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2018-06-27
Macron in crisi di nervi con l’Italia fa visita al Papa
ANSA
Emmanuel Macron aveva un piano: scaricare sull'Italia il peso dei salvataggi dei migranti nel Mediterraneo, contenere i movimenti secondari interni alla Ue, convincere la Germania a una riforma dell'eurozona che mitigasse i rischi per le finanze pubbliche di Parigi, quindi capeggiare il progetto della difesa comune europea, per poi assicurarsi le commesse per la componentistica dei mezzi militari.
Un progetto scaltrissimo, in cui il nostro Paese avrebbe dovuto recitare il fondamentale ruolo dell'allocco. In primo luogo, infatti, c'erano gli impegni assunti sul tema della difesa comune dall'ex ministro Roberta Pinotti, che la considerava una «sfida fondamentale per l'Europa di oggi» e che sosteneva con convinzione il coinvolgimento di contingenti italiani nel Niger. Non paga, la Pinotti aveva lavorato pure all'istituzione di un Fondo comune per lo sviluppo di tecnologie europee nel campo della sicurezza. A ben guardare, però, Parigi considera sua proprietà quello che in teoria è «comune». Nella vicenda dei cantieri di Saint-Nazaire, ad esempio, l'obiettivo di Macron era chiaramente di impedire a Fincantieri di mettere le mani su un asset strategico, garantendo alla Francia la primazia nella realizzazione della componentistica. Insomma, appalti miliardari per i cugini d'Oltralpe e gli avanzi al gruppo italiano.
Nelle ultime settimane, tuttavia, il radicale cambiamento intervenuto a Palazzo Chigi ha messo a repentaglio il disegno di Monsieur le Président. L'Italia non è più la nazione che baratta il macigno della gestione del primo approdo dei migranti per un po' di flessibilità sui conti. La cancelliera tedesca Angela Merkel è alle prese con gli ultimatum del suo ministro degli Interni, Horst Seehofer, perciò sa di non potersi inimicare troppo Roma e, al contempo, di doversi scontrare con l'opposizione dei cristianodemocratici bavaresi alla creazione del bilancio europeo, promesso a Macron nel bilaterale di Meseberg. A complicare ulteriormente il quadro è intervenuta Elisabetta Trenta, la quale, succeduta alla Pinotti al ministero della Difesa, ha deciso di tenere fuori l'Italia dal programma francese per l'istituzione di una forza d'intervento europea, che doveva rappresentare una tappa essenziale nell'acquisizione, da parte di Parigi, della leadership politico-militare della Ue. Come ha spiegato il blog Gli occhi della guerra, i transalpini impiegavano l'etichetta della «difesa comune europea» per perseguire «un interesse francese declinato nel continente». Ipotesi maliziosa, ma avvalorata dall'adesione entusiasta della Gran Bretagna, che è in uscita dall'Unione e quindi è formalmente distante da scenari di collaborazione che prevedano cessioni di sovranità.
Così, all'improvviso, Macron si presenta indebolito al Consiglio europeo che comincia domani a Bruxelles. Ed è impossibile negare che un governo italiano non più fedele esecutore degli ordini provenienti da centri di potere stranieri è l'attore che ha messo in difficoltà lo stratega dell'Eliseo. Macron è stato spiazzato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale aveva richiesto l'allestimento di hotspot in territorio africano per limitare le partenze e procedere al trasferimento in Europa soltanto di chi poteva effettivamente godere dello status di rifugiato. All'idea di sottrarre alla Francia il controllo esclusivo del Nordafrica, il premier ha infine aggiunto la cosiddetta European multilevel strategy for migration, il cui scopo sarebbe di costringere gli altri Paesi europei a farsi carico dell'esame delle richieste d'asilo di chi sbarca in Italia. Mosse che alla fine hanno costretto Stati finora trincerati, come Spagna e Malta, ad ammettere che è necessario ripensare un sistema dal quale Roma viene penalizzata.
È proprio per mettere i bastoni tra le ruote all'esecutivo gialloblù, che Macron ha deciso di volare da papa Francesco, nella speranza che la Santa Sede chiami a raccolta i cattolici contro le politiche sull'immigrazione di Lega e Movimento 5 stelle. Ma è evidente che al leader transalpino, apparso ultimamente sull'orlo di una crisi di nervi, tra un portavoce sboccato e un'allusione infelice alla «lebbra» del populismo, quello che doveva essere un meccanismo perfetto sta sfuggendo di mano. Al punto che, come rivelato da Dagospia, prima di recarsi dal Pontefice, Macron avrebbe pranzato nella romana Casina Valadier insieme a sua moglie Brigitte e al premier Conte: l'incontro sarebbe servito a eliminare una prima grana, ovvero la situazione della nave Ong Lifeline, cui le autorità maltesi hanno finalmente concesso il diritto di attraccare nell'isola (anche se gli immigrati sono stati trasferiti in Italia).
