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2021-09-26
«Portai Greco al convegno dell’Eni. Fu la mia dimostrazione di forza»
Francesco Greco (Ansa)
A metà del febbraio scorso il corvo del Csm, che la Procura di Roma e lo stesso Consiglio hanno individuato in Marcella Contrafatto, l'ex segretaria di Piercamillo Davigo, ha inviato al consigliere Nino Di Matteo uno dei verbali d'interrogatorio del faccendiere Piero Amara sulla fantomatica loggia Ungheria. Un documento che, secondo il mittente, sarebbe stato «ben tenuto nascosto dal procuratore Greco (Francesco, ndr). Chissà perché». Nella lettera di accompagnamento il nome del capo degli inquirenti di Milano è sottolineato a penna e ha come postilla queste parole «(altri verb. c'è anche lui)». Insomma l'anonimo sembra insinuare che le indagini procedessero a rilento perché nelle carte ci sarebbe stato pure il nome di Greco. Un'accusa per cui la Contrafatto è stata iscritta sul registro degli indagati di Roma con l'accusa di calunnia. Ma in tutto questo bailamme nessun giornale (tra quelli con i verbali nei cassetti) si è preso la briga di verificare se il nome di Greco fosse stato davvero citato da Amara. E la risposta è sì. Il 16 dicembre 2019 il faccendiere, davanti al procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio e al pm Paolo Storari, ha appena concluso di verbalizzare le sue ultime dichiarazioni, quando chiede di riaprire la registrazione: «Voglio aggiungere che una delle più ̀forti dimostrazioni del mio potere l'ho data all'Eni (per cui il faccendiere lavorava come avvocato esterno, ndr) organizzando presso la sede del Csm un convegno organizzato dall'Opco con la collaborazione dell'Eni al quale furono invitati noti magistrati e noti dirigenti dell'Eni».
L'Opco (l'Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata) «è una associazione privata finanziata dalla Regione Sicilia» ha ricordato Amara. Il quale, intervistato da Panorama, ha puntualizzato: «Era il centro di potere di Gianni Tinebra (ex importante toga siciliana, ndr) di cui facevano parte molti magistrati, ma non tutti quelli che aderivano all'Opco automaticamente facevano parte del gruppo ristretto di Tinebra», ovvero di Ungheria. In base alla ricostruzione di Amara l'osservatorio sarebbe stato ideato, oltre che da Tinebra, anche dall'avvocato milanese Morris Lorenzo Ghezzi, un massone dichiarato che avrebbe scelto il nome «Ungheria».
Ghezzi e Tinebra sono scomparsi entrambi nel 2017 e non possono più replicare alle accuse del legale siciliano. Questi, il 16 dicembre 2019, a Milano, ha elencato i relatori del convegno, probabilmente facendo sobbalzare sulle sedie i due inquirenti che aveva di fronte: «Ricordo tra gli altri Francesco Greco, Vitaliano Esposito e Massimo Mantovani. Credo che non sia mai accaduto né prima né dopo che il Csm abbia aperto le porte ad una società privata. La scelta della location non fu casuale, ma era tesa (a dimostrare, ndr) sia la mia forza all'Eni che la forza dell'Eni all'esterno. L'organizzazione fu possibile grazie all'intervento di Tinebra. All'epoca vice presidente dell'Csm era Michele Vietti». Per Amara Tinebra e Vietti, insieme con l'avvocato messinese Enrico Caratozzolo e l'imprenditore Giancarlo Elia Valori, si sarebbero presentati come «promotori di Ungheria» e lo stesso Tinebra avrebbe introdotto Amara nella loggia. Ma torniamo all'Opco: come detto, il 25 gennaio 2011, sarebbe sbarcato al Csm. Ma, otto anni più tardi, il 16 dicembre 2019, i pm non hanno ritenuto di fare domande su una «delle più forti dimostrazioni del potere» di Amara. Magari per capire come fossero stati selezionati i relatori del convegno. A partire da Greco. Va detto che quest'ultimo, a dire del faccendiere, nel 2016 non venne sponsorizzato come procuratore di Milano da Amara & C., i quali avrebbero preferito un altro più «gestibile» al suo posto. Anche se alla fine «la candidatura di Greco era oggettivamente difficile da superare». Su Internet si trova ancora il programma provvisorio della conferenza nazionale dell'Opco tenuta al Csm sulla «Responsabilità penale d'impresa: lo scenario normativo, l'esperienza giurisprudenziale e la comparazione con il sistema statunitense». Nel programma Vietti ed Esposito, procuratore generale della Cassazione, fecero i saluti introduttivi.
