
Il principio alla base del tutto è rimasto immutato. Dieci comici, una sola stanza, un timer a seguire lo scorrere del tempo e una regola, un’unica, da rispettare: vietato ridere.Lol - Chi ride è fuori, terza edizione dello show che Amazon ha reso «virale», non ha cambiato la propria formula. Non ha cambiato nulla, se non quel che i capitoli passati hanno reso obbligatorio, il cast. Herbert Ballerina, Fabio Balsamo, Luca Bizzarri, Cristiano Caccamo, Paolo Cevoli, Marta Filippi, Nino Frassica, Paolo Kessisoglu, Brenda Lodigiani e Marina Massironi sono i comici scelti per la terza edizione dello show, un contenitore di origine giapponese cui apporre un’etichetta è cosa pressoché impossibile. Lol 3, cui la collocazione online ha permesso di restituire lustro e dignità alla risata nella sua declinazione televisiva, è costruito sugli elementi più vari. Ci sono concorrenti illustri, «vip» bisognerebbe dire. C’è uno scopo ben definito, un vincitore e un montepremi finale: centomila euro da devolvere ad un ente benifico. C’è la suddivisione in puntate brevi, l’appeal social, c’è la capacità (la stessa che sulla generalista si tradurebbe in un flop, e in un flop ben rumoroso) di mescolare nicchie e pubblici. Lol 3 potrebbe andare sotto la dicitura «reality» e pure sotto quella di «talent». Potrebbe essere un «evento», uno «show di improvvisazione», la versione celebrity di uno a caso dei contenitori di cui sopra. Potrebbe essere tutto e il suo contrario. Ma identificarlo, nell’era della fluidità, non sembra avere grande importanza. Non per Amazon.Quel che più conta, nel gioco di Lol, è il superamento dei confini, personali e televisivi. Mentre i comici si sfidano, nell’imbarazzo che l’improvvisazione e l’estraneità sanno creare, il pubblico twitta. Commenta. Trasforma in meme il trasformabile. Le gag diventano virtuali, le battute tormentoni. Lollascia Amazon e si fa social. E il gioco prosegue, diviso a metà. La terza stagione, condotta ancora una volta da Fedez e Frank Matano, debutterà su Prime Video il 9 marzo. Ma gli episodi finali, due, arriveranno più tardi, il 16 del mese. Allora, in gara saranno rimasti in pochi. Lol ha un meccanismo serrato: sei ore, due cartellini, una prima ammonizione per i sorrisi, l’espulsione come secondo richiamo. Nel mezzo, l’imperativo categorico di far ridere gli altri rimanendo (o cercando di) impassibile. Lo show Amazon, per il quale Maccio Capatonda - vincitore della seconda edizione - ha accettato di figurare come «disturbatore», è una sorta di evoluzione del gioco del silenzio. Solo, si parla. I comici, infatti, sono chiamati a provare qualunque cosa pur di costringere alla risata, con conseguente eliminazione, i colleghi. Possono travestirsi, tentare la via delle canzonette, cimentarsi in imitazioni e dar fondo al proprio reportorio. Possono perfino provare, come Pintus alla prima di Lol, ad usare le parole che tanto divertono i bambini: «cacca», «culo», quel dizionario semplice che l’edizione d’esordio ha reso irresistibile (almeno per i social). Vale tutto, nella grande sfida di Lol. E, se il «tutto», questo insieme esteso che ha sfatato uno dei cliché su comici e comicità, quello secondo cui nessun professionista della risata riderebbe mai delle battute altrui, è declinabile in chiave social, ancora meglio.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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