La riunione del 28 e 29 giugno, in ogni caso, si annuncia tesa e persino inconcludente. Durante la conferenza stampa con il premier spagnolo Pedro Sanchez, la Merkel ha ammesso che su almeno due delle nuove linee guida sull'immigrazione «si deve ancora lavorare»: ciò potrebbe significare che alla fine del vertice di Bruxelles non si otterrà l'unanimità. La sensazione è che, con l'asse Parigi-Berlino scricchiolante e un'Italia che rialza la testa, l'assetto geopolitico del continente si stia fluidificando: l'Europa abbandona le chimere di unificazione e si ricostituisce attorno a intese flessibili, i famosi «accordi bilaterali» che la stessa cancelliera tedesca, due giorni fa, ha evocato in maniera esplicita. Le carte si stanno rimescolando e Macron non resta che tentare un'altra mano.
Alessandro Rico
Il numero uno dell'Eliseo usa da ipocrita la sirena europeista
È durato oltre 50 minuti l'incontro privato tra papa Francesco e il presidente francese Emmanuel Macron in Vaticano, probabilmente l'incontro più lungo tra un presidente e il Papa argentino, simile a quello con Barack Obama. Già questa nota di cronaca sottolinea l'importanza del discorso che i due hanno intrattenuto con al centro i temi dell'immigrazione, l'Africa, l'ambiente e il disarmo, come recita il comunicato della sala stampa della Santa sede. E come era facile prevedere. Con un'«aggiunta» all'agenda del colloquio, dà conto il comunicato vaticano diffuso dopo il secondo incontro di Macron in Vaticano, quello con il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e l'arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati: la «riflessione congiunta circa le prospettive del progetto europeo».
L'incontro tra papa Francesco e il presidente Macron (accompagnato dalla moglie Brigitte in abito nero e chioma raccolta, ma senza veletta) è un banco di prova e una specie di scialuppa di salvataggio per tante agende politiche. Innanzitutto c'è la strategia degli europeisti liberal in grande difficoltà contro i populismi, europeisti che oggi in Vaticano cercano più sponde che in qualsiasi altra cancelleria, compresa ovviamente quella statunitense. Come corollario, sotto i riflettori c'è la politica per gli immigrati, anche se lo stesso Macron, lo sappiamo, tende a predicare bene e a razzolare male. Di immigrazione il presidente francese ha parlato anche ieri mattina con la comunità di Sant'Egidio a Palazzo Farnese, dove ha ipocritamente menzionato i corridoi umanitari come un modello della politica di immigrazione legale, soprattutto per le persone che hanno bisogno di protezione umanitaria. Una questione che è la punta di un iceberg molto più ampio e che riguarda la crisi epocale che sta vivendo l'establishment occidentale di cui Macron è in qualche modo l'ultimo baluardo; alla Chiesa qualcuno vorrebbe chiedere di puntellare questo ordine liberale, oppure semplicemente rassegnarsi alla morte. Infine, et tout se tient, c'è il tentativo del presidente francese di mettersi a caccia del voto cattolico francese, operazione iniziata con enfasi con il discorso furbo che Macron ha tenuto davanti ai vescovi d'oltralpe al Colleges des Bernardins lo scorso 9 aprile.
In linea con questa nouvelle stratégie di avvicinamento al mondo cattolico, Macron nel pomeriggio di ieri ha ricevuto il titolo di protocanonico d'onore dal Capitolo della Basilica di San Giovanni in Laterano. Un'onorificenza riservata a tutti i capi di Stato francesi grazie a una tradizione secolare che risale al re Enrico IV, ma che i presidenti possono anche rifiutare come, non a caso, hanno fatto François Mitterrand, Georges Pompidou e François Hollande.
Il voto cattolico francese è allergico alla sinistra stile François Hollande, deluso dal gollista François Fillon, affascinato, ma non troppo da Marine Le Pen, ha sospeso il giudizio su Macron. Ma il presidente sa molto bene che questa «minoranza» è capace di inaspettate reazioni, come ha chiaramente mostrato la serie di eventi contro la famigerata legge Toubira sul cosiddetto «matrimonio per tutti», eventi che hanno portato milioni di francesi in piazza sotto il comune denominatore della Manif pour tous.