Il moderatore era proprio Tinebra, presentato come presidente del comitato scientifico dell'Opco e procuratore generale della Corte d'appello di Catania. Tra i relatori pochi selezionati magistrati: l'allora aggiunto Greco (con un intervento sulla «responsabilità degli enti nell'esperienza processuale di Milano»), l'ex presidente di sezione della Cassazione Rocco Blaiotta e il gip di Firenze Michele Barillaro che sarebbe morto un anno dopo in un incidente stradale in Africa. Fece la sua relazione sulla «responsabilità di impresa vista dal lato delle aziende» anche Massimo Mantovani (l'ex capo degli affari legali Eni licenziato dalla compagnia petrolifera proprio per i rapporti con Amara). Ghezzi, giurista, ma anche sociologo e filosofo, oltre che gran maestro del Grande oriente d'Italia, trattò, invece, gli «aspetti sociologici e aspetti costituzionali». La prima relatrice indicata nella locandina era, però, l'attuale procuratore aggiunto di Roma Lucia Lotti, con una «lectio» sulla «responsabilità penale d'impresa e la criminalità organizzata». Su di lei, Amara ha messo a verbale: «Io la individuai come possibile candidata a entrare nell'associazione e ne parlai con Tinebra; dopo essere stato autorizzato ad avvicinarla - e avendo ricevuto il suo benestare - organizzai l'incontro tra lei e Tinebra a Siracusa. All'esito dell'incontro la Lotti fu affiliata». Amara sostiene anche di aver ottenuto per la signora i voti decisivi per la poltrona di capo degli inquirenti di Gela, dove l'Eni ha un importante stabilimento. «Con la nomina di Lucia Lotti la Procura di Gela è stata totalmente nella mia disponibilità. Con questa espressione intendo dire che avevo costanti interlocuzioni con lei, che avevo la possibilità di consultare il fascicolo del pm già nella fase delle indagini, che concordavo con lei la nomina dei consulenti e suggerivo i nomi dei periti che la Procura avrebbe dovuto indicare al Gip in sede di incidente probatorio».
Amara ha raccontato episodi specifici di questi suoi interventi e i pm gli hanno chiesto se si fosse anche impegnato per la nomina della donna alla carica di aggiunto di Roma. Risposta: «No, non mi interessava. Per questo incarico - so con certezza - che si è prodigato Antonello Montante», l'ex leader di Confindustria Sicilia condannato in primo grado a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e all'accesso abusivo al sistema informatico. Su queste accuse la Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, ha presentato istanza di archiviazione nei confronti della Lotti, iscritta sul registro degli indagati per corruzione. Il Gip ha fissato per il 20 ottobre una camera di consiglio, in cui richiedere delucidazioni oppure disporre nuove indagini o anche l'imputazione coatta.
Il Colle e la lettera fantasma al Csm
C'è una lettera anonima, tra quelle inviate dalla postina (o dalle postine) ai giornalisti del Fatto e di Repubblica, valutata dalla stampa come «scomoda», che al Csm non è mai arrivata e nella quale si faceva un sibillino riferimento al Quirinale. Si tratta di un documento recapitato il 9 novembre 2020 alla redazione del Fatto.
A consegnare la lettera scarlatta ai magistrati milanesi che avevano raccolto le propalazioni dell'avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria è stato Antonio Massari, cronista del giornale diretto da Marco Travaglio. E tra gli allegati c'erano proprio tre dei sei verbali dell'avvocato. Massari, come aveva già fatto dopo la ricezione del primo plico, consegna tutto il materiale che era stato impacchettato per Travaglio, al quale la postina si rivolge: «Caro Travaglio... Marco», scrive. E fa riferimento al primo invio: «Questa è la seconda serie di verbali che lei già dovrebbe conoscere. La prima parte gliel'ho mandata 15-20 giorni fa e ovviamente non ci sono tracce sul tuo giornale».
