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2018-06-27
Macron in crisi di nervi con l’Italia fa visita al Papa
ANSA
Emmanuel Macron aveva un piano: scaricare sull'Italia il peso dei salvataggi dei migranti nel Mediterraneo, contenere i movimenti secondari interni alla Ue, convincere la Germania a una riforma dell'eurozona che mitigasse i rischi per le finanze pubbliche di Parigi, quindi capeggiare il progetto della difesa comune europea, per poi assicurarsi le commesse per la componentistica dei mezzi militari.
Un progetto scaltrissimo, in cui il nostro Paese avrebbe dovuto recitare il fondamentale ruolo dell'allocco. In primo luogo, infatti, c'erano gli impegni assunti sul tema della difesa comune dall'ex ministro Roberta Pinotti, che la considerava una «sfida fondamentale per l'Europa di oggi» e che sosteneva con convinzione il coinvolgimento di contingenti italiani nel Niger. Non paga, la Pinotti aveva lavorato pure all'istituzione di un Fondo comune per lo sviluppo di tecnologie europee nel campo della sicurezza. A ben guardare, però, Parigi considera sua proprietà quello che in teoria è «comune». Nella vicenda dei cantieri di Saint-Nazaire, ad esempio, l'obiettivo di Macron era chiaramente di impedire a Fincantieri di mettere le mani su un asset strategico, garantendo alla Francia la primazia nella realizzazione della componentistica. Insomma, appalti miliardari per i cugini d'Oltralpe e gli avanzi al gruppo italiano.
Nelle ultime settimane, tuttavia, il radicale cambiamento intervenuto a Palazzo Chigi ha messo a repentaglio il disegno di Monsieur le Président. L'Italia non è più la nazione che baratta il macigno della gestione del primo approdo dei migranti per un po' di flessibilità sui conti. La cancelliera tedesca Angela Merkel è alle prese con gli ultimatum del suo ministro degli Interni, Horst Seehofer, perciò sa di non potersi inimicare troppo Roma e, al contempo, di doversi scontrare con l'opposizione dei cristianodemocratici bavaresi alla creazione del bilancio europeo, promesso a Macron nel bilaterale di Meseberg. A complicare ulteriormente il quadro è intervenuta Elisabetta Trenta, la quale, succeduta alla Pinotti al ministero della Difesa, ha deciso di tenere fuori l'Italia dal programma francese per l'istituzione di una forza d'intervento europea, che doveva rappresentare una tappa essenziale nell'acquisizione, da parte di Parigi, della leadership politico-militare della Ue. Come ha spiegato il blog Gli occhi della guerra, i transalpini impiegavano l'etichetta della «difesa comune europea» per perseguire «un interesse francese declinato nel continente». Ipotesi maliziosa, ma avvalorata dall'adesione entusiasta della Gran Bretagna, che è in uscita dall'Unione e quindi è formalmente distante da scenari di collaborazione che prevedano cessioni di sovranità.
Così, all'improvviso, Macron si presenta indebolito al Consiglio europeo che comincia domani a Bruxelles. Ed è impossibile negare che un governo italiano non più fedele esecutore degli ordini provenienti da centri di potere stranieri è l'attore che ha messo in difficoltà lo stratega dell'Eliseo. Macron è stato spiazzato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale aveva richiesto l'allestimento di hotspot in territorio africano per limitare le partenze e procedere al trasferimento in Europa soltanto di chi poteva effettivamente godere dello status di rifugiato. All'idea di sottrarre alla Francia il controllo esclusivo del Nordafrica, il premier ha infine aggiunto la cosiddetta European multilevel strategy for migration, il cui scopo sarebbe di costringere gli altri Paesi europei a farsi carico dell'esame delle richieste d'asilo di chi sbarca in Italia. Mosse che alla fine hanno costretto Stati finora trincerati, come Spagna e Malta, ad ammettere che è necessario ripensare un sistema dal quale Roma viene penalizzata.
È proprio per mettere i bastoni tra le ruote all'esecutivo gialloblù, che Macron ha deciso di volare da papa Francesco, nella speranza che la Santa Sede chiami a raccolta i cattolici contro le politiche sull'immigrazione di Lega e Movimento 5 stelle. Ma è evidente che al leader transalpino, apparso ultimamente sull'orlo di una crisi di nervi, tra un portavoce sboccato e un'allusione infelice alla «lebbra» del populismo, quello che doveva essere un meccanismo perfetto sta sfuggendo di mano. Al punto che, come rivelato da Dagospia, prima di recarsi dal Pontefice, Macron avrebbe pranzato nella romana Casina Valadier insieme a sua moglie Brigitte e al premier Conte: l'incontro sarebbe servito a eliminare una prima grana, ovvero la situazione della nave Ong Lifeline, cui le autorità maltesi hanno finalmente concesso il diritto di attraccare nell'isola (anche se gli immigrati sono stati trasferiti in Italia).