Questa strategia di riconquista del voto cattolico può essere considerata oltre gli stretti confini francesi, se si valuta ciò che rappresenta oggi il presidente Macron a livello internazionale. Il voto italiano ha mostrato una volta in più che i cosiddetti cattolici sono più autonomi di quanto si pensasse, spesso sono ago della bilancia degli equilibri politici, e Dio solo sa quanto il mondo progressista abbia sbeffeggiato le istanze cattoliche e ne stia pagando le conseguenze.
Macron allora prova a spaccare il fronte populista cominciando proprio dal voto cattolico, non solo quello francese, forse considerando i fedeli come la parte più malleabile e pronta ad accodarsi a un eventuale richiamo delle gerarchie. Usa la sirena europeista e una sorta di benedizione morale delle sacre stanze. Come ha fatto davanti ai vescovi di Francia chiama i cattolici a scendere in campo nella politica, utilizza parole suadenti e riconoscibili. Addirittura, un presidente che si appresta ad approvare una estensione della legge sulla Fivet per le coppie di lesbiche e le donne single, davanti ai vescovi chiama il feto con la parola pro life «nascituro». Ma proprio su questa legge, che dovrebbe essere discussa in autunno, potrebbe cadere la maschera di Macron davanti ai cattolici, tanto che il portavoce dei vescovi francesi monsignor Ribadeau Dumas ha detto che se questa legge verrà votata «Macron potrebbe svelare davanti alla comunità un sentimento di doppiezza». Double face, è questo il rischio dell'attivismo del presidente Macron nei confronti del mondo cattolico, lui battezzato a 12 anni ora si professa «agnostico» e aperto alla trascendenza, è figlio legittimo della patria del laicismo e difficilmente la tradirà. E la Chiesa, si ritaglierà davvero solo questo ruolo di presunta stampella dei liberal come molti vorrebbero? La storia insegna che trascinare il popolo di Dio di qua o di là è un operazione che può riservare molte sorprese.
Lorenzo Bertocchi
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Piano fallito, Francia in difficoltà: non ci siamo presi il «pacco» sulla difesa comune.Il presidente francese in Vaticano cerca sponda contro il fronte populista e per i voti cattolici.Lo speciale contiene due articoliEmmanuel Macron aveva un piano: scaricare sull'Italia il peso dei salvataggi dei migranti nel Mediterraneo, contenere i movimenti secondari interni alla Ue, convincere la Germania a una riforma dell'eurozona che mitigasse i rischi per le finanze pubbliche di Parigi, quindi capeggiare il progetto della difesa comune europea, per poi assicurarsi le commesse per la componentistica dei mezzi militari. Un progetto scaltrissimo, in cui il nostro Paese avrebbe dovuto recitare il fondamentale ruolo dell'allocco. In primo luogo, infatti, c'erano gli impegni assunti sul tema della difesa comune dall'ex ministro Roberta Pinotti, che la considerava una «sfida fondamentale per l'Europa di oggi» e che sosteneva con convinzione il coinvolgimento di contingenti italiani nel Niger. Non paga, la Pinotti aveva lavorato pure all'istituzione di un Fondo comune per lo sviluppo di tecnologie europee nel campo della sicurezza. A ben guardare, però, Parigi considera sua proprietà quello che in teoria è «comune». Nella vicenda dei cantieri di Saint-Nazaire, ad esempio, l'obiettivo di Macron era chiaramente di impedire a Fincantieri di mettere le mani su un asset strategico, garantendo alla Francia la primazia nella realizzazione della componentistica. Insomma, appalti miliardari per i cugini d'Oltralpe e gli avanzi al gruppo italiano.Nelle ultime settimane, tuttavia, il radicale cambiamento intervenuto a Palazzo Chigi ha messo a repentaglio il disegno di Monsieur le Président. L'Italia non è più la nazione che baratta il macigno della gestione del primo approdo dei migranti per un po' di flessibilità sui conti. La cancelliera tedesca Angela Merkel è alle prese con gli ultimatum del suo ministro degli Interni, Horst Seehofer, perciò sa di non potersi inimicare troppo Roma e, al contempo, di doversi scontrare con l'opposizione dei cristianodemocratici bavaresi alla creazione del bilancio europeo, promesso a Macron nel bilaterale di Meseberg. A complicare ulteriormente il quadro è intervenuta Elisabetta Trenta, la quale, succeduta alla Pinotti al ministero della Difesa, ha deciso di tenere fuori l'Italia dal programma francese per l'istituzione di una forza d'intervento europea, che doveva rappresentare una tappa essenziale nell'acquisizione, da parte di Parigi, della leadership politico-militare della Ue. Come ha spiegato il blog Gli occhi della guerra, i transalpini impiegavano l'etichetta della «difesa comune europea» per perseguire «un interesse francese declinato nel continente». Ipotesi maliziosa, ma avvalorata dall'adesione entusiasta della Gran Bretagna, che è in uscita dall'Unione e quindi è formalmente distante da scenari di collaborazione che prevedano cessioni di