
L’appello del presidente di Confindustria per sbloccare la governance del gruppo e spingere i cinesi di Sinochem al passo indietro. A rischio il lavoro in Italia e Usa.«Pirelli è in stallo. Serve una risposta forte del Paese». È bastata questa frase - pronunciata da Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, durante un evento a Parma - per riaccendere i riflettori su uno dei casi industriali più delicati e ingarbugliati degli ultimi tempi. Una partita in cui si intrecciano industria e geopolitica sulla frontiera della tecnologia. Un campo largo dove il caso Pirelli supera ogni precedente. C’è in gioco un asset strategico, una tecnologia all’avanguardia e centinaia di posti di lavoro, in Italia e negli Stati Uniti. Un’emergenza che imporrebbe decisioni rapide e invece è tutto fermo. O peggio: impantanato in un conflitto sulla governance del gruppo di cui finora nessuno è riuscito a venire a capo. La gestione industriale è stata messa al riparo dalle liti fra i soci. Ma fino a quando? Il nodo, ormai noto, si chiama Sinochem: il colosso statale cinese detiene il 37% del capitale di Pirelli, guidata dal presidente esecutivo Marco Tronchetti Provera. Una quota che oggi è diventata un problema finanziario, ma soprattutto politico. A marzo, con l’entrata in vigore delle nuove norme Usa sui veicoli connessi, il Cyber tyre - punta di diamante della tecnologia made in Pirelli - è finito nel mirino delle autorità americane: troppo «vicino» alla Cina, troppi dati sensibili nei suoi chip in collegamento costante con gli algoritmi dell’auto.Il bureau of industry and security, il braccio armato del dipartimento del Commercio, ha lanciato un avvertimento durissimo: se la quota cinese non scende sotto il 25%, Pirelli verrà tagliata fuori dal mercato statunitense. Orsini, ieri, è stato chiarissimo: «Senza una riduzione stabile della quota del socio cinese, Pirelli non potrà crescere negli Usa, con gravi ricadute anche in Italia: molte nuove assunzioni e importanti investimenti sarebbero infatti a rischio». A rischio sono i super tecnici che lavorano a Milano, dove c’è il cervello della ricerca e sviluppo; Bari, sede delle soluzioni digitali; Settimo Torinese e Bollate, poli produttivi di eccellenza. Il timore più concreto è che vada in fumo anche il nuovo centro per la mobilità sostenibile, un progetto strategico per posizionare l’Italia in prima fila nella corsa alla transizione green. La soluzione era sul tavolo: un riassetto della governance che portasse la quota cinese sotto la soglia critica del 25%. Ma Sinochem ha detto no. Anzi, ha alzato il tiro, votando contro il bilancio e contestando apertamente le restrizioni imposte dal governo italiano nel 2023 tramite il golden power. Una sfida, più che un dissenso. Il management guidato dall’amministratore delegato Andrea Casaluci ha tentato la mediazione. Le istituzioni hanno cominciato a muoversi. Ora anche il governo è in campo. Il ministro Adolfo Urso ha assicurato che l’esecutivo è «attivo e vigile» su un’impresa «strategica e significativa per il Paese». Ma i tempi stringono. Negli uffici golden power è ancora fermo un procedimento aperto da mesi contro i consiglieri Sinochem, che secondo le accuse avrebbero violato le prescrizioni di indipendenza tra il socio cinese e il gruppo della Bicocca. Ora serve un’azione decisa. Lo dice Orsini, lo chiedono i territori, lo pretendono i lavoratori. Il rischio è perdere un’eccellenza italiana, soffocata da una guerra economica tra superpotenze in cui l’Italia non può restare spettatrice. Perché Pirelli è molto più di una fabbrica: è la storia del made in Italy.
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(Istock)
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