
In ballo pure i fondi per l’energia pulita, mentre si stringe la morsa su vetture e case.Dovrebbero arrivare oggi. Sono i falchi dell’Unione europea, tecnici della Commissione inviati a Roma per discutere con le autorità italiane le richieste di pagamento, nonché sulla via da seguire per la revisione del Pnrr e del capitolo RePowerEu. Lo ha annunciato la portavoce di Bruxelles per gli Affari economici, Veerle Nuyts: «La Commissione europea intrattiene costanti scambi costruttivi con tutti gli Stati membri, compresa l’Italia, sull’attuazione dei loro piani. Dall’inizio dell’attuazione del Recovery, questo processo prevede riunioni periodiche con tutti gli Stati membri interessati, che si svolgono sia fisicamente che virtualmente, per discutere i progressi», ha spiegato la funzionaria su Twitter. «Per quanto riguarda l’Italia, dall’inizio dell’attuazione del piano si sono svolte diverse missioni dello staff. La prossima missione programmata dello staff della Commissione a Roma sul piano di ripresa italiano si svolgerà nella settimana del 12 giugno. Come di consueto, le discussioni con le autorità italiane si concentreranno sulle richieste di pagamento, nonché' sulla via da seguire per la revisione del piano e del capitolo RePowerEu». «La finestra che abbiamo di fronte della revisione del Pnrr», la cui scadenza è il 31 agosto, «è l’ultima occasione per mettere ordine». Il ministro del Pnrr e le politiche Ue e il Sud, Raffaele Fitto, ha spiegato che «occorre essere prudenti» perché «l’Italia per la scelta dei precedenti governi ha utilizzato al 100% la quota a debito». «Il nostro Pnrr è composto da 68 miliardi a fondo perduto» e oltre 150 miliardi a debito fra risorse europee e nazionali. «Non c’è un tema solo di capacità di spesa ma anche sulla qualità della spesa» ha aggiunto. Fitto infine critica il giudizio generico sui ritardi: «Mi piacerebbe che si aprisse un dibattito sui singoli temi e sui fatti, sarebbe utile per il nostro Paese». Non solo Pnrr, la pressione dell’Europa si fa sempre più ostinata. Tanti i nodi di Bruxelles a cominciare dal tema Mes. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha chiarito: «Il Mes è un tema che sarebbe stupido aprire adesso, per due ragioni: la prima è che non ho cambiato idea sul Mes, ma è una parte di una serie di strumenti che vanno discussi nel loro complesso. Non ha senso ratificare la sua riforma se non sai cose prevede il nuovo patto di stabilità e crescita». Ma per tutto l’inverno a far tremare i Paesi membri sono state le imposizioni assurde imposte dall’agenda green di Bruxelles. Prima di tutto le case. Tutti i nuovi edifici costruiti dal 2028 dovranno essere a emissioni zero, e già dal 2026 lo dovranno essere i nuovi edifici utilizzati o gestiti dal pubblico e quelli di proprietà di enti pubblici. Sempre dal 2028 i nuovi edifici dovranno essere dotati di tecnologie solari ma solo se tecnicamente funzionale ed economicamente fattibile. Entro il 2032 i nuovi requisiti di emissioni dovrebbero essere rispettati anche dagli edifici residenziali già esistenti solo nel caso in cui siano sottoposti ad importanti ristrutturazioni. Questo il testo approvato dal Parlamento Europeo lo scorso marzo. Imposizione che rischiano di mettere in ginocchio milioni di persone, soprattutto in Italia. E dalle case si passa all’auto, perché oltre alla direttiva sulle vetture elettriche, adesso a dar pensiero c’è anche quella dell’Euro 7. la stretta sulle emissioni inquinanti delle auto non piace quasi a nessuno tanto che la presidenza svedese di turno ha chiesto di rinviarla e indebolirla. Come già scritto dalla Verità, il fronte dei Paesi che storcono il naso verso questa nuova invasione di campo dell’Ue si sta allargando e a oggi ricomprende Italia, Francia, come detto, ma anche Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia. Per questa direttiva, insomma, ci sarebbe margini per delle modifiche, ma con Bruxelles il braccio di ferro è ormai una certezza su ogni dossier.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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