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2018-10-08
La Margherita dopo il Pd punta a prendere la Commissione Ue. Solo che il candidato è Gentiloni
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ANSA
C'è disperazione tra le fila del Pse, il Partito del socialismo europeo, in vista delle prossime elezioni del maggio 2019. In questi giorni, ma l'idea va avanti da mesi, è tornato in auge il nome dell'ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni come possibile candidato alla presidenza della Commissione. Dopo la stagione fallimentare di Jean Claude Juncker, attaccato ogni giorno dal vicepremier Matteo Salvini, potrebbe essere quindi l'ex esponente della Margherita il nome che il presidente del Pse Sergei Stanishev ha in mente per rilanciare i socialisti in Europa.
L'ipotesi è stata accolta con una certa freddezza da quel che rimane della sinistra in Italia, o meglio tra gli eredi di Pci e Ds. In primo luogo Gentiloni fu insieme con Matteo Richetti, da poco candidato alla segreteria del Pd, uno dei due astenuti alla votazione del 2014 per l'entrata dei dem nella famiglia socialista europea. Quella decisione, benedetta sotto la segreteria di Matteo Renzi e con il benestare di Massimo D'Alema, contò persino il voto contrario di un esponente doc della Margherita, ovvero Giuseppe Fioroni.
In pratica gli ex Dc di sinistra entrati con la benedizione di Walter Veltroni nel Pd nel 2008, oltre ad aver fagocitato lo Stato profondo italiano, tra Quirinale con Sergio Mattarella e alte cariche strategiche della burocrazia, ora si apprestato a conquistare anche gli ultimi scranni di Bruxelles, per di più in un parlamento che, stando ai sondaggi, potrebbe essere a trazione sovranista e anti Ue. La decisione di Stanishev arriva dopo che il commissario Ue agli affari economici, il francese Pierre Moscovici ha annunciato di non volersi più candidare. Del resto Gentiloni potrebbe intercettare anche i consensi del Ppe. Ma l'ex presidente del Consiglio prende tempo. E non lo fa a caso.
LaPresse
La situazione interna al Pd è in continua evoluzione. Al momento le candidature sono tre, Richetti, Nicola Zingaretti e Cesare Damiano. Ma dietro continua a muoversi nell'ombra Matteo Renzi, l'ex segretario che prepara un ritorno in grande stile, a cominciare dal 19 ottobre, giorno della Leopolda numero 9. L'ex presidente del Consiglio ha un altro punto di vista sulla prossima Europa, dove pensa a un agglomerato europeista che dovrebbe variare da Emmanuel Macron in Francia a Alexis Tsipras in Grecia. L'idea è stata lanciata da Massimo Cacciari e Massimo D'Alema, ma al momento è solo sulla carta, anche perché il leader francese appare sempre più debole in patria. Per questo motivo c'è chi sostiene che la mossa Gentiloni alla commissione Ue possa essere una carta per limitare le prossime decisioni Renzi. Si vedrà.
Di certo c'è che il progetto del Partito Democratico appare sempre più fallimentare. I sondaggi danno il Nazareno ancora al 17% (Nando Pagnoncelli sul Corriere del 6 ottobre), ma la vicenda Verona, dove il capogruppo dem Carla Padovani ha votato a favore di una mozione anti aborto proposta dalla Lega, testimoniano che la convivenza tra ex Dc e sinistra è sempre più difficile. Maurizio Martina, attuale segretario, ne ha preso le distanza. Andrea Orlando, ex ministro di Grazia e Giustizia, ha chiesto l'espulsione. Ma un vecchio comunista come Emanuele Macaluso, storico amico dell'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, proprio ieri commentava in questo modo la vicenda. «Devo dire che non mi stupisce il fatto che Carla Padovani, capogruppo del Pd in Consiglio, abbia votato la mozione. Questa signora viene dall'Udc e ha le sue convinzioni sul tema che, certamente, non cambia dopo aver aderito al Pd. Il quale Pd, tra l'altro, non dispone di un asse politico-culturale cui fare riferimento. Quindi, la Padovani può fare la presidente del gruppo consiliare. E può avere anche le sue idee e sostenere i finanziamenti alle associazioni di cui abbiamo parlato. Però, osservo che una visione un po' laica avrebbe suggerito alla Padovani di rispettare anche le idee degli altri consiglieri del Pd, cioè avrebbe dovuto chiedere finanziamenti anche alle associazioni che assistono chi abortisce e opporsi alla definizione di "Verona città della vita". Non lo ha fatto: vuol dire che ha una visione integralista e ha sbagliato chi l'ha eletta capogruppo».
