
Fu l’ente senese, al tempo socio di controllo, a mettere in campo il prestito Fresh per acquisire Antonveneta. Con il benestare del Tesoro. L’allora dg Vittorio Grilli, poi ministro: «Dovevamo salvaguardare il sistema finanziario».Le sentenze non si giudicano, si rispettano. Questo vale anche il recente verdetto della seconda Corte d’appello di Milano che ha ribaltato il primo grado nel processo sul caso Mps assolvendo tutti gli imputati. Ciò non significa, però, dimenticare che l’acquisto di Antonveneta nel 2007 ha innescato la crisi del Monte, il cui risanamento costato già 20 miliardi ad azionisti e contribuenti non è ancora finito. Né cancellare il lato oscuro dei grovigli tra finanza e politica. In attesa di conoscere le motivazioni dei giudici che dovrebbero arrivare entro i primi di agosto, si può inoltre notare che tra gli imputati di questo processo mancava un protagonista di quella stagione di complesse operazioni che servirono a finanziare il blitz su Padova, o meglio a coprire le perdite: la Fondazione Mps, al tempo azionista di controllo di Rocca Salimbeni. A fine 2011 l’ente senese era già schiacciato da 1,1 miliardi di debiti accumulati per far fronte ai due aumenti di capitale della banca ed evitare di diluirsi sotto al 51% del Monte. Torniamo indietro a quegli anni. Nel 2008 la Fondazione partecipò mettendo 490 milioni nel prestito obbligazionario convertibile, il «Fresh 2008» da 960 milioni che con l’aumento di capitale da 5 miliardi era servito a trovare i 9 miliardi necessari per comprare Antonveneta. Secondo i pm, il prospetto informativo sull’aumento di capitale Mps dell’aprile 2008 non avrebbe però spiegato in maniera compiuta come la Fondazione sarebbe stata in grado di sottoscrivere il prestito. I vertici della banca non avrebbero specificato il ruolo dei contratti derivati di «total return swap» (Tror), lo scambio di contratti con Credit Suisse e Mediobanca attraverso i quali la Fondazione sottoscriveva solo «indirettamente» i Fresh. Queste omissioni avrebbero fatto credere al mercato che i Fresh «erano stati collocati sulla sola base delle qualità creditizie di Mps». Con il risultato che il finanziamento dell’acquisto di Antonveneta era poi avvenuto con più debito e meno capitale rispetto a quanto comunicato al mercato.Nei faldoni dell’inchiesta l’allora direttore amministrativo della Fondazione, Attilio Di Cunto, sentito a sommarie informazioni, riferiva che la banca era a conoscenza, almeno dal gennaio 2008 del fatto che la Fondazione avrebbe partecipato al programma di finanziamento anche attraverso la sottoscrizione indiretta del Fresh tramite la stipula dei derivati. Lo stesso Di Cunto riferiva di aver comunicato al Monte nell’aprile 2008 la stipula di detti contratti con Mediobanca, Credit Suisse e Banca Leonardo. Ricordava di aver chiesto ad alcuni manager della banca di intervenire presso i suddetti tre istituti per sensibilizzarli a votare favorevolmente alle modifiche contrattuali sottoposte all’assemblea dei sottoscrittori del Fresh. Anche in una relazione della Consob inviata alla Procura nel novembre 2012 si legge che «dall’analisi degli elementi finora trasmessi dalla Procura di Siena sembra emergere un coinvolgimento diretto, su indicazione della banca, della Fondazione Mps nel collocamento sul mercato dei Fresh 2008», pertanto l’informativa a disposizione del mercato «sembrerebbe carente e potenzialmente fuorviante». Le decine di mail e comunicazioni fra Fondazione e Mps, sembravano mostrare un atteggiamento dell’ente nell’operazione di finanziamento del blitz su Antonveneta simile a quello di una banca. A costo di indebitarsi patrimonialmente al di sopra dei limiti consentiti dalla legge. Sulla base del proprio statuto vigente all’epoca dei fatti, la Fondazione Mps poteva indebitarsi fino al 20% del patrimonio, cioè per un miliardo e, nel limite del 10% del patrimonio, addirittura con lo stesso Montepaschi. Regola che dunque era stata violata.Ma chi doveva vigilare sulle Fondazioni in quel periodo? Il Tesoro. Fra i faldoni dell’inchiesta della Procura senese spunta, infatti, l’interrogatorio all’ex direttore generale del ministero Vittorio Grilli sentito in Procura il 24 settembre 2012. Ai pm che gli chiedevano se si fosse occupato della «concentrazione del rischio», Grilli rispondeva: «Dal punto di vista del vigilante, quello delle analisi della concentrazione del rischio attiene a un’analisi in generale. Nello specifico di questo strumento del Fresh non penso di averlo fatto. Chiesi come cambiò l’esposizione nel suo complesso. Peraltro, come ministero non disponiamo di poteri pregnanti come Bankitalia: solo una moral suasion verso i vigilati. Ribadisco di non essermi soffermato - o che qualcuno mi abbia fatto presente - questo strumento del Fresh». Quanto al secondo aumento di capitale del giugno 2011 che aveva fatto indebitare ulteriormente l’ente senese, Grilli aggiungeva: «l’autorizzazione è stata data per l’importanza di finalizzare un aumento di capitale a salvaguardia dell’integrità della banca stessa e quindi dell’investimento stesso della Fondazione. Non essendo contra legem era poi nel giudizio della Fondazione considerare bene i rischi. Questo non pregiudica l’opportunità che la Fondazione, procedesse a una diluizione e a una maggiore diversificazione degli investimenti». In sostanza, l’autorizzazione alla partecipazione all’aumento di capitale rafforzava sia la banca sia l’investimento della Fondazione. Perché, concludeva Grilli, «la preoccupazione del Tesoro era anche quella di salvaguardare il sistema finanziario italiano». Lo stesso ministero oggi si ritrova al posto della Fondazione come socio di controllo di Mps, dopo averlo salvato aprendo il paracadute di Stato nel 2017, ed è impegnato a trovare (almeno) altri 2,5 miliardi per poter scendere dal Monte.
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.