sovranità. Così, all'improvviso, Macron si presenta indebolito al Consiglio europeo che comincia domani a Bruxelles. Ed è impossibile negare che un governo italiano non più fedele esecutore degli ordini provenienti da centri di potere stranieri è l'attore che ha messo in difficoltà lo stratega dell'Eliseo. Macron è stato spiazzato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale aveva richiesto l'allestimento di hotspot in territorio africano per limitare le partenze e procedere al trasferimento in Europa soltanto di chi poteva effettivamente godere dello status di rifugiato. All'idea di sottrarre alla Francia il controllo esclusivo del Nordafrica, il premier ha infine aggiunto la cosiddetta European multilevel strategy for migration, il cui scopo sarebbe di costringere gli altri Paesi europei a farsi carico dell'esame delle richieste d'asilo di chi sbarca in Italia. Mosse che alla fine hanno costretto Stati finora trincerati, come Spagna e Malta, ad ammettere che è necessario ripensare un sistema dal quale Roma viene penalizzata.È proprio per mettere i bastoni tra le ruote all'esecutivo gialloblù, che Macron ha deciso di volare da papa Francesco, nella speranza che la Santa Sede chiami a raccolta i cattolici contro le politiche sull'immigrazione di Lega e Movimento 5 stelle. Ma è evidente che al leader transalpino, apparso ultimamente sull'orlo di una crisi di nervi, tra un portavoce sboccato e un'allusione infelice alla «lebbra» del populismo, quello che doveva essere un meccanismo perfetto sta sfuggendo di mano. Al punto che, come rivelato da Dagospia, prima di recarsi dal Pontefice, Macron avrebbe pranzato nella romana Casina Valadier insieme a sua moglie Brigitte e al premier Conte: l'incontro sarebbe servito a eliminare una prima grana, ovvero la situazione della nave Ong Lifeline, cui le autorità maltesi hanno finalmente concesso il diritto di attraccare nell'isola (anche se gli immigrati sono stati trasferiti in Italia).La riunione del 28 e 29 giugno, in ogni caso, si annuncia tesa e persino inconcludente. Durante la conferenza stampa con il premier spagnolo Pedro Sanchez, la Merkel ha ammesso che su almeno due delle nuove linee guida sull'immigrazione «si deve ancora lavorare»: ciò potrebbe significare che alla fine del vertice di Bruxelles non si otterrà l'unanimità. La sensazione è che, con l'asse Parigi-Berlino scricchiolante e un'Italia che rialza la testa, l'assetto geopolitico del continente si stia fluidificando: l'Europa abbandona le chimere di unificazione e si ricostituisce attorno a intese flessibili, i famosi «accordi bilaterali» che la stessa cancelliera tedesca, due giorni fa, ha evocato in maniera esplicita. Le carte si stanno rimescolando e Macron non resta che tentare un'altra mano. Alessandro Rico<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/piano-fallito-eliseo-in-crisi-di-nervi-con-litalia-non-ci-siamo-presi-il-pacco-sulla-difesa-comune-2581568463.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-numero-uno-delleliseo-usa-da-ipocrita-la-sirena-europeista" data-post-id="2581568463" data-published-at="1766052382" data-use-pagination="False"> Il numero uno dell'Eliseo usa da ipocrita la sirena europeista È durato oltre 50 minuti l'incontro privato tra papa Francesco e il presidente francese Emmanuel Macron in Vaticano, probabilmente l'incontro più lungo tra un presidente e il Papa argentino, simile a quello con Barack Obama. Già questa nota di cronaca sottolinea l'importanza del discorso che i due hanno intrattenuto con al centro i temi dell'immigrazione, l'Africa, l'ambiente e il disarmo, come recita il comunicato della sala stampa della Santa sede. E come era facile prevedere. Con un'«aggiunta» all'agenda del colloquio, dà conto il comunicato vaticano diffuso dopo il secondo incontro di Macron in Vaticano, quello con il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e l'arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati: la «riflessione congiunta circa le prospettive del progetto europeo». L'incontro tra papa Francesco e il presidente Macron (accompagnato dalla moglie Brigitte in abito nero e chioma raccolta, ma senza veletta) è un banco di prova e una specie di scialuppa di salvataggio per tante agende politiche. Innanzitutto c'è la strategia degli europeisti liberal in grande difficoltà contro i populismi, europeisti che oggi in Vaticano cercano più sponde che in qualsiasi altra cancelleria, compresa ovviamente quella statunitense. Come corollario, sotto i riflettori c'è la politica per gli immigrati, anche se lo stesso Macron, lo sappiamo, tende a predicare bene e a razzolare male. Di immigrazione il presidente francese ha parlato anche ieri mattina con la comunità di Sant'Egidio a Palazzo Farnese, dove ha ipocritamente menzionato i corridoi umanitari come un modello della politica di immigrazione legale, soprattutto per le persone che hanno bisogno di protezione umanitaria. Una questione