
La Procura del capoluogo toscano vuole mandare a giudizio 24 indagati per il caso dello smaltimento illecito di rifiuti tossici. Tra loro l’ex capo di gabinetto del presidente Eugenio Giani, un consigliere regionale e un sindaco dem.Anche se le istituzioni le hanno tentate tutte per negare, minimizzare e nascondere i pericoli prodotti dal pericolosissimo mix di Keu, un residuo di produzione che deriva dal trattamento dei fanghi delle concerie, e di materiale inerte che è stato usato anche in interventi di ripristino ambientale, seppellito qua e là da alcuni imprenditori calabresi di una società in odore di ’ndrangheta grazie al groviglio di relazioni che erano riusciti a creare, portando i loro tentacoli fino a lambire alcune uffici strategici della Regione Toscana, la Procura antimafia di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per 24 indagati e per sei società. Il giudice del Tribunale di Firenze Gianluca Mancuso ha notificato la convocazione per l’udienza preliminare che si terrà dal 12 aprile. Tra gli imputati, oltre a Francesco e Manuel Lerose e ad Annamaria Faragò, amministratori della società che gestiva l’impianto di riciclaggio degli inerti, ci sono anche i vertici delle associazioni di conciatori di Santa Croce sull’Arno (Pisa) e del consorzio Aquarno, imprese del distretto orafo aretino e imprenditori, alcuni dei quali, secondo l’accusa, collegati alla famiglia Gallace di Guardavalle (Catanzaro). La Procura ha chiesto il rinvio a giudizio anche per il sindaco dem di Santa Croce sull’Arno, Giulia Deidda, il consigliere regionale Andrea Pieroni (Pd), il funzionario regionale dell’ambiente Edo Bernini e l’ex potentissimo uomo della Presidenza della Regione Toscana Ledo Gori, già capo di gabinetto di Eugenio Giani ed ex braccio destro di Enrico Rossi che, si è scoperto, era stato sponsorizzato dal cartello di conciatori. Il nome di Gori compare già nel primo capo d’imputazione, tra quelli di Lerose e Faragò. Secondo l’accusa sia lui sia Bernini avrebbero «fornito un contributo decisivo alla vita dell’associazione a delinquere, al fine di commettere reati ambientali e contro la pubblica amministrazione». Al centro, come raccontato negli scorsi anni dalla Verità, c’è l’ipotizzato traffico di rifiuti prodotti dal ciclo di trattamento degli scarichi delle imprese conciarie che hanno trasformato alcune aree della Toscana nella Terra dei fuochi. Ma tra i reati contestati a vario titolo agli indagati ci sono anche la corruzione elettorale e la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio. Per la corruzione elettorale è finito nei guai proprio il dem Pieroni che, secondo la Procura antimafia, si sarebbe reso disponibile nella campagna per le elezioni regionali del 2020 a presentare un emendamento sui rifiuti Keu in cambio dei voti del distretto conciario. Lo scopo era quello di ottenere norme che esonerassero il Consorzio Aquarno dall’Aia, l’autorizzazione ambientale per i rifiuti speciali. L’emendamento passò in Consiglio regionale ma la norma venne abrogata nel maggio del 2021. Pieroni, poi, avrebbe anche attivato, senza successo, un pressing sui vertici del governo nazionale con la finalità di evitare che la legge venisse impugnata davanti alla Corte Costituzionale. Nonostante la presenza di sostanze altamente inquinanti, il Keu sarebbe finito in attività edilizie ma anche sotto la strada regionale 429 e «all’interno dell’aeroporto militare di Pisa», dove alcuni indagati, ha ricostruito la Procura, «interrarono nel 2019 una parte dei rifiuti [...] per un quantitativo di alcune migliaia di tonnellate, cedendoli, con reiterati trasporti quantificati in almeno 33, quale materiale inerte riciclato, e interrandoli come sottofondo di area di movimentazione veicoli e aeromobili». Smaltendo in modo illecito il Keu, secondo l’accusa, gli indagati avrebbero risparmiato oltre 24 milioni di euro. A Gori, invece, gli indagati legati al consorzio dei conciari avrebbero promesso spintarelle per la sua carriera «in cambio», è scritto nei documenti dell’inchiesta, «della sua incondizionata disponibilità». La «promessa» viene anche descritta minuziosamente dai magistrati: «I privati corruttori», supportati dal sindaco di Santa Croce sull’Arno, si sarebbero impegnati «a richiedere esplicitamente al candidato presidente Giani di rinnovare a Gori l’incarico da capo di gabinetto, con contratto dirigenziale da circa 100.000 euro annui». La richiesta, ricostruiscono i pm, sarebbe stata «formulata al candidato presidente già in corso di campagna elettorale durante una cena del marzo 2020 e in successive visite elettorali nel comparto industriale conciario». La nomina di Gori, sottolineano i pm, «veniva effettivamente conferita il giorno successivo alla proclamazione di Giani (non indagato, ndr)». E non è finita: Gori, secondo l’accusa, già prima si sarebbe «attivato per raccogliere contributi finanziari in favore del presidente uscente Enrico Rossi (non indagato), facendo chiaramente intendere, durante un pranzo conviviale nel quale aveva coinvolto Rossi, di essere a disposizione dei conciatori per le loro esigenze». I gestori del depuratore delle concerie, infine, avrebbero «impedito, ostacolato e intralciato l’attività di vigilanza e i controlli ambientali», rifiutandosi perfino di consegnare ai carabinieri forestali «i registri di carico e scarico dei rifiuti».
