2024-09-13
La crisi rischia di spianare la strada allo sbarco dei produttori cinesi
Parole sibilline del manager di Dongfeng. Il sindaco di Torino: «Sì agli stranieri».Quella che sembrava un’ipotesi tra le tante sta diventando una strada obbligata. L’ingresso dei cinesi appare sempre più come l’unica soluzione per salvare quel che resta dell’industria automotive in Italia, avvitata tra gli annunci di Stellantis di recupero del mercato e la realtà del crollo delle vendite e della cassa integrazione. Il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, anche ieri ha ripetuto che «l’obiettivo del milione di auto è raggiungibile» nonostante il rallentamento del settore e che continua il confronto con il gruppo guidato da Carlos Tavares. Mercoledì prossimo i vertici di Stellantis torneranno a sedersi al tavolo ministeriale per dare una risposta sul progetto della gigafactory di Termoli, (un impianto che sarebbe dovuto entrare in funzione a fine 2026, dopo un investimento di 2 miliardi di euro), ma non è dato capire con quali nuove carte in mano. Un piano B diventa quindi inevitabile. Ecco perché Urso continua a dire, come ieri a margine degli Stati generali della space economy, che il governo pensa a «una più vasta politica industriale sull’auto che consente anche di avere in Italia, come hanno gli altri Paesi, almeno un altro produttore che possa concorrere alla sostenibilità dell’intero sistema». Non nomina esplicitamente i cinesi, ma alcuni mesi fa la stessa Byd, per bocca dell’ad della divisione Europe, Michael Shu, è uscita allo scoperto rivelando all’agenzia Bloomberg di aver avuto contatti con il governo italiano. Voci insistenti di una trattativa addirittura in fase avanzata, si sono rincorse anche relativamente a un altro gruppo cinese, Dongfeng. E ieri, alla vigilia dell’inaugurazione del Salone dell’auto a Torino, proprio il general manager di Dongfeng, Ma Lei, ha lanciato messaggi sibillini come di chi è a un passo nel mettere radici in Italia. Ha elogiato la città di Torino, «cuore dell’industria automobilistica europea che vanta una profonda tradizione nella produzione di auto», dicendo di essere «emozionato nel sentire questa cultura così profonda intorno a me». Poi ha fatto sfoggio della potenza del suo gruppo. «In Europa le nostre vendite sono intorno alle 10.000 unità, una cifra molto importante. Ma la cosa più importante è che abbiamo avuto feedback positivi, i clienti hanno accettato il nostro prodotto. Arriveremo presto a 20-30.000 unità, soprattutto quando presenteremo altri prodotti e quando avremo una nuova capacità di assistenza e di ricambi, con un primo stabilimento a Venlo, nei Paesi Bassi. Questo per smentire l’impressione che alcuni hanno che i cinesi vendono le auto ma che poi non ci sono i ricambi». Più chiaro di così. I punti vendita in Europa dovrebbero arrivare a 114 entro quest’anno, poi a 160 nel 2025.Il giorno prima il sindaco del capoluogo piemontese, Stefano Lo Russo, aveva aperto, in modo quasi caloroso, all’ingresso dei cinesi nella sua città. «Un produttore di auto straniero a Torino? Sarei il sindaco più felice del mondo», aveva detto con entusiasmo poi precisando che dovrebbero arrivare con i loro soldi e non avere l’aiutino dei fondi pubblici. Comunque, che se ne parli più o meno apertamente, Pechino non è più un tabù. Di qui però a dire che questa sorta di «salvatori» del nostro automotive siano in grado di garantire un futuro tutto rosa e fiori, ce ne corre. Chi ha un po’ di memoria storica non può non ricordare la polemica sulle «fabbriche cacciavite» (che si limitano ad assemblare pezzi che importano) per la Nissan Sunderland. Era il 1986 e l’industria automobilistica inglese era in grande difficoltà e la necessità di preservare almeno parte dell’occupazione convinse i politici di allora ad accettare l’insistente corte dei costruttori giapponesi. L’esperimento allora andò bene e il settore uscì dalle sabbie mobili, ma il contesto era diverso e soprattutto i tempi erano altri. Il tema è ancora d’attualità. Tant’è che il settore della componentistica è in allarme. Da uno studio di Alixpartners per Ucimu e Anfia, emerge che il 40% degli addetti ai lavori della filiera della componentistica italiana considera l’avanzata cinese in Europa come una minaccia. Urso ha detto più volte che qualsiasi accordo con case straniere avrà come condizione l’utilizzo di componenti made in Italy. Ma fino a quando questo vincolo potrà essere rispettato è un grande punto interrogativo. L’automotive di Pechino ha dato prova di essere molto abile ad aggirare le norme e a conquistare i governi. Fabbriche cinesi sono presenti in Francia, Polonia, Inghilterra e Ungheria. Il sistema cinese è sostanzialmente «chiuso», con i produttori che non utilizzano fornitori stranieri. Per capire ciò che si rischia, basta vedere quello che è accaduto per il fotovoltaico. L’apertura ai prodotti cinesi ha messo in crisi l’industria europea. Il 95% dei pannelli solari, e della relativa componentistica utilizzati in Europa, proviene dalla Cina. Più chiaro di così.