che è la punta di un iceberg molto più ampio e che riguarda la crisi epocale che sta vivendo l'establishment occidentale di cui Macron è in qualche modo l'ultimo baluardo; alla Chiesa qualcuno vorrebbe chiedere di puntellare questo ordine liberale, oppure semplicemente rassegnarsi alla morte. Infine, et tout se tient, c'è il tentativo del presidente francese di mettersi a caccia del voto cattolico francese, operazione iniziata con enfasi con il discorso furbo che Macron ha tenuto davanti ai vescovi d'oltralpe al Colleges des Bernardins lo scorso 9 aprile. In linea con questa nouvelle stratégie di avvicinamento al mondo cattolico, Macron nel pomeriggio di ieri ha ricevuto il titolo di protocanonico d'onore dal Capitolo della Basilica di San Giovanni in Laterano. Un'onorificenza riservata a tutti i capi di Stato francesi grazie a una tradizione secolare che risale al re Enrico IV, ma che i presidenti possono anche rifiutare come, non a caso, hanno fatto François Mitterrand, Georges Pompidou e François Hollande. Il voto cattolico francese è allergico alla sinistra stile François Hollande, deluso dal gollista François Fillon, affascinato, ma non troppo da Marine Le Pen, ha sospeso il giudizio su Macron. Ma il presidente sa molto bene che questa «minoranza» è capace di inaspettate reazioni, come ha chiaramente mostrato la serie di eventi contro la famigerata legge Toubira sul cosiddetto «matrimonio per tutti», eventi che hanno portato milioni di francesi in piazza sotto il comune denominatore della Manif pour tous. Questa strategia di riconquista del voto cattolico può essere considerata oltre gli stretti confini francesi, se si valuta ciò che rappresenta oggi il presidente Macron a livello internazionale. Il voto italiano ha mostrato una volta in più che i cosiddetti cattolici sono più autonomi di quanto si pensasse, spesso sono ago della bilancia degli equilibri politici, e Dio solo sa quanto il mondo progressista abbia sbeffeggiato le istanze cattoliche e ne stia pagando le conseguenze. Macron allora prova a spaccare il fronte populista cominciando proprio dal voto cattolico, non solo quello francese, forse considerando i fedeli come la parte più malleabile e pronta ad accodarsi a un eventuale richiamo delle gerarchie. Usa la sirena europeista e una sorta di benedizione morale delle sacre stanze. Come ha fatto davanti ai vescovi di Francia chiama i cattolici a scendere in campo nella politica, utilizza parole suadenti e riconoscibili. Addirittura, un presidente che si appresta ad approvare una estensione della legge sulla Fivet per le coppie di lesbiche e le donne single, davanti ai vescovi chiama il feto con la parola pro life «nascituro». Ma proprio su questa legge, che dovrebbe essere discussa in autunno, potrebbe cadere la maschera di Macron davanti ai cattolici, tanto che il portavoce dei vescovi francesi monsignor Ribadeau Dumas ha detto che se questa legge verrà votata «Macron potrebbe svelare davanti alla comunità un sentimento di doppiezza». Double face, è questo il rischio dell'attivismo del presidente Macron nei confronti del mondo cattolico, lui battezzato a 12 anni ora si professa «agnostico» e aperto alla trascendenza, è figlio legittimo della patria del laicismo e difficilmente la tradirà. E la Chiesa, si ritaglierà davvero solo questo ruolo di presunta stampella dei liberal come molti vorrebbero? La storia insegna che trascinare il popolo di Dio di qua o di là è un operazione che può riservare molte sorprese. Lorenzo Bertocchi
(IStock)
Novità anche per l’attività delle forze dell’ordine. Un emendamento riformulato dal governo prevede che anche gli interventi di soccorso promossi da polizia e carabinieri, a partire dal prossimo anno, andranno «rimborsati» se risulteranno non «giustificati», ovvero se dietro sarà rinvenuta l’ombra del dolo o della colpa grave di chi è stato soccorso. La stretta era stata già prevista nel testo uscito dal Consiglio dei ministri il 17 ottobre ma era limitata a uomini e mezzi della Guardia di finanza, ora con questa proposta di modifica viene estesa agli interventi effettuati dagli altri due corpi. Dal 2026 la richiesta di aiuto che verrà rivolta a polizia di Stato e Arma dei carabinieri, impegnati nel soccorso alpino e in quello in mare, andrà giustificata e motivata. E se non ci sarà una motivazione adeguata e reale la ricerca, il soccorso e il salvataggio in montagna o in mare diventeranno tutte operazioni a pagamento. Non solo. Il contributo sarà dovuto anche da chi procura, per dolo o colpa grave, un incidente o un evento che richiede l’impiego di uomini e mezzi appartenenti alla polizia di Stato e all’Arma. L’importo sarà stabilito con decreti dal ministro dell’Interno e da quello della Difesa, di concerto con l’Economia. L’emendamento precisa, infine, che «il corrispettivo è dovuto qualora l’evento per il quale è stato effettuato l’intervento sia imputabile a dolo o colpa grave dell’agente».