La riunione del 28 e 29 giugno, in ogni caso, si annuncia tesa e persino inconcludente. Durante la conferenza stampa con il premier spagnolo Pedro Sanchez, la Merkel ha ammesso che su almeno due delle nuove linee guida sull'immigrazione «si deve ancora lavorare»: ciò potrebbe significare che alla fine del vertice di Bruxelles non si otterrà l'unanimità. La sensazione è che, con l'asse Parigi-Berlino scricchiolante e un'Italia che rialza la testa, l'assetto geopolitico del continente si stia fluidificando: l'Europa abbandona le chimere di unificazione e si ricostituisce attorno a intese flessibili, i famosi «accordi bilaterali» che la stessa cancelliera tedesca, due giorni fa, ha evocato in maniera esplicita. Le carte si stanno rimescolando e Macron non resta che tentare un'altra mano.
Alessandro Rico
Il numero uno dell'Eliseo usa da ipocrita la sirena europeista
È durato oltre 50 minuti l'incontro privato tra papa Francesco e il presidente francese Emmanuel Macron in Vaticano, probabilmente l'incontro più lungo tra un presidente e il Papa argentino, simile a quello con Barack Obama. Già questa nota di cronaca sottolinea l'importanza del discorso che i due hanno intrattenuto con al centro i temi dell'immigrazione, l'Africa, l'ambiente e il disarmo, come recita il comunicato della sala stampa della Santa sede. E come era facile prevedere. Con un'«aggiunta» all'agenda del colloquio, dà conto il comunicato vaticano diffuso dopo il secondo incontro di Macron in Vaticano, quello con il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e l'arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati: la «riflessione congiunta circa le prospettive del progetto europeo».
L'incontro tra papa Francesco e il presidente Macron (accompagnato dalla moglie Brigitte in abito nero e chioma raccolta, ma senza veletta) è un banco di prova e una specie di scialuppa di salvataggio per tante agende politiche. Innanzitutto c'è la strategia degli europeisti liberal in grande difficoltà contro i populismi, europeisti che oggi in Vaticano cercano più sponde che in qualsiasi altra cancelleria, compresa ovviamente quella statunitense. Come corollario, sotto i riflettori c'è la politica per gli immigrati, anche se lo stesso Macron, lo sappiamo, tende a predicare bene e a razzolare male. Di immigrazione il presidente francese ha parlato anche ieri mattina con la comunità di Sant'Egidio a Palazzo Farnese, dove ha ipocritamente menzionato i corridoi umanitari come un modello della politica di immigrazione legale, soprattutto per le persone che hanno bisogno di protezione umanitaria. Una questione che è la punta di un iceberg molto più ampio e che riguarda la crisi epocale che sta vivendo l'establishment occidentale di cui Macron è in qualche modo l'ultimo baluardo; alla Chiesa qualcuno vorrebbe chiedere di puntellare questo ordine liberale, oppure semplicemente rassegnarsi alla morte. Infine, et tout se tient, c'è il tentativo del presidente francese di mettersi a caccia del voto cattolico francese, operazione iniziata con enfasi con il discorso furbo che Macron ha tenuto davanti ai vescovi d'oltralpe al Colleges des Bernardins lo scorso 9 aprile.
In linea con questa nouvelle stratégie di avvicinamento al mondo cattolico, Macron nel pomeriggio di ieri ha ricevuto il titolo di protocanonico d'onore dal Capitolo della Basilica di San Giovanni in Laterano. Un'onorificenza riservata a tutti i capi di Stato francesi grazie a una tradizione secolare che risale al re Enrico IV, ma che i presidenti possono anche rifiutare come, non a caso, hanno fatto François Mitterrand, Georges Pompidou e François Hollande.
Il voto cattolico francese è allergico alla sinistra stile François Hollande, deluso dal gollista François Fillon, affascinato, ma non troppo da Marine Le Pen, ha sospeso il giudizio su Macron. Ma il presidente sa molto bene che questa «minoranza» è capace di inaspettate reazioni, come ha chiaramente mostrato la serie di eventi contro la famigerata legge Toubira sul cosiddetto «matrimonio per tutti», eventi che hanno portato milioni di francesi in piazza sotto il comune denominatore della Manif pour tous.
Questa strategia di riconquista del voto cattolico può essere considerata oltre gli stretti confini francesi, se si valuta ciò che rappresenta oggi il presidente Macron a livello internazionale. Il voto italiano ha mostrato una volta in più che i cosiddetti cattolici sono più autonomi di quanto si pensasse, spesso sono ago della bilancia degli equilibri politici, e Dio solo sa quanto il mondo progressista abbia sbeffeggiato le istanze cattoliche e ne stia pagando le conseguenze.
Macron allora prova a spaccare il fronte populista cominciando proprio dal voto cattolico, non solo quello francese, forse considerando i fedeli come la parte più malleabile e pronta ad accodarsi a un eventuale richiamo delle gerarchie. Usa la sirena europeista e una sorta di benedizione morale delle sacre stanze. Come ha fatto davanti ai vescovi di Francia chiama i cattolici a scendere in campo nella politica, utilizza parole suadenti e riconoscibili. Addirittura, un presidente che si appresta ad approvare una estensione della legge sulla Fivet per le coppie di lesbiche e le donne single, davanti ai vescovi chiama il feto con la parola pro life «nascituro». Ma proprio su questa legge, che dovrebbe essere discussa in autunno, potrebbe cadere la maschera di Macron davanti ai cattolici, tanto che il portavoce dei vescovi francesi monsignor Ribadeau Dumas ha detto che se questa legge verrà votata «Macron potrebbe svelare davanti alla comunità un sentimento di doppiezza». Double face, è questo il rischio dell'attivismo del presidente Macron nei confronti del mondo cattolico, lui battezzato a 12 anni ora si professa «agnostico» e aperto alla trascendenza, è figlio legittimo della patria del laicismo e difficilmente la tradirà. E la Chiesa, si ritaglierà davvero solo questo ruolo di presunta stampella dei liberal come molti vorrebbero? La storia insegna che trascinare il popolo di Dio di qua o di là è un operazione che può riservare molte sorprese.