Chi scrive dimostra di essere al corrente che quel materiale è scottante: «Capisco che essendo verbali segreti e che mai vorranno farli uscire, ci siano delle difficoltà obiettive». Poi arriva al dunque: «Salvi (il procuratore generale della Corte di cassazione Giovanni Salvi, che è anche componente del Csm, ndr) è al corrente, ma non intende fare nulla». Al pg viene attribuita anche una frase virgolettata: «Ci sono anche brave persone là dentro (a suo avviso)». Ma, stando alla ricostruzione anonima, non era l'unico a conoscere il contenuto delle dichiarazioni di Amara: «È al corrente anche Erbani (Stefano Erbani, consigliere del Quirinale, ndr) &... Ma si guardano bene, ovviamente anche loro di fare cosa? Ma molti altri nell'ambito giudiziario sono al corrente... soprattutto di Area. Ma i giornali in genere vanno pazzi per queste cose, soprattutto se sono fondate. Non cadranno teste ma gli scandali non hanno mai fatto bene a nessuno».
La comunicazione si chiude così: «Allora io aspetto un altro mese, dopo di che mando ad altro giornale, volevo che lei avesse esclusiva (pericolosa, ma esclusiva. Non c'è bisogno di menzionare che provengono dalla Procura di Milano) voi giornalisti sapete sempre come fare». E si congeda con un «ho fiducia in lei».
Questo secondo scritto anonimo risulterà più difficile da attribuire, in quanto non contiene alcun carattere scritto a mano. Ma il riferimento al precedente invio, che invece presentava un'intera riga scritta di pugno e che dopo una perizia grafologica è stato attribuito a Marcella Contrafatto (la ex segretaria di Piercamillo Davigo, uomo al quale il pm della Procura di Milano che aveva raccolto quei verbali li aveva consegnati chiedendo tutela), sembra collegare i due documenti. Ma mentre la prima lettera è stata consegnata alla sezione disciplinare del Csm che ha giudicato Storari (assolvendolo), il secondo documento deve essere stato considerato troppo delicato.
E non è finito tra gli atti, pur essendo, secondo i detrattori di Storari e chi pensava che il pm avesse sbagliato, valutato come decisivo, perché il pm stava indagando la Contrafatto per accesso abusivo, tanto da metterla sotto intercettazione. L'atto, che avrebbe fatto il giro di diverse Procure (Milano, Perugia, Roma, Brescia e Procura generale della Cassazione), deve essersi incagliato da qualche parte. Resta da capire quale.
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Il verbale di Piero Amara sull'incontro organizzato nel 2011 a Palazzo dei Marescialli con il procuratore di Milano. L'osservatorio siciliano sulla criminalità, vicino a Tinebra, era il «vivaio» della presunta cellula massonica.La missiva accusava di complicità nella censura un alto collaboratore del Quirinale. A differenza degli altri testi spediti al Fatto, non è mai stata trasmessa al Consiglio.Lo speciale contiene due articoli.A metà del febbraio scorso il corvo del Csm, che la Procura di Roma e lo stesso Consiglio hanno individuato in Marcella Contrafatto, l'ex segretaria di Piercamillo Davigo, ha inviato al consigliere Nino Di Matteo uno dei verbali d'interrogatorio del faccendiere Piero Amara sulla fantomatica loggia Ungheria. Un documento che, secondo il mittente, sarebbe stato «ben tenuto nascosto dal procuratore Greco (Francesco, ndr). Chissà perché». Nella lettera di accompagnamento il nome del capo degli inquirenti di Milano è sottolineato a penna e ha come postilla queste parole «(altri verb. c'è anche lui)». Insomma l'anonimo sembra insinuare che le indagini procedessero a rilento perché nelle carte ci sarebbe stato pure il nome di Greco. Un'accusa per cui la Contrafatto è stata iscritta sul registro degli indagati di Roma con l'accusa di calunnia. Ma in tutto questo bailamme nessun giornale (tra quelli con i verbali nei cassetti) si è preso la briga di verificare se il nome di Greco fosse stato davvero citato da Amara. E la risposta è sì. Il 16 dicembre 2019 il faccendiere, davanti al procuratore aggiunto di Milano Laura Pedio e al pm Paolo Storari, ha appena concluso di verbalizzare le sue ultime dichiarazioni, quando chiede di riaprire la registrazione: «Voglio aggiungere che una delle più ̀forti dimostrazioni del mio potere l'ho data all'Eni (per cui il faccendiere lavorava