Nessuna novità, invece, per maggiori fondi, che restano rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura d’infrazione. I sindacati di polizia continuano a martellare l’esecutivo dicendo che «per il governo la sicurezza è uno slogan adatto ai discorsi pubblici ma non è una priorità quando si tratta di mettere in campo risorse concrete». In una lettera inviata da Sap, Coisp-Mosap, Fsp Polizia, Silp-Cgil al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si attacca «l’ipotesi di un innalzamento dell’età pensionabile, inaccettabile per chi ha trascorso una vita professionale tra rischi e responsabilità enormi e si pretende di allungare ulteriormente la carriera dei poliziotti senza alcun confronto con i sindacati». Per i sindacati è anche «grave, lo stanziamento simbolico di appena 20 milioni di euro per la previdenza dedicata. Una cifra che condanna molti a pensioni indegne dopo una vita spesa al servizio dello Stato».
Intanto hanno avuto il via libera in commissione Bilancio una serie di modifiche alla manovra sui temi di interesse comune alla maggioranza e all’opposizione in materia di enti locali e calamità naturali. In totale sono 64 gli emendamenti. Tra questi, la possibilità di assumere a tempo indeterminato il personale in servizio presso gli Uffici speciali per la ricostruzione e che abbia maturato almeno tre anni di servizio. Arriva anche un contributo di 2,5 milioni per il 2026 per il disagio abitativo finalizzato alla ricostruzione per i territori colpiti dai terremoti in Marche e Umbria.
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha sottolineato i maggiori fondi per la sanità. «Sul fronte del personale», ha detto, ci sono degli aumenti importanti e delle assunzioni aggiuntive. Le Regioni possono assumere con il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra di loro».
Soddisfatto il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani. La manovra, infatti, contiene +7,4 miliardi per il Fondo sanitario nazionale e un ulteriore +0,1% che consente di far scendere il payback a carico delle aziende farmaceutiche. «Il segnale è ampiamente positivo», ha commentato Cattani.
Intanto ieri alla Camera, nel dibattito sulle comunicazioni alla vigilia del Consiglio europeo, c’è stato un botta e risposta tra la segretaria del Pd, Elly Schlein, e Meloni. Tema: le tasse e la manovra. «La pressione fiscale sale perché sale il gettito fiscale certo anche grazie al fatto che oggi lavora un milione di persone in più che pagano le tasse», ha detto il premier. E a fronte del rumoreggiamento dell’Aula, ha incalzato: «Se volete facciamo un simposio ma siccome siamo in Parlamento le cose o si dicono come stanno o si studia».
Ma per Schlein «le tasse aumentano per il drenaggio fiscale». Il premier ha, poi, ribadito che la manovra «è seria» e che «l’Italia ha ampiamente pagato in termini reputazionali, e non solo, le allegre politiche degli anni passati».
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Il direttore di Limes, Lucio Caracciolo (Imagoeconomica)
«A tutto c’è un Limes». E i professoroni se ne sono andati sbattendo la porta, accompagnati dal generale con le stellette e dall’eco della marcetta militare mediatica tutta grancassa e tromboni, a sottolineare come fosse democratica e dixie la ritirata strategica da quel covo di «putiniani sfegatati». La vicenda con al centro la guerra in Ucraina merita un approfondimento perché è paradigmatica di una polarizzazione che non lascia scampo a chi semplicemente intende approfondire i fatti. Nell’era del pensiero igienista, ogni contatto con il nemico e ogni lettura (anche critica) dei testi che egli produce sono considerati contaminanti.