Lorenzo Bertocchi
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Piano fallito, Francia in difficoltà: non ci siamo presi il «pacco» sulla difesa comune.Il presidente francese in Vaticano cerca sponda contro il fronte populista e per i voti cattolici.Lo speciale contiene due articoliEmmanuel Macron aveva un piano: scaricare sull'Italia il peso dei salvataggi dei migranti nel Mediterraneo, contenere i movimenti secondari interni alla Ue, convincere la Germania a una riforma dell'eurozona che mitigasse i rischi per le finanze pubbliche di Parigi, quindi capeggiare il progetto della difesa comune europea, per poi assicurarsi le commesse per la componentistica dei mezzi militari. Un progetto scaltrissimo, in cui il nostro Paese avrebbe dovuto recitare il fondamentale ruolo dell'allocco. In primo luogo, infatti, c'erano gli impegni assunti sul tema della difesa comune dall'ex ministro Roberta Pinotti, che la considerava una «sfida fondamentale per l'Europa di oggi» e che sosteneva con convinzione il coinvolgimento di contingenti italiani nel Niger. Non paga, la Pinotti aveva lavorato pure all'istituzione di un Fondo comune per lo sviluppo di tecnologie europee nel campo della sicurezza. A ben guardare, però, Parigi considera sua proprietà quello che in teoria è «comune». Nella vicenda dei cantieri di Saint-Nazaire, ad esempio, l'obiettivo di Macron era chiaramente di impedire a Fincantieri di mettere le mani su un asset strategico, garantendo alla Francia la primazia nella realizzazione della componentistica. Insomma, appalti miliardari per i cugini d'Oltralpe e gli avanzi al gruppo italiano.Nelle ultime settimane, tuttavia, il radicale cambiamento intervenuto a Palazzo Chigi ha messo a repentaglio il disegno di Monsieur le Président. L'Italia non è più la nazione che baratta il macigno della gestione del primo approdo dei migranti per un po' di flessibilità sui conti. La cancelliera tedesca Angela Merkel è alle prese con gli ultimatum del suo ministro degli Interni, Horst Seehofer, perciò sa di non potersi inimicare troppo Roma e, al contempo, di doversi scontrare con l'opposizione dei cristianodemocratici bavaresi alla creazione del bilancio europeo, promesso a Macron nel bilaterale di Meseberg. A complicare ulteriormente il quadro è intervenuta Elisabetta Trenta, la quale, succeduta alla Pinotti al ministero della Difesa, ha deciso di tenere fuori l'Italia dal programma francese per l'istituzione di una forza d'intervento europea, che doveva rappresentare una tappa essenziale nell'acquisizione, da parte di Parigi, della leadership politico-militare della Ue. Come ha spiegato il blog Gli occhi della guerra, i transalpini impiegavano l'etichetta della «difesa comune europea» per perseguire «un interesse francese declinato nel continente». Ipotesi maliziosa, ma avvalorata dall'adesione entusiasta della Gran Bretagna, che è in uscita dall'Unione e quindi è formalmente distante da scenari di collaborazione che prevedano cessioni di sovranità. Così, all'improvviso, Macron si presenta indebolito al Consiglio europeo che comincia domani a Bruxelles. Ed è impossibile negare che un governo italiano non più fedele esecutore degli ordini provenienti da centri di potere stranieri è l'attore che ha messo in difficoltà lo stratega dell'Eliseo. Macron è stato spiazzato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale aveva richiesto l'allestimento di hotspot in territorio africano per limitare le partenze e procedere al trasferimento in Europa soltanto di chi poteva effettivamente godere dello status di rifugiato. All'idea di sottrarre alla Francia il controllo esclusivo del Nordafrica, il premier ha infine aggiunto la cosiddetta European multilevel strategy for migration, il cui scopo sarebbe di costringere gli altri Paesi europei a farsi carico dell'esame delle richieste d'asilo di chi sbarca in Italia. Mosse che alla fine hanno costretto Stati finora trincerati, come Spagna e Malta, ad ammettere che è necessario ripensare un sistema dal quale Roma viene penalizzata.È proprio per mettere i bastoni tra le ruote all'esecutivo gialloblù, che Macron ha deciso di volare da papa Francesco, nella speranza che la Santa Sede chiami a raccolta i cattolici contro le politiche sull'immigrazione di Lega e Movimento 5 stelle. Ma è evidente che al leader transalpino, apparso ultimamente sull'orlo di una crisi di nervi, tra un portavoce sboccato e un'allusione infelice alla «lebbra» del populismo, quello che doveva essere un meccanismo perfetto sta sfuggendo di mano. Al punto che, come rivelato da Dagospia, prima di recarsi dal Pontefice, Macron avrebbe pranzato nella romana Casina Valadier insieme a sua moglie Brigitte e al premier Conte: l'incontro sarebbe servito a eliminare una prima grana, ovvero la situazione della nave Ong Lifeline, cui le autorità maltesi hanno finalmente concesso il diritto di attraccare nell'isola (anche se gli immigrati sono stati trasferiti in Italia).La riunione del 28 e 29 giugno, in ogni caso, si annuncia tesa e persino inconcludente. Durante la conferenza stampa con il premier