Alessandro Da Rold
Macron e Verhofstadt nettono le mani sul Pse: promette male. Caos anche nel Ppe

LaPresse
Dopo il 26 maggio 2019, data delle prossime elezioni europee, l'emiciclo di Bruxelles e Strasburgo (incredibilmente, infatti, persiste l'assurdità della doppia sede del Parlamento europeo, con relativa duplicazione di costi) avrà un aspetto profondamente diverso dall'attuale. E non solo per la prevedibile affermazione dei partiti populisti e sovranisti, ma anche per gli effetti che i mutati rapporti di forza determineranno nella costituzione dei gruppi parlamentari.
Cominciamo con un po' di numeri: attualmente il Parlamento europeo è formato da 751 eletti, sulla base di un sistema cosiddetto «proporzionale regressivo», concepito cioè per consentire anche ai Paesi più piccoli di avere almeno 6 eurodeputati (la Germania, invece, che ha la rappresentanza più ampia, ne ha 96). Com'è noto, a seguito del referendum Brexit, verranno meno gli eurodeputati britannici. La proposta più ragionevole sarebbe stata quella di sopprimere puramente e semplicemente quei 73 seggi, ma l'attuale Europarlamento ha invece deciso di tagliarne solo alcuni. Il nuovo Parlamento avrà dunque 705 posti, con una leggera redistribuzione tra i 26 paesi rimasti (l'Italia ad esempio passerà da 73 a 76 seggi).
Attualmente, in quest'ultimo scorcio di legislatura europea, i gruppi parlamentari sono otto, più il gruppo misto (definito gruppo dei «non iscritti»): i popolari del Ppe, i socialisti del Pse (in realtà il nome è spaventosamente complesso: Alleanza progressista di socialisti e democratici), i conservatori e riformisti Ecr (il partito euroscettico e thatcheriano storicamente guidato dai Tories inglesi), i liberali ultraeuropeisti dell'Alde, i Verdi, un gruppo di sinistra estrema (con dentro gli spagnoli di Podemos e altre formazioni nordiche), il gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta (dove si trova oggi il M5s), e il gruppo Enf-Europa delle nazioni e della libertà (con Lega e lepenisti francesi).
Proviamo a fare qualche previsione e a delineare alcuni possibili scenari per i gruppi maggiori. Con una premessa: diversamente dagli auspici di alcuni osservatori, che speravano in una campagna elettorale con già tutte le appartenenze preventivamente definite, l'impressione è che i giochi veri si faranno soltanto dopo il voto. Soprattutto le forze in maggiore ascesa - Paese per Paese - puntano infatti a fare il pieno di eurodeputati in patria, per poi usare il loro potere contrattuale solo al momento della formazione dei gruppi. Con l'obiettivo principale di pesare nella determinazione della maggioranza parlamentare e nella conseguente scelta del nuovo Presidente della Commissione, e con un obiettivo laterale (da non sottovalutare) di pesare di più (in termini di numeri e risorse) nella costituzione dei gruppi per la legislatura 2019-2024.