Già la narrazione lascia perplessi e l’uscita dei martiri da un consiglio scientifico che vede nelle sue file Enrico Letta, Romano Prodi, Andrea Riccardi, Angelo Panebianco, Federico Fubini (atlantisti di ferro più che compagni di merende dello zar) indebolisce le ragioni dei transfughi. Se poi si aggiunge che in cima al comitato dei saggi della rivista campeggia il nome di Rosario Aitala - il giudice della Corte penale internazionale che due anni fa firmò un mandato di cattura per Vladimir Putin - ecco che le motivazioni del commando in doppiopetto si scaricano in fretta come le batterie dell’auto full electric guidata da Ursula von der Leyen.
Eppure Federico Argentieri (studioso di affari europei), Franz Gustincich (giornalista e fotografo), Giorgio Arfaras (economista) e Vincenzo Camporini (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) hanno preso la porta e hanno salutato Lucio Caracciolo con parole stizzite per «incompatibilità con la linea politica». Avvertivano una «nube tossica» aleggiare su Limes. Evidentemente non sopportavano che ogni dieci analisi filo-occidentali ce ne fossero un paio dedicate alle ragioni russe. Un’accusa pretestuosa al mensile di geopolitica più importante d’Italia e a uno storico direttore che in 30 anni si è guadagnato prestigio e indipendenza pur rimanendo nell’alveo del grande fiume navigabile (e spesso limaccioso) della sinistra culturale.
«Io quelli che se ne sono andati non li ho mai visti. Chi ci accusa di essere filorusso non ha mai sfogliato la rivista», ha dichiarato il giornalista Mirko Mussetti a Radio Cusano Campus. Dietro le rumorose dimissioni ci sarebbero cause tutt’altro che culturali, forse di opportunità. Arfaras è marito della giornalista russa naturalizzata italiana Anna Zafesova, studiosa del putinismo, firma della Stampa e voce di Radio Radicale. Il generale Camporini ha solidi interessi politici: già candidato di + Europa, è passato con Carlo Calenda e ha tentato invano la scalata all’Europarlamento. Oggi è responsabile della difesa dell’eurolirica Azione. La tempistica della fibrillazione è sospetta e chiama in causa anche le strategie editoriali. Limes fa parte del gruppo Gedi messo in vendita (in blocco o come spezzatino) da John Elkann; la rivista è solida, quindi obiettivo di qualcuno che potrebbe avere interesse a destabilizzarne la catena di comando.
Ieri Caracciolo ha replicato ai transfughi sottolineando che «la notizia è largamente sopravvalutata». Lo è anche in chiave numerica, visto che i consiglieri (fra scientifici e redazionali) sono un esercito: 106, ben più dei giornalisti che lavorano. Parlando con Il Fatto Quotidiano, il direttore ha aggiunto: «Noi siamo una rivista di geopolitica. Occorre analizzare i conflitti e ascoltare tutte le voci, anche le più lontane. Non possiamo metterci da una parte contro l’altra ma essere aperti a punti di vista diversi. Pubblicare non significa condividere il punto di vista dell’uno o dell’altro».
Argentieri lo ha messo sulla graticola con un paio di motivazioni surreali: avrebbe sbagliato a prevedere l’invasione russa nel febbraio 2022 («Non la faranno mai») e continua a colorare la Crimea come territorio russo sulle mappe, firmate dalla formidabile Laura Canali. Caracciolo non si scompone: «Avevo detto che se Putin avesse invaso l’Ucraina avrebbe fatto una follia. Pensavo che non l’avrebbe fatta, ho sbagliato, mi succede. Non capisco perché a distanza di tempo questo debba provocare le dimissioni». Capitolo cartina: «Chiunque sbarchi a Sebastopoli si accorge che si trova in Russia e non in Ucraina; per dichiarazione dello stesso Zelensky gli ucraini non sono in grado di recuperare quei territori».
Gli analisti lavorano sullo stato di fatto, non sui desiderata dei «Volenterosi» guidati da Bruxelles, ai quali i media italiani hanno srotolato i tradizionali tappetini. E ancora convinti come Napoleone e Hitler che la Russia vada sconfitta sul campo. Se Limes non ha creduto che Putin si curava con il sangue di bue; che uno degli eserciti più potenti del mondo combatteva con le pale; che Mosca era ridotta a usare i microchip delle lavatrici per far volare i missili, il problema non è suo ma di chi si è appiattito sulla retorica dopo aver studiato la Storia sui «Classici Audacia» a fumetti. Nel febbraio del 2024 Limes titolava: «Stiamo perdendo la guerra». Aveva ragione, notizia ruvidamente fattuale. La disinformazione da nube tossica aleggia altrove.