spagnolo Pedro Sanchez, la Merkel ha ammesso che su almeno due delle nuove linee guida sull'immigrazione «si deve ancora lavorare»: ciò potrebbe significare che alla fine del vertice di Bruxelles non si otterrà l'unanimità. La sensazione è che, con l'asse Parigi-Berlino scricchiolante e un'Italia che rialza la testa, l'assetto geopolitico del continente si stia fluidificando: l'Europa abbandona le chimere di unificazione e si ricostituisce attorno a intese flessibili, i famosi «accordi bilaterali» che la stessa cancelliera tedesca, due giorni fa, ha evocato in maniera esplicita. Le carte si stanno rimescolando e Macron non resta che tentare un'altra mano. Alessandro Rico<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/piano-fallito-eliseo-in-crisi-di-nervi-con-litalia-non-ci-siamo-presi-il-pacco-sulla-difesa-comune-2581568463.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-numero-uno-delleliseo-usa-da-ipocrita-la-sirena-europeista" data-post-id="2581568463" data-published-at="1765974850" data-use-pagination="False"> Il numero uno dell'Eliseo usa da ipocrita la sirena europeista È durato oltre 50 minuti l'incontro privato tra papa Francesco e il presidente francese Emmanuel Macron in Vaticano, probabilmente l'incontro più lungo tra un presidente e il Papa argentino, simile a quello con Barack Obama. Già questa nota di cronaca sottolinea l'importanza del discorso che i due hanno intrattenuto con al centro i temi dell'immigrazione, l'Africa, l'ambiente e il disarmo, come recita il comunicato della sala stampa della Santa sede. E come era facile prevedere. Con un'«aggiunta» all'agenda del colloquio, dà conto il comunicato vaticano diffuso dopo il secondo incontro di Macron in Vaticano, quello con il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e l'arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati: la «riflessione congiunta circa le prospettive del progetto europeo». L'incontro tra papa Francesco e il presidente Macron (accompagnato dalla moglie Brigitte in abito nero e chioma raccolta, ma senza veletta) è un banco di prova e una specie di scialuppa di salvataggio per tante agende politiche. Innanzitutto c'è la strategia degli europeisti liberal in grande difficoltà contro i populismi, europeisti che oggi in Vaticano cercano più sponde che in qualsiasi altra cancelleria, compresa ovviamente quella statunitense. Come corollario, sotto i riflettori c'è la politica per gli immigrati, anche se lo stesso Macron, lo sappiamo, tende a predicare bene e a razzolare male. Di immigrazione il presidente francese ha parlato anche ieri mattina con la comunità di Sant'Egidio a Palazzo Farnese, dove ha ipocritamente menzionato i corridoi umanitari come un modello della politica di immigrazione legale, soprattutto per le persone che hanno bisogno di protezione umanitaria. Una questione che è la punta di un iceberg molto più ampio e che riguarda la crisi epocale che sta vivendo l'establishment occidentale di cui Macron è in qualche modo l'ultimo baluardo; alla Chiesa qualcuno vorrebbe chiedere di puntellare questo ordine liberale, oppure semplicemente rassegnarsi alla morte. Infine, et tout se tient, c'è il tentativo del presidente francese di mettersi a caccia del voto cattolico francese, operazione iniziata con enfasi con il discorso furbo che Macron ha tenuto davanti ai vescovi d'oltralpe al Colleges des Bernardins lo scorso 9 aprile. In linea con questa nouvelle stratégie di avvicinamento al mondo cattolico, Macron nel pomeriggio di ieri ha ricevuto il titolo di protocanonico d'onore dal Capitolo della Basilica di San Giovanni in Laterano. Un'onorificenza riservata a tutti i capi di Stato francesi grazie a una tradizione secolare che risale al re Enrico IV, ma che i presidenti possono anche rifiutare come, non a caso, hanno fatto François Mitterrand, Georges Pompidou e François Hollande. Il voto cattolico francese è allergico alla sinistra stile François Hollande, deluso dal gollista François Fillon, affascinato, ma non troppo da Marine Le Pen, ha sospeso il giudizio su Macron. Ma il presidente sa molto bene che questa «minoranza» è capace di inaspettate reazioni, come ha chiaramente mostrato la serie di eventi contro la famigerata legge Toubira sul cosiddetto «matrimonio per tutti», eventi che hanno portato milioni di francesi in piazza sotto il comune denominatore della Manif pour tous. Questa strategia di riconquista del voto cattolico può essere considerata oltre gli stretti confini francesi, se si valuta ciò che rappresenta oggi il presidente Macron a livello internazionale. Il voto italiano ha mostrato una volta in più che i cosiddetti cattolici sono più autonomi di quanto si pensasse, spesso sono ago della bilancia degli equilibri politici, e Dio solo sa quanto il mondo progressista abbia sbeffeggiato le istanze cattoliche e ne stia pagando le conseguenze. Macron allora prova a spaccare il fronte populista cominciando proprio dal voto cattolico, non solo quello francese, forse considerando i fedeli come la parte più malleabile e pronta ad accodarsi a un eventuale richiamo delle