come avvocato esterno, ndr) organizzando presso la sede del Csm un convegno organizzato dall'Opco con la collaborazione dell'Eni al quale furono invitati noti magistrati e noti dirigenti dell'Eni». L'Opco (l'Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata) «è una associazione privata finanziata dalla Regione Sicilia» ha ricordato Amara. Il quale, intervistato da Panorama, ha puntualizzato: «Era il centro di potere di Gianni Tinebra (ex importante toga siciliana, ndr) di cui facevano parte molti magistrati, ma non tutti quelli che aderivano all'Opco automaticamente facevano parte del gruppo ristretto di Tinebra», ovvero di Ungheria. In base alla ricostruzione di Amara l'osservatorio sarebbe stato ideato, oltre che da Tinebra, anche dall'avvocato milanese Morris Lorenzo Ghezzi, un massone dichiarato che avrebbe scelto il nome «Ungheria». Ghezzi e Tinebra sono scomparsi entrambi nel 2017 e non possono più replicare alle accuse del legale siciliano. Questi, il 16 dicembre 2019, a Milano, ha elencato i relatori del convegno, probabilmente facendo sobbalzare sulle sedie i due inquirenti che aveva di fronte: «Ricordo tra gli altri Francesco Greco, Vitaliano Esposito e Massimo Mantovani. Credo che non sia mai accaduto né prima né dopo che il Csm abbia aperto le porte ad una società privata. La scelta della location non fu casuale, ma era tesa (a dimostrare, ndr) sia la mia forza all'Eni che la forza dell'Eni all'esterno. L'organizzazione fu possibile grazie all'intervento di Tinebra. All'epoca vice presidente dell'Csm era Michele Vietti». Per Amara Tinebra e Vietti, insieme con l'avvocato messinese Enrico Caratozzolo e l'imprenditore Giancarlo Elia Valori, si sarebbero presentati come «promotori di Ungheria» e lo stesso Tinebra avrebbe introdotto Amara nella loggia. Ma torniamo all'Opco: come detto, il 25 gennaio 2011, sarebbe sbarcato al Csm. Ma, otto anni più tardi, il 16 dicembre 2019, i pm non hanno ritenuto di fare domande su una «delle più forti dimostrazioni del potere» di Amara. Magari per capire come fossero stati selezionati i relatori del convegno. A partire da Greco. Va detto che quest'ultimo, a dire del faccendiere, nel 2016 non venne sponsorizzato come procuratore di Milano da Amara & C., i quali avrebbero preferito un altro più «gestibile» al suo posto. Anche se alla fine «la candidatura di Greco era oggettivamente difficile da superare». Su Internet si trova ancora il programma provvisorio della conferenza nazionale dell'Opco tenuta al Csm sulla «Responsabilità penale d'impresa: lo scenario normativo, l'esperienza giurisprudenziale e la comparazione con il sistema statunitense». Nel programma Vietti ed Esposito, procuratore generale della Cassazione, fecero i saluti introduttivi. Il moderatore era proprio Tinebra, presentato come presidente del comitato scientifico dell'Opco e procuratore generale della Corte d'appello di Catania. Tra i relatori pochi selezionati magistrati: l'allora aggiunto Greco (con un intervento sulla «responsabilità degli enti nell'esperienza processuale di Milano»), l'ex presidente di sezione della Cassazione Rocco Blaiotta e il gip di Firenze Michele Barillaro che sarebbe morto un anno dopo in un incidente stradale in Africa. Fece la sua relazione sulla «responsabilità di impresa vista dal lato delle aziende» anche Massimo Mantovani (l'ex capo degli affari legali Eni licenziato dalla compagnia petrolifera proprio per i rapporti con Amara). Ghezzi, giurista, ma anche sociologo e filosofo, oltre che gran maestro del Grande oriente d'Italia, trattò, invece, gli «aspetti sociologici e aspetti costituzionali». La prima relatrice indicata nella locandina era, però, l'attuale procuratore aggiunto di Roma Lucia Lotti, con una «lectio» sulla «responsabilità penale d'impresa e la criminalità organizzata». Su di lei, Amara ha messo a verbale: «Io la individuai come possibile candidata a entrare nell'associazione e ne parlai con Tinebra; dopo essere stato autorizzato ad avvicinarla - e avendo ricevuto il suo benestare - organizzai l'incontro tra lei e Tinebra a Siracusa. All'esito dell'incontro la Lotti fu affiliata». Amara sostiene anche di aver ottenuto per la signora i voti decisivi per la poltrona di capo degli inquirenti di