Galeazzo Bignami (Ansa)
Malan: «Abbiamo fatto la cosa istituzionalmente più corretta». Romeo (Lega) non infierisce: «Garofani poteva fare più attenzione». Forza Italia si defila: «Il consigliere? Posizioni personali, non commentiamo».
Come era prevedibile l’attenzione del dibattito politico è stata spostata dalle parole del consigliere del presidente della Repubblica Francesco Saverio Garofani a quelle del capogruppo di Fratelli d’Italia a Montecitorio Galeazzo Bignami. «L’onorevole Bignami e Fratelli d’Italia hanno tenuto sulla questione Garofani un comportamento istituzionalmente corretto e altamente rispettoso del presidente della Repubblica», ha sottolineato il capo dei senatori di Fdi, Lucio Malan. «Le polemiche della sinistra sono palesemente pretestuose e in mala fede. Ieri un importante quotidiano riportava le sorprendenti frasi del consigliere Garofani. Cosa avrebbe dovuto fare Fdi, e in generale la politica? Bignami si è limitato a fare la cosa istituzionalmente più corretta: chiedere al diretto interessato di smentire, proprio per non tirare in ballo il Quirinale e il presidente Mattarella in uno scontro istituzionale. La reazione scomposta del Pd e della sinistra sorgono dal fatto che avrebbero voluto che anche Fdi, come loro, sostenesse che la notizia riportata da La Verità fosse una semplice fake news.
Giorgia Meloni e Sergio Mattarella (Ansa)
Faccia a faccia di mezz’ora. Alla fine il presidente del Consiglio precisa: «Non c’è nessuno scontro». Ma all’interlocutore ha rinnovato il «rammarico» per quanto detto dal suo collaboratore. Del quale adesso auspicherebbe un passo indietro.
Poker a colazione. C’era un solo modo per scoprire chi avesse «sconfinato nel ridicolo» (come da sprezzante comunicato del Quirinale) e Giorgia Meloni è andata a vedere. Aveva buone carte. Di ritorno da Mestre, la premier ha chiesto un appuntamento al presidente della Repubblica ed è salita al Colle alle 12.45 per chiarire - e veder chiarite - le ombre del presunto scontro istituzionale dopo lo scoop della Verità sulle parole dal sen sfuggite al consigliere Francesco Saverio Garofani e mai smentite. Il colloquio con Sergio Mattarella è servito a sancire sostanzialmente due punti fermi: le frasi sconvenienti dell’ex parlamentare dem erano vere e confermate, non esistono frizioni fra Palazzo Chigi e capo dello Stato.
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Altro che «attacco ridicolo», come aveva scritto il Quirinale. Garofani ammette di aver pronunciato in un luogo pubblico il discorso anti premier. E ora prova a farlo passare come «chiacchiere tra amici».
Sceglie il Corriere della Sera per confermare tutto quanto scritto dalla Verità: Francesco Saverio Garofani, ex parlamentare Pd, consigliere del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, finito nella bufera per alcune considerazioni politiche smaccatamente di parte, tutte in chiave anti Meloni, pronunciate in un ristorante e riportate dalla Verità, non smentisce neanche una virgola di quanto da noi pubblicato.