gerarchie. Usa la sirena europeista e una sorta di benedizione morale delle sacre stanze. Come ha fatto davanti ai vescovi di Francia chiama i cattolici a scendere in campo nella politica, utilizza parole suadenti e riconoscibili. Addirittura, un presidente che si appresta ad approvare una estensione della legge sulla Fivet per le coppie di lesbiche e le donne single, davanti ai vescovi chiama il feto con la parola pro life «nascituro». Ma proprio su questa legge, che dovrebbe essere discussa in autunno, potrebbe cadere la maschera di Macron davanti ai cattolici, tanto che il portavoce dei vescovi francesi monsignor Ribadeau Dumas ha detto che se questa legge verrà votata «Macron potrebbe svelare davanti alla comunità un sentimento di doppiezza». Double face, è questo il rischio dell'attivismo del presidente Macron nei confronti del mondo cattolico, lui battezzato a 12 anni ora si professa «agnostico» e aperto alla trascendenza, è figlio legittimo della patria del laicismo e difficilmente la tradirà. E la Chiesa, si ritaglierà davvero solo questo ruolo di presunta stampella dei liberal come molti vorrebbero? La storia insegna che trascinare il popolo di Dio di qua o di là è un operazione che può riservare molte sorprese. Lorenzo Bertocchi
Lucio Caracciolo (Ansa)
Quest’ultimo, noto per le apparizioni televisive e per la militanza politica nell’area di Azione e +Europa, ha salutato con un post sui social: «Informo i pochi cui può interessare che sono uscito dal Consiglio Scientifico di Limes, per incompatibilità con la linea politica di mancato sostegno ai principi del Diritto Internazionale, stracciati dall’aggressione russa all’Ucraina», ha scritto.
Federico Argentieri ha invece rilasciato una corposa intervista all’AdnKronos. «Siamo in una fase cruciale, probabilmente la più difficile per l’Ucraina dall’inizio della guerra, non tanto sul piano militare quanto su quello diplomatico e internazionale. Con gli Stati Uniti che si svincolano dalla Nato, che attaccano l’Unione europea apertamente, e con un allineamento sempre più evidente tra America e Russia, questo è il momento in cui bisogna fare scelte chiare, senza ambiguità», ha detto. «In questo contesto ho ritenuto che non fosse più ammissibile che il mio nome comparisse nel tamburino di Limes. Non si tratta di opportunismo né di saltare sul carro del vincitore, anche perché l’Ucraina oggi non è certo il vincitore. È una scelta di coerenza. Io ho scritto poco per Limes, anche perché il suo approccio geopolitico - centrato quasi esclusivamente sui rapporti di forza - non mi è mai stato del tutto congeniale. Ma il punto non è questo. Il vero problema è il pregiudizio strutturale che la rivista ha nei confronti dell’Ucraina da oltre vent’anni».
Curioso: il professore non è d’accordo con la linea editoriale da vent’anni ma è rimasto lo stesso nella rivista. Come mai? «Per una combinazione di fattori. Perché si potevano trovare anche analisi condivisibili, perché nessuno ha mai messo in discussione la mia presenza. I legami personali, come spesso accade, sono duri a morire. E poi c’era sempre la speranza, forse ingenua, di un cambio di rotta. Cambio che non c’è mai stato, anzi: dal 2014 in poi le cose sono peggiorate».
Insomma, alla fine a quanto pare gli conveniva restare. Anche se Caracciolo gli ha fatto uno sgarbo personale difficile da dimenticare. «La svolta è chiarissima: 2004, la rivoluzione arancione», racconta Argentieri. «Da lì in poi Limes assume una postura costantemente diffidente, se non apertamente ostile, verso l’Ucraina. È lo stesso momento in cui esce in Italia Raccolto di dolore di Robert Conquest sulla carestia staliniana, libro che ho curato e prefato dopo averlo letteralmente fatto uscire da un cassetto dove era stato relegato per anni. E cosa fa Limes? Pubblica a puntate - poi per fortuna solo una - L’autobus di Stalin di Antonio Pennacchi: un’orrenda apologia cinica del dittatore, mascherata da allegoria grottesca. Un bravo scrittore che conosce bene le dinamiche dell’Agro pontino ma ben poco quelle sovietiche, che si inerpica in un esercizio davvero incomprensibile». Viene da dire che Pennacchi era un autore di una certa fama e di un certo rilievo, e di sicuro non era un difensore delle dittature, ma Argentieri se l’è legata al dito e vent’anni dopo ha deciso di arrivare al redde rationem. Se ne va, e lancia palate di fango, spiegando che la linea di Limes «è una nube tossica mediatica che avvelena il pubblico e finisce per influenzare anche la politica. Limes e Caracciolo hanno una responsabilità maggiore di tanti ciarlatani televisivi proprio perché il loro livello culturale è elevato. Quando una fonte autorevole contribuisce alla disinformazione, il danno è più grave. Negli altri paesi europei, Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, non c’è la carrellata di figure improponibili che oggi trovano grande spazio in certi programmi. Neanche Fox News è così schierata, solo in Russia si vedono le trasmissioni che ci sono in Italia. I miei colleghi stranieri sono stupefatti davanti a questa, chiamiamola, unicità».
