2023-01-18
Pfizer e il governo tedesco pretendevano da Twitter perfino la censura sui prezzi
Albert Bourla, ceo di Pfizer (Getty Images)
Nel mirino la campagna che chiedeva la rinuncia all’esclusiva sui brevetti per aiutare le nazioni povere. Mentre dire che un vaccinato può contagiare era definito fake news.Qualche giorno fa, grazie alle carte tirate fuori dal nuovo proprietario di Twitter, Elon Musk, si è scoperto che un membro del cda di Pfizer, Scott Gottlieb, faceva pressione sul social affinché censurasse post critici sui vaccini, benché scientificamente fondatissimi. Adesso, grazie al lavoro del giornalista investigativo Lee Fang, apprendiamo che Big pharma voleva impedire anche la circolazione di contenuti nei quali si contestavano i prezzi elevati di quei farmaci. Costi insostenibili per i Paesi del Terzo mondo, che rischiavano di rimanere esclusi dalle forniture di rimedi anti Covid.Nel dicembre del 2020, Nina Morschhaeuser, una lobbista della piattaforma social in Europa, aveva scritto ai suoi colleghi per avvisarli che Biontech (partner di Pfizer, ideatrice del Comirnaty) e il governo tedesco l’avevano contattata allarmati. Cosa stava per succedere di tanto grave da mobilitare Berlino? Il timore era che stesse partendo una «campagna» ai danni delle case farmaceutiche artefici dei vaccini. «Le autorità», annotava Morschhaeuser, mettevano «in guardia su “conseguenze serie”» che potevano derivare dall’offensiva. La temibile crociata, tuttavia, non mirava a spargere fake news. Gli attivisti volevano promuovere la rinuncia all’esclusiva sui brevetti per i medicinali, così le nazioni povere avrebbero potuto fabbricarli per conto proprio. La richiesta dei produttori a Twitter era contenuta nell’email inoltrata dalla Morschhaeuser, vergata in tedesco da una portavoce di Biontech, Jasmina Alatovic: bisognava «nascondere» i post che prendevano di mira l’azienda. Tra le pagine da proteggere dagli attacchi c’erano quelle di Pfizer e Biontech, ma pure quelle dei concorrenti, Moderna e Astrazeneca, insieme ad alcuni hashtag: #PeoplesVaccine e #JoinCtap. Stiamo parlando del Covid-19 technology access pool, un programma dell’Oms volto ad accelerare la realizzazione dei vaccini nei Paesi indigenti, grazie alla condivisione di risultati delle ricerche e infrastrutture industriali. Dai leak interni, parrebbe che il team che si occupava di sicurezza per il network si fosse reso conto che serviva qualche elemento più robusto, per passare all’azione. Fatto sta che le bizzarrie non sono mancate. Holger Kersting, rappresentante di Twitter in Germania, aveva individuato, tra i post da oscurare, quello di tale Terry Brough. Stando alle verifiche condotte da Feng, costui sarebbe un signore di 74 anni, ex operaio, residente nei dintorni di Liverpool. Evidentemente, per suscitare apprensione era bastato il suo invito, rivolto a Pfizer, Moderna e Astrazeneca, a condividere la tecnologia dei vaccini con «i Paesi poveri». Roba da buon costume... O meglio, da psicopolizia orwelliana.Allo scopo di blindare il business delle fiale, le case farmaceutiche hanno profuso notevoli sforzi. Il Bureau of investigative journalism, lo scorso novembre, ha pubblicato su Politico un ampio report, dal quale emergevano addirittura «minacce» dei produttori agli Stati. Come quella di Johnson&Johnson, che aveva intimato al Belgio di non spalleggiare la proposta di esenzione dal rispetto della proprietà intellettuale sui vaccini, portata al Wto da India e Sudafrica. Pena, la cancellazione degli investimenti nella patria delle birre trappiste. Sono stati documentati interventi simili sulla Casa Bianca e sulla cancelleria tedesca: l’obiettivo era evitare che fosse permessa la realizzazione di un medicinale generico. Washington, in realtà, ha presto voltato le spalle a Big pharma, ma la pratica si è arenata all’Organizzazione mondiale del commercio. Nel frattempo, i colossi del farmaco, attraverso la lobby Biotechnology innovation organization (Bio), sovvenzionata pure da Pfizer e Moderna, avevano fatto versare 1.275.000 dollari a Stronger, l’iniziativa per combattere la disinformazione della non profit Public good projects. Quest’ultima era in contatto con i funzionari di Twitter, incluso Todd O’Boyle, il tramite tra la piattaforma e l’amministrazione Usa, già coinvolto nel caso Gottlieb. Alla fine, nel novero dei post segnalati da Stronger, accanto a deliri sui microchip nelle dosi, sono finite altresì delle critiche più che ragionevoli al green pass. In uno dei tweet si leggeva: «Se un vaccinato e un non vaccinato hanno all’incirca la stessa probabilità di trasmettere il virus, specie nella variante Delta, che differenza fa, per la diffusione del virus, imporre un passaporto vaccinale?». Puro buon senso, scambiato per eversione.L’industria, preoccupata dalle «bufale» altrui, non era altrettanto solerte con le proprie. Per esempio, nessuno si è mai premurato di denunciare il tweet di un altro «sindacato» dei capitalisti, Phrma, che senza alcuna prova paventava la perdita di 4,4 milioni di posti di lavoro, qualora fosse stato introdotto un vaccino equivalente. E c’è voluta un’authority inglese per bollare come «fuorvianti» le frasi alla Bbc del ceo di Pfizer, Albert Bourla, sulla necessità di vaccinare i bimbi, perché altrimenti, se contagiati, avrebbero patito «sintomi gravi». La vendita degli shot è fruttata miliardi: nel 2021, 37 per Pfizer e quasi 18 per Moderna, che poi hanno entrambe alzato i prezzi. Sarà per questo che, ormai, è diventato lecito allentare la presa. La bozza di riforma del Regolamento sanitario internazionale, di cui La Verità ha parlato ieri, fa spesso riferimento alla necessità di condividere «tecnologia» e «capacità di fabbricazione» con i «Paesi in via di sviluppo». Il documento, però, evoca pure dei piani per contrastare la «disinformazione». Per carità: è giusto promuovere una corretta comunicazione. Ma oltre all’influsso dei ciarlatani, bisognerebbe guardarsi dalla manina di chi - tipo le case farmaceutiche - è in palese conflitto d’interessi. E briga per tutelarli. Voi chiedereste all’oste di stabilire se il suo vino è buono?
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)