L'incognita maggiore è a sinistra. Il Pse, già oggi meno numeroso del Ppe (con cui è tuttavia strettissimo alleato su posizioni di difesa dell'attuale assetto europeo di regole, parametri, e con una chiara egemonia franco-tedesca), perderà forza: e non solo per il venir meno dei Laburisti inglesi, ma anche per il prevedibile indebolimento dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi. È in questo cuneo che puntava a infilarsi Emmanuel Macron nei mesi scorsi, quando il suo astro sembrava brillare. L'obiettivo di Macron era (e sarebbe ancora) cogliere un successo personale e eleggere un forte gruzzolo di deputati del suo movimento En Marche, e farne il soggetto egemone di una nuova alleanza tra due attuali gruppi, il Pse e l'Alde (che di liberale classico ha molto poco: sotto la guida del belga Guy Verhofstadt è essenzialmente un gruppo ultraeuropeista, scatenato contro sovranisti e euroscettici). E questa nuova formazione Pse-Alde a guida macronista dovrebbe, nei desideri del Presidente francese, trattare alla pari con il Ppe ai fini di una rinnovata alleanza «eurolirica».
Anche il Ppe vive incertezze enormi. E non solo perché la Cdu della Merkel perderà terreno in Germania, così come Forza Italia nel nostro Paese. Ma soprattutto perché il recente voto dell'Europarlamento contro il Governo ungherese ha fatto esplodere il caso del partito di Viktor Orban, che del Ppe sarebbe tuttora formalmente membro. La realtà è che dentro l'attuale Ppe convivono un'ala dura sull'immigrazione (Orban e l'austriaco Kurz) ma anche una fazione allineata all'europeismo più spinto. In occasione del voto sull'Ungheria, il gruppo Ppe non ha saputo scegliere compattamente, si è spaccato, e il capogruppo, il tedesco Manfred Weber, che pure teneva a presentarsi come uomo di frontiera e di cerniera tra popolari e populisti, ha annunciato il suo voto anti-Orban.
Situazione in divenire anche per il gruppo Ecr, oggi guidato dai Conservatori inglesi (in uscita dall'Europarlamento). È un gruppo euroscettico, pro mercato e liberalconservatore, attualmente il terzo gruppo per numero, e conta una numerosa delegazione polacca (del partito attualmente al potere a Varsavia), oltre che delegazioni sovraniste scandinave. Ma in realtà, a ben vedere, saranno proprio le due forze al governo in Italia a essere al centro di molte partite, anche ai fini della formaizone dei nuovi gruppi. Da un lato, i 5stelle, che un anno fa avevano tentato l'ingresso nell'Alde, ma poi sono rimasti in un gruppo separato: al momento i grillini non hanno una destinazione certa per il futuro, né hanno individuato un perno programmatico per la loro campagna elettorale. Cosa che negli ambienti 5 stelle determina una certa ansia, rispetto alla Lega.
La quale Lega, invece, ha un posizionamento politico chiarissimo (netta contrarietà a questa Europa), è in predicato di ottenere un notevolissimo numero di eletti (c'è chi pronostica 20 eurodeputati), ha aderito al think-tank di Steve Bannon, The Movement (lo ha fatto in modo distinto anche Giorgia Meloni), e si riserva di compiere le scelte sul gruppo dopo il voto. Salvini, da mesi, parla di una «Lega delle Leghe», di un nuovo contenitore per populisti e sovranisti. Resta da capire - alla fine - quanti gruppi ci saranno a destra del Ppe nel nuovo emiciclo: se uno soltanto, o almeno due.
Da questi giochi, e ovviamente dai numeri, potrebbero uscir fuori due tipi di maggioranza: o una replica (sia pure più striminzita e ristretta) dell'attuale maggioranza Ppe-Pse (con guida macronista contorno ultraeuropeista di Alde), o un'alleanza di destra-centro con sovranisti, conservatori e una parte consistente di Ppe. Ma saranno solo gli elettori a decidere i «dosaggi».