Capito? Altrove sono più bravi di noi. Sono tutti militarizzati, ripetono le cose giuste, tengono la linea corretta. Curioso che Argentieri non abbia detto mezza parola sulla marea di stupidaggini, bufale e previsioni sbagliate che altri esperti (evidentemente a lui più congegnali di quelli di Limes) hanno scodellato in tutti questi anni. I nostri finissimi analisti geopolitici non ne hanno azzeccata una, e infatti la Russia è ancora lì che combatte e la guerra non è finita.
Ovvio: tutti gli studiosi e i tecnici di cui sopra hanno il sacrosanto diritto di andarsene dalla rivista che non gradiscono più. Le loro motivazioni tuttavia fanno riflettere. Se la prendono con una delle poche voci che hanno dimostrato di avere un legame con la realtà e non hanno ceduto alla propaganda occidentale (perché esiste pure quella). Limes, in questi anni, ha pubblicato analisi dettagliate, ha ospitato punti di vista diversi e non si è limitata a ripetere a pappagallo le tesi dei commentatori catodici più in voga. Con tutta evidenza, questo atteggiamento ha infastidito Camporini, Argentieri e gli altri. È, appunto, la sindrome di Zerocalcare: accetto le opinioni di tutti bastano che siano concordi con la mia.
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«Il governo belga si sta opponendo all’utilizzo dei fondi russi per timore di dover rimborsare l’intero importo qualora la Russia tentasse di recuperare il denaro», ha riferito Politico, per poi aggiungere: «Ma, a complicare ulteriormente la situazione, altri quattro Paesi - Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca - hanno appoggiato la richiesta del Belgio di valutare finanziamenti alternativi per l’Ucraina, come il debito congiunto». A favore dell’uso dei beni russi congelati si è invece detta la Germania, che si è al contempo espressa contro il ricorso alla condivisione del debito. «Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di agire dell’Unione europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo», ha dichiarato lunedì Friedrich Merz, riferendosi all’uso degli asset russi. Più sfumata appare invece la posizione della Francia, che non sembrerebbe del tutto ostile all’idea di ricorrere agli Eurobond. Nel frattempo, ieri Reuters ha riferito che i parlamentari italiani di maggioranza hanno stilato un documento, in cui si esorta il governo «a chiedere alla Commissione europea di condurre un esame approfondito degli aspetti legali e finanziari di tutte le opzioni di finanziamento sul tavolo». Si tratta di una risoluzione che dovrebbe essere votata nella giornata di oggi.
Come che sia, un diplomatico dell’Ue ha fatto sapere a Politico che sulla questione degli asset russi «non ci sarà alcun accordo fino al Consiglio europeo», che prenderà il via domani. «La Commissione europea ha presentato, tramite testo legislativo, due opzioni. Una era l’opzione per le riparazioni, che può essere attuata tramite la proposta legislativa presentata dalla Commissione a maggioranza qualificata. L’altra è l’opzione di un prestito, utilizzando come garanzia il margine di manovra del bilancio europeo. Questa opzione richiede l’unanimità», ha dichiarato un alto funzionario europeo. «È stato molto chiaro fin dal primo dibattito svoltosi tra gli ambasciatori che non c’era l’unanimità per quella seconda opzione, che è stata quindi messa da parte per concentrarsi sul prestito di riparazione. Non è un segreto che il prestito di riparazione sia la soluzione preferita da una considerevole maggioranza degli Stati membri», ha continuato. «Spetta ai leader decidere, ma credo che tutti i leader siano ben consapevoli della posta in gioco sproporzionata del Belgio in una soluzione basata sul prestito di riparazione. E questo viene preso in considerazione da tutti i leader e certamente il presidente del Consiglio europeo ne è ben consapevole», ha affermato un’altra fonte dell’Ue, che ha proseguito: «Tra l’altro, il negoziato sul prestito di riparazione si è svolto principalmente e soprattutto in base alle preoccupazioni del Belgio. E penso che questo sia anche un segno che tutti intorno al tavolo - gli Stati membri e certamente i leader - riconoscono la posta in gioco per il Belgio. Quindi il negoziato è in gran parte incentrato sulla condivisione di qualsiasi rischio o costo derivante da questa soluzione con il Belgio». Nell’Ue, se non panico, c’è «un senso di urgenza», come hanno detto ieri alcune fonti di Bruxelles. «Una decisione va presa».