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Il nuovo numero di Polizia Moderna con Annalisa Bucchieri, Cristina Di Lucente assistente Capo coordinatore. Mauro Valeri ispettore, Cristiano Morabito Sovrintendente capo tecnico coordinatore.
Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni ed Elly Schlein (Ansa)
E ieri questo enorme divario si è fatto sentire ancor più forte in Aula. Il campo largo, ormai pieno di buche e pozzanghere, si è sfasciato anche sulla politica estera. In vista del Consiglio europeo il presidente del Consiglio ha tenuto le sue comunicazioni. La maggioranza si è presentata compatta con una risoluzione unica. Le opposizioni avevano cinque testi. Più che un campo largo, un campo sparso.
Divisi su tutti i dossier internazionali. Le distanze tra M5s e Pd sono abissali. Il dato politico è lampante: Avs, Più Europa, Azione, Italia viva, Pd, M5s sono sempre più come l’armata Brancaleone. Ognun per sé, nessun per tutti.
In tema di Ucraina, Pd e M5s sono spaccati sugli aiuti a Kiev. La Schlein vuole che continuino, mentre Conte ne chiede la sospensione. E poi ancora il Pd (area riformista) spinge per l’utilizzo degli asset russi congelati (210 miliardi) in aiuto a Kiev, il M5s dice no e anzi chiede di sospendere le sanzioni contro Putin. Schlein e Conte litigano anche su Trump. Il M5s spinge per il «piano Trump» per la pace in Ucraina. La risposta di Schlein? «La pace per Kiev non sia delegata a una telefonata Trump-Putin».
Ma risultano divisi anche Avs, Italia viva e Azione. Il partito di Calenda è il più filo ucraino e chiede che Ue e Italia restino al fianco del popolo ucraino per una pace giusta. Avs si accoda al M5s e propone lo stop agli aiuti militari per Zelensky. Ogni sostegno economico, politico e militare all’Ucraina, anche con l’utilizzo degli asset russi, è invece la posizione di Più Europa, condivisa con Italia viva e Azione.
Poi il Medio Oriente. Nella risoluzione Pd c’è la richiesta di riconoscere lo Stato di Palestina e sospendere il memorandum tra Italia e Israele. M5s e Avs accusano di genocidio il governo israeliano ignorando l’antisemitismo dilagante.
Terzo tema, il piano di riarmo europeo. Il Pd dice no al potenziamento degli eserciti nazionali e sì al piano della difesa comune europea. Avs e M5s bocciano la difesa comune europea. Italia viva e Azione appoggiano la linea europea sul riarmo.
Infine, che il campo largo sia solo un’illusione lo dimostra anche il caso di Alessandra Moretti finita nell’inchiesta Qatargate. Il Parlamento europeo vota a favore della revoca dell’immunità all’europarlamentare del Pd. Grazie al M5s che dà in pasto la compagna dem al temutissimo sistema giudiziario belga.
L’alleanza tra Pd e M5s è un vero bluff e l’intervento di Giuseppe Conte ad Atreju lo ha sottoscritto. «Non siamo alleati con nessuno». Tradotto: capotavola è dove mi siedo io. Altro che campo largo, abbiamo capito che lui giocherà da solo. E lo stesso farà la Schlein. Ad Atreju, come anche ieri in aula, Conte si è ripreso la scena. Ha lanciato la sfida al Pd ormai malconcio, privo di una direzione politica e incapace di imporsi come baricentro dell’opposizione.
Ieri abbiamo definitivamente capito che il campo largo non esiste. Conte non ci sta ad essere comandato da una segretaria del Pd ancora politicamente acerba, comunicativamente incapace e schiacciata dalle correnti del suo stesso partito. I sondaggi dicono che perfino molti elettori del Pd lo preferirebbero come candidato premier e lui ci crede. Il campo largo per lui è una gabbia dalla quale uscire.
Anche se in maniera piuttosto discutibile, è comunque stato per due volte premier. E tanto gli basta per sentirsi ancora il leader. In politica estera parte molto avvantaggiato rispetto alla Schlein che non conosce nessuno. Ha già un rapporto privilegiato con l’amministrazione Trump e con le cancellerie europee, che la Schlein isolazionista non sa neppure dove si trovino.
La realtà racconta di un centrodestra compatto e di una sinistra che si logora giorno dopo giorno in una guerra intestina per la leadership dell’opposizione. Una sinistra che si interroga su chi comandi, con «alleati» che si smentiscono continuamente. Nel centrodestra è tutto chiaro, da sempre: se si vince, il leader del partito che prende più voti fa il premier. Nel centrosinistra, invece, è un caos, come al solito.
Tutti balleranno da soli, come stanno già facendo, un valzer che ricorda l’ultimo ballo sul Titanic.
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