigi e capo dello Stato.
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Altro che «attacco ridicolo», come aveva scritto il Quirinale. Garofani ammette di aver pronunciato in un luogo pubblico il discorso anti premier. E ora prova a farlo passare come «chiacchiere tra amici».
Sceglie il Corriere della Sera per confermare tutto quanto scritto dalla Verità: Francesco Saverio Garofani, ex parlamentare Pd, consigliere del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, finito nella bufera per alcune considerazioni politiche smaccatamente di parte, tutte in chiave anti Meloni, pronunciate in un ristorante e riportate dalla Verità, non smentisce neanche una virgola di quanto da noi pubblicato.






