2022-07-11
Nicola Porro: «La nuova religione “green” ultimo atto del neomarxismo»
Nicola Porro (Imagoeconomica)
Il conduttore tv che si prepara alla «Ripartenza 2022» a Bari: «Lo Stato ha pervaso tutta la nostra vita. Non basta la resilienza, ricominciamo da chi lavora e produce».«Occhio: la nuova religione “green” è l’ultimo atto del nuovo marxismo contemporaneo. Lo Stato ha invaso le nostre vite, da ogni punto di vista. Dobbiamo ricominciare dalle imprese». Nicola Porro, giornalista e conduttore di Quarta Repubblica su Retequattro, è pronto a lanciare la sua «Ripartenza 2022», la due giorni di eventi che porta la sua firma, quest’anno alla seconda edizione. Un momento di confronto aperto a tutti, il 16 e 17 luglio al teatro Petruzzelli di Bari, con una grande platea di imprenditori e manager di spicco, tra i quali Remo Ruffini (Moncler), Mario Rossetti (Open Fiber), Stefano Sala (Publitalia), nonché i vertici di Enel, Ferrovie e tanti altri. Inflazione, caro energia, salari. Mai come stavolta servirebbe una «ripartenza» rapida. Da dove si parte? «Certamente non basta un decreto, e nemmeno certe belle parole d’ordine come “resilienza” e “sostenibilità”. Siamo abituati a confrontarci con la politica, i governi e le istituzioni, ma resto convinto che per uscire seriamente dalla crisi bisogna far parlare chi lotta sul campo. I veri protagonisti sono gli imprenditori che creano lavoro e si misurano ogni giorno con le sfide del mercato». Pensi che ultimamente non trovino il giusto spazio, tra guerre energetiche e inflazione alle stelle?«Il rischio è quello di assuefarsi alla presenza ingombrante dello Stato nelle nostre vite. In un mondo in cui cresce l’invadenza della mano pubblica, ognuno di noi ha una cartella esattoriale nel cassetto, un permesso da chiedere, una burocrazia da affrontare. Con mille miliardi di spesa pubblica, in Italia il più grosso intermediario dei nostri quattrini è il burocrate, e forse anche per questo le imprese sono spaventate: hanno bisogno dello Stato, ma ne sono anche vittima». Entro fine anno chiuderanno 100.000 imprese, più di 800.000 persone a spasso. E noi siamo qui a riflettere sui rapporti personali tra Mario Draghi e Giuseppe Conte. Che effetto ti fa?«Se il centro dell’economia diventa lo Stato, la politica e il governo, è normale che i media se ne occupino. Lo so che è degradante, avviene la stessa cosa nelle economie comuniste pianificate. Ma questo è il marxismo quattro-punto-zero: lo Stato si prende non solo i mezzi di produzione, ma anche regole, burocrazia, persino la nostra attenzione e il nostro tempo».Anche le baruffe di palazzo diventano cruciali, insomma. «Purtroppo sì. Rendiamoci conto che dalla lite tra Conte e Draghi dipende la morte o la sopravvivenza di 30.000 aziende. Quelle che hanno creduto nel superbonus e oggi stanno fallendo». Aziende che non hanno colpe, tra l’altro. E che oggi rischiano di essere spazzate via. «Esatto. Falliscono perché hanno truffato qualcuno? No. Falliscono perché i clienti non le pagano? No. Falliscono perché sono crollati i capannoni? No. In Italia le aziende falliscono perché lo Stato fa una promessa sui crediti fiscali e non la mantiene. E questo è inaccettabile, a prescindere dal giudizio che abbiamo sul superbonus. Insomma, tutto ciò non c’entra nulla con il mercato: è un suk statalista con attori di quarta fila che non hanno la più pallida idea di che cosa sia un’impresa». Questo ragionamento vale anche per la decisione europea di mettere al bando le auto diesel, benzina e gas nel 2035? Si preannuncia un terremoto per il comparto auto italiano. Sull’auto elettrica prenderemo la scossa? «Quella decisione è un crimine economico e sociale. Di più: una bestemmia contro le nostre libertà. Devo forse segnalare che il primo produttore di auto elettriche al mondo è un’azienda cinese?».Ci lasciamo invadere, insomma, non con i carri armati ma con le auto elettriche? «Se l’Europa pensa che le proprie scelte industriali dei prossimi 20 anni debbano dipendere dal signor Frans Timmermans (vicepresidente della Commissione europea, ndr), allora non siamo destinati a un lento declino, ma a una rapida estinzione». È grazie all’ecologismo fondamentalista che oggi l’Italia non è indipendente sul