Daniele Capezzone
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Il presidente del Pse, Sergei Stanishev, ha in mente per rilanciare il partito in Europa e immagina l'ex premier al posto di Jean Claude Juncker. In Italia gli eredi di Pci e Ds la prendono male. D'altronde gli eredi della Dc di sinistra sono entrati nel partito nel 2008 grazie a Walter Veltroni e da allora si sono presi tutto ciò che conta. Compreso il Colle.In vista delle elezioni di maggio partono gli inciuci all'Europarlamento. Emmanuel Macron spera di prendersi l'ala socialista e poter chiudere un accordo con il Ppe per evitare che l'attuale establishment cada sotto il voto populista. I 73 deputati inglesi saranno rimpiazzati da alotri Stati: guida agli equilibri di voto tra Belgio, Germania e Paesi dell'EstLo speciale contiene due articoliC'è disperazione tra le fila del Pse, il Partito del socialismo europeo, in vista delle prossime elezioni del maggio 2019. In questi giorni, ma l'idea va avanti da mesi, è tornato in auge il nome dell'ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni come possibile candidato alla presidenza della Commissione. Dopo la stagione fallimentare di Jean Claude Juncker, attaccato ogni giorno dal vicepremier Matteo Salvini, potrebbe essere quindi l'ex esponente della Margherita il nome che il presidente del Pse Sergei Stanishev ha in mente per rilanciare i socialisti in Europa.L'ipotesi è stata accolta con una certa freddezza da quel che rimane della sinistra in Italia, o meglio tra gli eredi di Pci e Ds. In primo luogo Gentiloni fu insieme con Matteo Richetti, da poco candidato alla segreteria del Pd, uno dei due astenuti alla votazione del 2014 per l'entrata dei dem nella famiglia socialista europea. Quella decisione, benedetta sotto la segreteria di Matteo Renzi e con il benestare di Massimo D'Alema, contò persino il voto contrario di un esponente doc della Margherita, ovvero Giuseppe Fioroni. In pratica gli ex Dc di sinistra entrati con la benedizione di Walter Veltroni nel Pd nel 2008, oltre ad aver fagocitato lo Stato profondo italiano, tra Quirinale con Sergio Mattarella e alte cariche strategiche della burocrazia, ora si apprestato a conquistare anche gli ultimi scranni di Bruxelles, per di più in un parlamento che, stando ai sondaggi, potrebbe essere a trazione sovranista e anti Ue. La decisione di Stanishev arriva dopo che il commissario Ue agli affari economici, il francese Pierre Moscovici ha annunciato di non volersi più candidare. Del resto Gentiloni potrebbe intercettare anche i consensi del Ppe. Ma l'ex presidente del Consiglio prende tempo. E non lo fa a caso. LaPresseLa situazione interna al Pd è in continua evoluzione. Al momento le candidature sono tre, Richetti, Nicola Zingaretti e Cesare Damiano. Ma dietro continua a muoversi nell'ombra Matteo Renzi, l'ex segretario che prepara un ritorno in grande stile, a cominciare dal 19 ottobre, giorno della Leopolda numero 9. L'ex presidente del Consiglio ha un altro punto di vista sulla prossima Europa, dove pensa a un agglomerato europeista che dovrebbe variare da Emmanuel Macron in Francia a Alexis Tsipras in Grecia. L'idea è stata lanciata da Massimo Cacciari e Massimo D'Alema, ma al momento è solo sulla carta, anche perché il leader francese appare sempre più debole in patria. Per questo motivo c'è chi sostiene che la mossa Gentiloni alla commissione Ue possa essere una carta per limitare le prossime decisioni Renzi. Si vedrà. Di certo c'è che il progetto del Partito Democratico appare sempre più fallimentare. I sondaggi danno il Nazareno ancora al 17% (Nando Pagnoncelli sul Corriere del 6 ottobre), ma la vicenda Verona, dove il capogruppo dem Carla Padovani ha votato a favore di una mozione anti aborto proposta dalla Lega, testimoniano che la convivenza tra ex Dc e sinistra è sempre più difficile. Maurizio Martina, attuale segretario, ne ha preso le distanza. Andrea Orlando, ex ministro di Grazia e Giustizia, ha chiesto l'espulsione. Ma un vecchio comunista come