Gela, dove l'Eni ha un importante stabilimento. «Con la nomina di Lucia Lotti la Procura di Gela è stata totalmente nella mia disponibilità. Con questa espressione intendo dire che avevo costanti interlocuzioni con lei, che avevo la possibilità di consultare il fascicolo del pm già nella fase delle indagini, che concordavo con lei la nomina dei consulenti e suggerivo i nomi dei periti che la Procura avrebbe dovuto indicare al Gip in sede di incidente probatorio». Amara ha raccontato episodi specifici di questi suoi interventi e i pm gli hanno chiesto se si fosse anche impegnato per la nomina della donna alla carica di aggiunto di Roma. Risposta: «No, non mi interessava. Per questo incarico - so con certezza - che si è prodigato Antonello Montante», l'ex leader di Confindustria Sicilia condannato in primo grado a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e all'accesso abusivo al sistema informatico. Su queste accuse la Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, ha presentato istanza di archiviazione nei confronti della Lotti, iscritta sul registro degli indagati per corruzione. 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A consegnare la lettera scarlatta ai magistrati milanesi che avevano raccolto le propalazioni dell'avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria è stato Antonio Massari, cronista del giornale diretto da Marco Travaglio. E tra gli allegati c'erano proprio tre dei sei verbali dell'avvocato. Massari, come aveva già fatto dopo la ricezione del primo plico, consegna tutto il materiale che era stato impacchettato per Travaglio, al quale la postina si rivolge: «Caro Travaglio... Marco», scrive. E fa riferimento al primo invio: «Questa è la seconda serie di verbali che lei già dovrebbe conoscere. La prima parte gliel'ho mandata 15-20 giorni fa e ovviamente non ci sono tracce sul tuo giornale». Chi scrive dimostra di essere al corrente che quel materiale è scottante: «Capisco che essendo verbali segreti e che mai vorranno farli uscire, ci siano delle difficoltà obiettive». Poi arriva al dunque: «Salvi (il procuratore generale della Corte di cassazione Giovanni Salvi, che è anche componente del Csm, ndr) è al corrente, ma non intende fare nulla». Al pg viene attribuita anche una frase virgolettata: «Ci sono anche brave persone là dentro (a suo avviso)». Ma, stando alla ricostruzione anonima, non era l'unico a conoscere il contenuto delle dichiarazioni di Amara: «È al corrente anche Erbani (Stefano Erbani, consigliere del Quirinale, ndr) &... Ma si guardano bene, ovviamente anche loro di fare cosa? Ma molti altri nell'ambito giudiziario sono al corrente... soprattutto di Area. Ma i giornali in genere vanno pazzi per queste cose, soprattutto se sono fondate. Non cadranno teste ma gli scandali non hanno mai fatto bene a nessuno». La comunicazione si chiude così: «Allora io aspetto un altro mese, dopo di che mando ad altro giornale, volevo che lei avesse esclusiva (pericolosa, ma esclusiva. Non c'è bisogno di menzionare che provengono dalla Procura di Milano) voi giornalisti sapete sempre come fare». E si congeda con un «ho fiducia in lei». Questo secondo scritto anonimo risulterà più difficile da attribuire, in quanto non contiene alcun carattere scritto a mano. Ma il riferimento al precedente invio, che invece presentava un'intera riga scritta di pugno e che dopo una perizia grafologica è stato attribuito a Marcella Contrafatto (la ex segretaria di Piercamillo Davigo, uomo al quale il pm della Procura di Milano che aveva raccolto quei verbali li aveva consegnati chiedendo tutela), sembra collegare i due documenti. Ma mentre la prima lettera è stata consegnata alla sezione disciplinare del Csm che ha giudicato Storari (assolvendolo), il secondo documento deve essere stato considerato troppo delicato. E non è finito tra gli atti, pur essendo, secondo i detrattori di Storari e chi pensava che il pm avesse sbagliato, valutato come decisivo, perché il pm stava indagando la Contrafatto per accesso abusivo, tanto da metterla sotto intercettazione. L'atto, che avrebbe fatto il giro di diverse Procure (Milano, Perugia, Roma, Brescia e Procura generale della Cassazione), deve essersi incagliato da qualche parte. Resta da capire quale.