Ricordiamo che i beni russi congelati sono detenuti da Euroclear Bank, che ha sede in Belgio. E proprio contro questo istituto ha fatto recentemente causa, davanti al Tribunale commerciale di Mosca, la banca centrale russa, chiedendo 230 miliardi di dollari di danni. «Se la banca centrale vincesse, potrebbe chiedere l’esecuzione forzata degli asset di Euroclear in altre giurisdizioni, in particolare quelle considerate ’amichevoli’ dalla Russia», ha sottolineato Reuters l’altro ieri. «Alcuni gestori di fondi avvertono che un’eventuale decisione di utilizzare i beni congelati aumenterebbe i rischi politici legati al possesso di asset in euro e metterebbe persino in dubbio il loro status di rifugio globale», aveva inoltre riportato, dieci giorni fa, il Financial Times. D’altronde, secondo il sito australiano The Conversation, «se gli operatori di mercato temessero sequestri di beni per motivi politici, potrebbero trasferire le proprie attività in giurisdizioni ritenute più sicure».
Insomma, la questione è insidiosa sul fronte tecnico. E poi emerge il nodo politico. Per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a un’Unione europea spaccata. Il dossier degli asset è scivoloso. Ed è tutto da dimostrare che il Consiglio europeo riuscirà a trovare una quadra su di esso.
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Da sinistra: Friedrich Merz, Keir Starmer, Volodymyr Zelensky ed Emmanuel Macron (Ansa)
Mentre il summit europeo di Berlino sulla pace in Ucraina è stato celebrato come un successo da chi ne ha preso parte, le proposte contenute nella dichiarazione congiunta dei leader dell’Europa sembrano fatte per essere rifiutate. E Mosca ha già iniziato a manifestare i primi segnali di chiusura.
A meno di 24 ore di distanza dal vertice, il Cremlino è convinto che la partecipazione degli europei alle trattative «non promette bene». E anche di fronte alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che intravede la conclusione del conflitto, Mosca resta cauta. Il tycoon, dopo aver parlato lunedì sera con i primi ministri e i capi di Stato europei, aveva subito dichiarato: «Siamo più vicini che mai alla fine della guerra», aggiungendo anche di essere stato in contatto «di recente con Vladimir Putin». A smentire però la telefonata è stato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: i due leader non si sono più sentiti dopo il 16 ottobre. Il portavoce ha anche spiegato che Mosca «non ha ricevuto» alcun segnale dopo i round di negoziati a Berlino, e anche per questo dovrà valutare «quello che sarà il risultato dei negoziati che gli americani conducono con gli ucraini, con la partecipazione degli europei». Che Mosca non abbia ancora compreso l’esito dei summit è evidente anche dalle parole del viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov: «Non abbiamo idea di cosa succeda lì». Stando a quanto rivelato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di una questione di giorni: i piani di pace, che dovrebbero essere finalizzati a breve, saranno poi presentati alla Russia dagli inviati americani.
Ma il niet russo è già arrivato in merito all’impegno europeo per «una forza multinazionale Ucraina a guida europea, composta dai contributi delle nazioni disponibili nell’ambito della coalizione dei Volenterosi e sostenuta dagli Stati Uniti». La posizione di Mosca era già nota, ma ieri il viceministro degli Esteri russo in un’intervista ad Abc News, ha ribadito: «Non sottoscriveremo, accetteremo o saremo nemmeno soddisfatti di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino». Lo stesso rifiuto si applica anche qualora la forza multinazionale fosse parte di una garanzia di sicurezza o della Coalizione dei volenterosi. A intervenire in merito è stato anche Peskov che, affermando che Mosca «non ha visto alcun testo» sulla proposta europea della forza multinazionale, ha precisato: «La nostra posizione è ben nota, coerente e trasparente ed è chiara agli americani».
A ciò si aggiunge il grattacapo dei territori, con nessuna delle due parti che è disposta a cedere. Zelensky, a margine del vertice, ha ripetuto che «l’Ucraina non riconoscerà il Donbass come territorio russo, né de jure né de facto». L’impegno di Kiev è quello di continuare a «discuterne nonostante tutto». Il presidente ucraino pare quindi non prendere ancora sul serio le parole di Trump, che ha confermato che «il territorio del Donbass è già perso» per l’Ucraina. Dall’altra parte, anche la posizione russa resta immutata: Ryabkov ha detto che Mosca non scenderà «a compromessi» su Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Ed è anche in quest’ottica, con i soldati russi che continuano ad avanzare, che il Cremlino ha rifiutato la tregua natalizia avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Peskov ha infatti sottolineato: «Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra».
Un altro tassello complicato riguarda Kiev e l’Ue, anche se non dalla prospettiva russa. Nell’ultimo punto della dichiarazione congiunta dei leader europei si afferma: «Il fermo sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea». Ma da parte italiana emergono alcune perplessità. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha osservato che ritiene «difficile» l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Ue «non per motivi politici ma agricoli, conoscendo gli agricoltori polacchi, francesi, italiani e tedeschi». A ribadire la sua contrarietà è stato poi il premier ungherese, Viktor Orbàn: «Il popolo ungherese ha detto che non vuole stare in un’Unione con l’Ucraina». Tornando alla linea dell’Italia, riguardo alle garanzie di sicurezza simili all’articolo 5 della Nato di cui «gli americani ne saranno parte», il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ricordato che si tratta della «proposta italiana» che è stata «accolta» perché «di buon senso». Ma ad essere accolte, sul fronte opposto, sono state anche le dichiarazioni inerenti al riarmo del vicepremier, Matteo Salvini: «Se Hitler e Napoleone non sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca con le loro campagne in Russia, è improbabile che Kallas, Macron, Starmer e Merz abbiano successo». Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova «il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile».
Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022
Il nostro articolo del 27 febbraio 2022 concludeva con queste parole: «Forse si potrebbe auspicare che la Nato dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad «invitare» l’Ucraina a farvi parte; e che le regioni ucraine oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum». Dopo quasi quattro anni di guerra, leggiamo che «Volodymyr Zelensky apre: no a Kiev nella Nato».
Inoltre, a chi gli chiedeva se egli sarebbe stato disponibile a concedere territori come parte di un accordo di pace, Zelensky rispondeva che «la cosa non può essere decisa unilateralmente dal governo o dagli alleati, ma deve avere un mandato popolare, cioè il popolo ucraino deve essere coinvolto tramite un qualche processo democratico, nel formato di elezioni o di referendum». Che il nostro auspicio di quattro anni fa coincida con le conclusioni cui sarebbe alla fine pervenuto Zelensky dopo quattro anni, è, a mio parere, l’ulteriore prova della inadeguatezza di un uomo chiamato a gestire una situazione più grande, molto più grande, di lui. E non si tratta solo di inadeguatezza, ma anche di irresponsabilità. Perché le cose - se vogliamo capirle - dobbiamo dirle tutte. Dobbiamo quindi dire che già il 15 marzo 2022 Zelensky dichiarava: «Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, e dobbiamo riconoscere che non ci sono porte aperte». Insomma, il dover abbandonare ogni velleità di aderire alla Nato, più che una apertura di questi giorni, era una consapevolezza acquisita già quattro anni fa. Il che impone la cogente domanda: perché ha continuato la guerra e non si arrese quel 15 marzo 2022? Prima o poi, se non da un tribunale, sicuramente dalla Storia, questa domanda gli verrà posta.
Un’altra domanda che gli si dovrà porre è da dove gli è mai venuta l’idea di una Nato dalle «porte aperte». L’art. 10 del Patto Atlantico prevede che i membri «possono, con accordo unanime, invitare qualsiasi altro Stato europeo ad aderire al Trattato»; cosicché per far parte della Nato bisogna 1) essere uno Stato europeo, 2) essere invitati da chi membro lo è già, e 3) essere invitati all’unanimità. È vero che, subito dopo la fine della Guerra fredda, sebbene ci fosse stata da parte dei vertici della Nato una promessa verbale di non espansione a est della Germania, quegli stessi vertici si preoccuparono di far sapere al mondo intero che non ci sarebbero state preclusioni di principio per l’allargamento della Nato. Tuttavia, l’articolo 10 del Trattato è rimasto immutato. Insomma, Zelensky mai poteva allora, né può ora accampare diritti in ordine alla adesione dell’Ucraina alla Nato. E fa sorridere che codesta volontà di adesione sia stata scritta, addirittura, nella Costituzione ucraina, quando la cosa non dipende dalla volontà dell’Ucraina. E fa sorridere ancora di più, perché questa volontà fu addirittura un emendamento del 2019 alla Costituzione del 1996 che invece garantiva l’Ucraina quale Stato militarmente neutrale.
Anche l’altra recente affermazione di Zelensky sul possibile referendum in ordine alla «cessione» dei territori ripropone la sprovvedutezza dell’uomo. Quattro anni fa l’idea poteva sorgere spontanea. E, anzi, doveva sorgere già nel 2014. Allora, in seguito allo spodestamento del presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto anche col forte sostegno dei voti dei cittadini di Crimea e del Donbass, questi decidevano di separarsi dal governo centrale con un referendum. Il referendum era, ovviamente, illegittimo; ma poneva un problema politico che in un sistema sedicente democratico avrebbe dovuto risolversi in qualche modo. Ma, anziché invocare il principio, sancito dalla Carta Onu, dell’autodeterminazione dei popoli e far ripetere i referendum sotto il controllo internazionale, la comunità internazionale girava le spalle al Donbass che si dichiarava indipendente; e sanzionava la Russia cui la Crimea si era confederata.
L’impressione è che, se fosse assennato, a Zelensky converrebbe mollare la Ue e affidarsi esclusivamente a Donald Trump. Se da un lato questi vorrebbe far finire quanto prima la guerra, e pertanto appare disponibile ad accontentare le pretese di Putin, dall’altro ha interesse a minimizzarne i vantaggi, cosa che indirettamente significa anche minimizzare gli svantaggi per l’Ucraina. Le cui disgrazie sono anche in parte dovute a quel «f**k the Eu» pronunciato - da Victoria Nuland, nel 2014 responsabile americana agli affari euroasiatici - a detrimento dell’Ucraina. Forse è venuto il momento per Zelensky di pronunciare la stessa invettiva a vantaggio del proprio Paese.
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