Emanuele Macaluso, storico amico dell'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, proprio ieri commentava in questo modo la vicenda. «Devo dire che non mi stupisce il fatto che Carla Padovani, capogruppo del Pd in Consiglio, abbia votato la mozione. Questa signora viene dall'Udc e ha le sue convinzioni sul tema che, certamente, non cambia dopo aver aderito al Pd. Il quale Pd, tra l'altro, non dispone di un asse politico-culturale cui fare riferimento. Quindi, la Padovani può fare la presidente del gruppo consiliare. E può avere anche le sue idee e sostenere i finanziamenti alle associazioni di cui abbiamo parlato. Però, osservo che una visione un po' laica avrebbe suggerito alla Padovani di rispettare anche le idee degli altri consiglieri del Pd, cioè avrebbe dovuto chiedere finanziamenti anche alle associazioni che assistono chi abortisce e opporsi alla definizione di "Verona città della vita". Non lo ha fatto: vuol dire che ha una visione integralista e ha sbagliato chi l'ha eletta capogruppo».Alessandro Da Rold<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/pse-2610456814.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="macron-e-verhofstadt-nettono-le-mani-sul-pse-promette-male-caos-anche-nel-ppe" data-post-id="2610456814" data-published-at="1766089108" data-use-pagination="False"> Macron e Verhofstadt nettono le mani sul Pse: promette male. Caos anche nel Ppe LaPresse Dopo il 26 maggio 2019, data delle prossime elezioni europee, l'emiciclo di Bruxelles e Strasburgo (incredibilmente, infatti, persiste l'assurdità della doppia sede del Parlamento europeo, con relativa duplicazione di costi) avrà un aspetto profondamente diverso dall'attuale. E non solo per la prevedibile affermazione dei partiti populisti e sovranisti, ma anche per gli effetti che i mutati rapporti di forza determineranno nella costituzione dei gruppi parlamentari.Cominciamo con un po' di numeri: attualmente il Parlamento europeo è formato da 751 eletti, sulla base di un sistema cosiddetto «proporzionale regressivo», concepito cioè per consentire anche ai Paesi più piccoli di avere almeno 6 eurodeputati (la Germania, invece, che ha la rappresentanza più ampia, ne ha 96). Com'è noto, a seguito del referendum Brexit, verranno meno gli eurodeputati britannici. La proposta più ragionevole sarebbe stata quella di sopprimere puramente e semplicemente quei 73 seggi, ma l'attuale Europarlamento ha invece deciso di tagliarne solo alcuni. Il nuovo Parlamento avrà dunque 705 posti, con una leggera redistribuzione tra i 26 paesi rimasti (l'Italia ad esempio passerà da 73 a 76 seggi).Attualmente, in quest'ultimo scorcio di legislatura europea, i gruppi parlamentari sono otto, più il gruppo misto (definito gruppo dei «non iscritti»): i popolari del Ppe, i socialisti del Pse (in realtà il nome è spaventosamente complesso: Alleanza progressista di socialisti e democratici), i conservatori e riformisti Ecr (il partito euroscettico e thatcheriano storicamente guidato dai Tories inglesi), i liberali ultraeuropeisti dell'Alde, i Verdi, un gruppo di sinistra estrema (con dentro gli spagnoli di Podemos e altre formazioni nordiche), il gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta (dove si trova oggi il M5s), e il gruppo Enf-Europa delle nazioni e della libertà (con Lega e lepenisti francesi).Proviamo a fare qualche previsione e a delineare alcuni possibili scenari per i gruppi maggiori. Con una premessa: diversamente dagli auspici di alcuni osservatori, che speravano in una campagna elettorale con già tutte le appartenenze preventivamente definite, l'impressione è che i giochi veri si faranno soltanto dopo il voto. Soprattutto le forze in maggiore ascesa - Paese per Paese - puntano infatti a fare il pieno di eurodeputati in patria, per poi usare il loro potere contrattuale solo al momento della formazione dei gruppi. Con l'obiettivo principale di pesare nella determinazione della maggioranza parlamentare e nella conseguente scelta del nuovo Presidente