2022-07-12
Pochissimi in rianimazione per il Covid
Nel riquadro, Antonino Giarratano
Il presidente della Siaarti Antonino Giarratano: «Solo il 13,5% dei ricoverati in terapia intensiva ha il virus e solo il 5,1% di loro ha sintomi respiratori. Noi però siamo obbligati a testare tutti, anche chi ha avuto un incidente. Non ha più senso applicare i protocolli dell’emergenza».Solo il 13,5% dei ricoverati in terapia intensiva è positivo a Sars-Cov-2. È quanto emerge dall’analisi dell’Istituto superiore di sanità, sulla base dei dati forniti, il 5 luglio scorso, dal network di Siaarti, la Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva. La realtà delle rianimazioni in Italia è dunque ben diversa da quanto vogliono farci credere il ministro della Salute, Roberto Speranza, e tutte le virostar, che negli ultimi giorni sono tornate a lanciare allarmi, invocando nuove strette sanitarie in un trend epidemiologico che desterebbe preoccupazione. Antonino Giarratano, professore ordinario di anestesiologia presso la scuola di medicina e chirurgia dell’Università di Palermo, presidente della Siaarti, spiega alla Verità perché, con i numeri attuali, bisogna invece cambiare il modello organizzativo degli ospedali. La «qualità», dei pazienti Covid, infatti, è profondamente cambiata.Professore, partiamo dai dati che avete raccolto.«Si riferiscono a un campione di 167 reparti di terapia intensiva, sui circa 700 esistenti in Italia, e riguardano 1.381 pazienti. Come società scientifica abbiamo creato una Rete apposita, da Nord a Sud, perché manca un monitoraggio a livello nazionale. Utilizzando un termine siciliano, le informazioni viaggiano con “pizzini”. Pensi che solo il 46% delle terapie intensive sono informatizzate, di queste appena il 35% con meccanismi in automatismo. Per le altre, i dati vengono caricati manualmente, quando per formulare una diagnosi i tempi devono essere rapidissimi».Siete ancora al Medioevo.«Molti sistemi regionali sono in ritardo anni luce sulla digitalizzazione. Non dimentichiamo, poi, che prima che scoppiasse il Covid eravamo considerati una via di mezzo tra l’infermiere e il medico, nonostante gli undici anni tra studi e specializzazioni».Veniamo ai vostri dati del 5 luglio.«Sono indicativi dell’andamento attuale, della tipologia dei pazienti in terapia intensiva nei maggiori centri italiani. Dei 1.381 monitorati in 167 reparti, 187 ovvero il 13,5% sono positivi e di questi solo il 5,1% ha una patologia Covid delle prime tre ondate, cioè sintomi polmonari o riferibili a infezione sistemica grave».Questo significa che più dell’86% dei pazienti sono ricoverati in intensiva per altre patologie?«Infatti, si tratta di pazienti “comuni”. Cronici riacutizzati, chirurgici anche oncologici, cardiopatici, politraumatizzati e tutti quelli con sindromi acute che compromettono funzioni vitali. Il problema è che dobbiamo fare il tampone a tutti, anche a chi arriva da noi dopo un incidente stradale e con la contagiosità di Omicron 5 è chiaro che molti risultano positivi al test. Ma è come se si facesse un tampone per la faringite a chi ha una lussazione della spalla e sta benissimo, chiede solo di essere operato. Il contagiato non è un malato».Oggi farete nuove rilevazioni, la situazione può cambiare?«Non lo sappiamo. Di sicuro, questo è un Covid diverso, la maggioranza della popolazione è vaccinata, pochissimi finiscono in terapia intensiva. Sono 360 in tutta Italia, un numero irrisorio. Siamo lontanissimi dalle cifre stratosferiche di un anno fa. Certo, considerato che questa variante è trenta volte più contagiosa, persone più fragili possono correre il rischio di un ricovero ed è per loro che va mantenuto un percorso protetto».Che cosa suggerisce?«Servono modelli organizzativi diversi. Non si possono fare tamponi a tutti, altrimenti i Pronto soccorso non reggono e non possono più lavorare i reparti, le terapie intensive che cercano, ovviamente, di occuparsi anche dei pazienti non Covid per tornare alla normalità dell’assistenza. Non ha più senso l’emergenza sanitaria che rende obbligatorio il test all’ingresso in ospedale. Non servono percorsi separati uguali a quelli della prima, seconda, terza ondata, o la sanificazione che blocca le sale operatorie per ore. Senza considerare tutte le responsabilità medico legali che pesano sui camici bianchi, quando nessuno prima, per un’influenza, veniva denunciato per inosservanza di norme di sicurezza».Devono cambiare i protocolli?«Il ministro della Salute deve dare indicazioni precise, le Regioni devono mettere subito in atto procedure diverse dalle attuali. Percorsi separati e isolamento solo per i più fragili, tutti gli altri pazienti che risultano anche positivi al Covid vanno messi in stanze dedicate, però nel reparto che può trattare la patologia per la quale sono stati ricoverati. Le persone vanno curate trasversalmente, non in aree Covid».A gennaio disse attenzione ai pazienti asintomatici non critici, «che diventeranno la nuova emergenza sanitaria» perché, rilevati come positivi, dovranno comunque «essere operati, trapiantati, e assistiti nel postoperatorio intensivo». Il Sistema sanitario nazionale rischia il collasso?«La situazione attuale è sotto gli occhi di tutti. Non un collasso per numero di pazienti Covid, ma perché negli ospedali dobbiamo adeguarci a un protocollo che non ha più senso mantenere».