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A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
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Il punto è che l’argento ha trovato il modo perfetto per piacere a tutti. Agli investitori spaventati dal debito mondiale fuori controllo che potrebbe incenerire il valore delle monete, ai gestori che temono la stagflazione (il mostro fatto da inflazione e recessione), a chi guarda con sospetto al dollaro e all’indipendenza della Fed. Ma anche - ed è qui la vera svolta - all’economia reale che corre verso l’elettrificazione, la digitalizzazione e l’Intelligenza artificiale. Un metallo bipartisan, potremmo dire: piace ai falchi e alle colombe, ai trader e agli ingegneri.
Dietro il rally non c’è solo la solita corsa al riparo mentre i tassi Usa scendono fra le prudenze di Powell e le intemperanze di Trump. Il debito globale fa il giro del mondo senza mai fermarsi. C’è soprattutto una domanda industriale che cresce come l’appetito di un adolescente davanti a una pizza maxi. L’argento ha proprietà di conducibilità elettrica e termica che lo rendono insostituibile in una lunga serie di tecnologie chiave. E così, mentre il mondo si elettrifica, si digitalizza e si affida sempre più agli algoritmi, il metallo lucente diventa il filo conduttore - letteralmente - della nuova economia.
Prendiamo il fotovoltaico. Nel 2014 assorbiva appena l’11% della domanda industriale di argento. Dieci anni dopo siamo al 29%. Certo, i produttori di pannelli sono diventati più efficienti e riescono a usare meno metallo per modulo. Ma dall’altra parte della bilancia ci sono obiettivi sempre più ambiziosi: l’Unione europea punta ad almeno 700 gigawatt di capacità solare entro il 2030. Tradotto: anche con celle più parsimoniose, di argento ne servirà comunque a palate.
Poi ci sono le auto elettriche, che di sobrio hanno solo il rumore del motore. Ogni veicolo elettrico consuma tra il 67% e il 79% di argento in più rispetto a un’auto a combustione interna. Dai sistemi di gestione delle batterie all’elettronica di potenza, fino alle colonnine di ricarica, l’argento è ovunque. Oxford Economics stima che già entro il 2027 i veicoli a batteria supereranno le auto tradizionali come principale fonte di domanda di argento nel settore automotive. E nel 2031 rappresenteranno il 59% del mercato. Altro che rottamazione: qui è l’argento che prende il volante.
Capitolo data center e Intelligenza artificiale. Qui i numeri fanno girare la testa: la capacità energetica globale dell’IT è passata da meno di 1 gigawatt nel 2000 a quasi 50 gigawatt nel 2025. Un aumento del 5.252%. Ogni server, ogni chip, ogni infrastruttura che alimenta l’Intelligenza artificiale ha bisogno di metalli critici. E indovinate chi c’è sempre, silenzioso ma indispensabile? Esatto, l’argento. I governi lo hanno capito e trattano ormai i data center come infrastrutture strategiche, tra incentivi fiscali e corsie preferenziali. Il risultato è una domanda strutturale destinata a durare ben oltre l’ennesimo ciclo speculativo.
Intanto, sul fronte dell’offerta, la musica è tutt’altro che allegra. La produzione globale cresce a passo di lumaca, il riciclo aumenta ma non basta e il mercato è in deficit per il quinto anno consecutivo. Dal 2021 al 2025 il buco cumulato sfiora le 820 milioni di once (circa 26.000 tonnellate). Un dettaglio che aiuta a spiegare perché, nonostante qualche correzione, i prezzi restino ostinatamente alti e la liquidità sia spesso sotto pressione, con tassi di locazione da record e consegne massicce nei depositi del Chicago Mercantile Exchange, il più importante listino del settore.
Nel frattempo gli investitori votano con il portafoglio. Gli scambi sui derivati dell’argento sono saliti del 18% in pochi mesi. Il rapporto oro-argento è sceso, segnale che anche gli istituzionali iniziano a guardare al metallo bianco con occhi diversi. Non più solo assicurazione contro il caos, ma scommessa sulla trasformazione dell’economia globale.
Ecco perché l’argento oggi non si limita a brillare: racconta una storia. Quella di un mondo che cambia, che consuma più elettricità, più dati, più tecnologia. Un mondo che ha bisogno di metalli «di nuova generazione», come li definisce Oxford Economics. L’oro resta il re dei ben rifugio, ma l’argento si è preso il ruolo più ambizioso: essere il ponte tra la paura del presente e la scommessa sul futuro. E a giudicare dai prezzi, il mercato ha già deciso da che parte stare.
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