della Commissione, e con un obiettivo laterale (da non sottovalutare) di pesare di più (in termini di numeri e risorse) nella costituzione dei gruppi per la legislatura 2019-2024.L'incognita maggiore è a sinistra. Il Pse, già oggi meno numeroso del Ppe (con cui è tuttavia strettissimo alleato su posizioni di difesa dell'attuale assetto europeo di regole, parametri, e con una chiara egemonia franco-tedesca), perderà forza: e non solo per il venir meno dei Laburisti inglesi, ma anche per il prevedibile indebolimento dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi. È in questo cuneo che puntava a infilarsi Emmanuel Macron nei mesi scorsi, quando il suo astro sembrava brillare. L'obiettivo di Macron era (e sarebbe ancora) cogliere un successo personale e eleggere un forte gruzzolo di deputati del suo movimento En Marche, e farne il soggetto egemone di una nuova alleanza tra due attuali gruppi, il Pse e l'Alde (che di liberale classico ha molto poco: sotto la guida del belga Guy Verhofstadt è essenzialmente un gruppo ultraeuropeista, scatenato contro sovranisti e euroscettici). E questa nuova formazione Pse-Alde a guida macronista dovrebbe, nei desideri del Presidente francese, trattare alla pari con il Ppe ai fini di una rinnovata alleanza «eurolirica».Anche il Ppe vive incertezze enormi. E non solo perché la Cdu della Merkel perderà terreno in Germania, così come Forza Italia nel nostro Paese. Ma soprattutto perché il recente voto dell'Europarlamento contro il Governo ungherese ha fatto esplodere il caso del partito di Viktor Orban, che del Ppe sarebbe tuttora formalmente membro. La realtà è che dentro l'attuale Ppe convivono un'ala dura sull'immigrazione (Orban e l'austriaco Kurz) ma anche una fazione allineata all'europeismo più spinto. In occasione del voto sull'Ungheria, il gruppo Ppe non ha saputo scegliere compattamente, si è spaccato, e il capogruppo, il tedesco Manfred Weber, che pure teneva a presentarsi come uomo di frontiera e di cerniera tra popolari e populisti, ha annunciato il suo voto anti-Orban.Situazione in divenire anche per il gruppo Ecr, oggi guidato dai Conservatori inglesi (in uscita dall'Europarlamento). È un gruppo euroscettico, pro mercato e liberalconservatore, attualmente il terzo gruppo per numero, e conta una numerosa delegazione polacca (del partito attualmente al potere a Varsavia), oltre che delegazioni sovraniste scandinave. Ma in realtà, a ben vedere, saranno proprio le due forze al governo in Italia a essere al centro di molte partite, anche ai fini della formaizone dei nuovi gruppi. Da un lato, i 5stelle, che un anno fa avevano tentato l'ingresso nell'Alde, ma poi sono rimasti in un gruppo separato: al momento i grillini non hanno una destinazione certa per il futuro, né hanno individuato un perno programmatico per la loro campagna elettorale. Cosa che negli ambienti 5 stelle determina una certa ansia, rispetto alla Lega.La quale Lega, invece, ha un posizionamento politico chiarissimo (netta contrarietà a questa Europa), è in predicato di ottenere un notevolissimo numero di eletti (c'è chi pronostica 20 eurodeputati), ha aderito al think-tank di Steve Bannon, The Movement (lo ha fatto in modo distinto anche Giorgia Meloni), e si riserva di compiere le scelte sul gruppo dopo il voto. Salvini, da mesi, parla di una «Lega delle Leghe», di un nuovo contenitore per populisti e sovranisti. Resta da capire - alla fine - quanti gruppi ci saranno a destra del Ppe nel nuovo emiciclo: se uno soltanto, o almeno due.Da questi giochi, e ovviamente dai numeri, potrebbero uscir fuori due tipi di maggioranza: o una replica (sia pure più striminzita e ristretta) dell'attuale maggioranza Ppe-Pse (con guida macronista contorno ultraeuropeista di Alde), o un'alleanza di destra-centro con sovranisti, conservatori e una parte consistente di Ppe. Ma saranno solo gli elettori a decidere i «dosaggi».Daniele Capezzone
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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