piano energetico, ed è costretta a correre ai ripari in fretta e furia per sopperire al gas russo? «La Bestia statale crea i problemi e poi impone soluzioni sbagliate per risolverli. Anche oggi stiamo costruendo la crisi che dovranno affrontare i governi di domani: buttiamo nel cassonetto miliardi di euro con bonus totalmente inutili, pur sapendo che Bruxelles ci presenterà il conto, chiedendo indietro fino all’ultimo centesimo». L’ex presidente dell’Inps Tito Boeri dice che il reddito di cittadinanza non si tocca, e serve subito il salario minimo. «È il solito conformismo della nostra classe dirigente, che non dirige nulla ma va a ruota di tutti. Per loro la massima espressione di partecipazione sociale consiste nel piantare la bandiera della pace sui municipi, salvo poi non avere un briciolo di dubbio sulle armi all’Ucraina. Intellettuali che si riempiono la bocca di diritti e femminismo, e poi esultano quando Draghi trasforma il “dittatore” Erdogan in “carissimo amico”». Boris Johnson ha fatto il percorso inverso, passando dalla qualifica di «eroe» a «clown» nel giro di qualche settimana. «Appunto. È possibile essere così volubili nelle proprie prese di posizione? La verità è che siamo di fronte a una classe dirigente e intellettuale di “followers”, abituata a mettere e togliere “like” a velocità fulminea, come fosse in un social network. Il problema è che lo fanno sulla nostra pelle». A proposito di giudizi sommari: Antonio Padellaro, sul Fatto Quotidiano, inserisce te e Mario Giordano nel girone dantesco dei «negazionisti del clima». Lusingato?«Padellaro è il volto buono del pensiero più orribile, manettaro, conformista e fondamentalista del giornalismo italiano. Se divento come lui, abbattetemi». Ma intorno all’ambiente sembra poter nascere un nuovo polo politico, con alcuni sindaci in prima fila, molto attivi sul piano nazionale. «Io sono ambientalista convinto. Ma quello che abbiamo di fronte è una degenerazione “climatista”, cioè l’utilizzo dei temi “green” per fini elettorali». In altre parole? «Per nascondere la loro mancanza di progetto, i politici si affidano ai grandi ideali: e quindi sono tutti “ambientalisti”, “accoglienti” e “progressisti”. Mai nessuno che spieghi come calare le dichiarazioni di principio nella realtà. E che ammetta che dietro queste belle parole c’è sempre un prezzo da pagare». Torna a suonare l’allarme contagi. Speranza annuncia una «campagna larga» sulla quarta dose. Ti aspetti nuove restrizioni in autunno?«Quando permetti al governo di controllare il libero arbitrio dei cittadini, è probabile che poi quel governo troverà una scusa per tornare a metterci le mani sopra. È come regalare un cellulare a un ragazzino di 13 anni, e poi pensare di toglierglielo subito dopo. È molto, molto difficile». Ci credi al cosiddetto «grande centro»?«Nient’altro che una sommatoria di tanti Mastella, senza le abilità di Mastella. Piccole operazioni personali per avere potere interdittivo nei confronti delle grandi coalizioni. Quando Silvio Berlusconi dice “il centro è Forza Italia”, spazza via ogni velleità altrui. Ha piazzato la zampata anche stavolta, dimostrando di essere uno dei pochi politici che non si lascia guidare dai social network». Matteo Salvini dovrebbe varare un «Papeete bis», uscendo dal governo? Che senso ha restare nella maggioranza facendo da spettatore? «Lo criticarono quando uscì dal governo Conte, lo criticano oggi che resta al governo con Draghi. Temo che una certa parte d’Italia non sopporti l’esistenza stessa di Salvini. Intendo proprio la sua esistenza fisica. Potrebbe anche rinchiudersi in un monastero: gli romperebbero comunque le scatole».Se nessuno vince le elezioni, si ricomincia da capo con l’unità nazionale? «Sarebbe per me un incubo, e per questo sogno un centrodestra che si siede intorno un tavolo e presenta un progetto unico, con una lista di ministri e un candidato premier. Lo scopo non può essere soltanto quello di evitare la vittoria gli avversari. Dovrebbero spiegare chiaramente agli italiani “come” vincere e “come” governare».
Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio europeo (Ansa)
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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