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2022-05-27
I pescatori dell’Adriatico fermano le barche. Sarà un’estate senza pesce
Qualcosa di buono c’è: la dimostrazione che le roboanti proclamazioni dell’anno di… sono una presa in giro. Sì deve sapere che l’Onu e anche la Fao hanno proclamato il 2022 anno internazionale della pesca e dell’acquacoltura. Si sono accorti che mezzo mondo campa di pesce. Dovrebbero spiegarlo ai pescatori di Ancona che ieri hanno bloccato il porto con un corteo di protesta, a quelli dell’Adriatico - dalle Marche alla Puglia - che da una settimana non vanno in mare strozzati dal caro gasolio. Il movimento di protesta sta montando in tutti i porti d’Italia e porterà, se la situazione non si risolve, alla serrata totale delle marinerie. Lo avevano già fatto a marzo, sono pronti a rifarlo adesso perché non riescono più a sopportare i costi. Ovviamente nessuno gli risponde, ma attenzione perché questa «protesta a strascico» può far saltare anche una parte del fatturato turistico.
Ora hanno altro a cui pensare al governo: ci sono da privatizzare gli arenili, figurati se si possono occupare di quello che accade nel mare. E però farebbero bene a darci un’occhiata. Da una settimana le barche dell’Adriatico, che è il mare più pescoso tra i nostri, sono ferme all’ormeggio. Non ce la fanno più. Troppo alti i costi, troppo forte la concorrenza straniera, troppe le tasse. La crisi della nostra pesca parte da lontano. È almeno dal 2008 che ogni anno perdiamo circa il 5% del pescato e della flotta, ma è successo tutto in silenzio. Del resto loro stanno in alto mare. La situazione delle flotte pescherecce è disastrosa. Ad Ancona ieri gli armatori che hanno protestato fin sotto la prefettura e hanno chiesto - consegnando un dossier al prefetto Darco Pellos - un incontro con i ministri Stefano Patuanelli (Agricoltura) e Daniele Franco (Economia) con la mediazione di Luciana Lamorgese (Interni) per evitare che una serrata pacifica diventi una protesta rabbiosa. Ovviamente nessuno se li è filati. Ora tutto l’Adriatico è all’ormeggio. Ieri lo scalo dorico è stato bloccato per un paio d’ore. C’erano delegazioni delle flotte di Gaeta, di San Benedetto (due sere fa si sono rischiati scontri in porto), di Vasto e di Pescara da dove la serrata è partita quattro giorni fa. A Termoli c’è stato un sit in, a Selinunte tornano a farsi sentire gli armatori, ma anche la piccola pesca.
La serrata delle reti si sta allargando anche al Tirreno. Mercoledì notte a Porto Santo Stefano, nel grossetano, è arrivata una delegazione di cento armatori dei porti adriatici e del Sud e lì è stato stretto un patto tra tutte le marinerie. O arrivano risposte dal governo sul caro gasolio o non si va più in mare. La situazione la spiega bene Apollinare Lazzari, che guida l’Associazione produttori e pescatori di Ancona: «Ora paghiamo il carburante 1 euro e 20 centesimi al litro, una barca ne consuma sui 3.000 litri al giorno. Ed è chiaro che così non si può andare avanti. Noi, a differenza di altre imprese, non possiamo scaricare il costo sul prodotto. A noi serve un aiuto diretto, immediato; non chiediamo sconti o altre agevolazioni, ci occorre soltanto che il gasolio non superi un certo prezzo così da poter lavorare». Insomma più che un decreto aiuti lanciano proprio un Sos.
Il blocco delle paranze è faccenda che ricade direttamente anche sull’economia turistica del mare. È vero che con la privatizzazione delle spiagge il governo sembra intenzionato a non preoccuparsi dell’attrattiva mare, ma chi ha ristoranti nei luoghi di vacanza qualche problema se lo pone. Se Moreno Cedroni, due stelle Michelin incantevole il suo Clandestino nello specchio di mare del Conero, è disperato perché non trova personale, Marco Cupido, anche lui marchigiano, alla Degusteria è incerto se continuare a servire il fritto misto: «Con l’olio di girasole (causa guerra in Ucraina, ndr) passato da 90 centesimi a 3 euro al litro e il prezzo del pesce quasi raddoppiato, il fritto è diventato un piatto da ricchi». Ma anche gli sciatt in Val Chiavenna sono a rischio per il caro frittura.
Il pesce rischia di diventare merce rarissima. Gli italiani nel corso degli anni hanno continuato ad aumentare la quota di pescato consumato. Siamo a 29 chili a testa (la media europea è a 26, ma lontanissimi da Portogallo e Spagna che viaggiano sul mezzo quintale), ma il nostro ci basta per un mese. Sì, è così. Nonostante gli 8.500 chilometri di costa, la cattura di pesce italiano è pari a 193.000 tonnellate per un fatturato che sta sotto i 700 milioni di euro. L’acquacoltura, che è in sviluppo ed è comunque la migliore del mondo, soccorre con altre 157.000 tonnellate. Tutto il resto - e sono oltre 1 milione e 300.000 tonnellate - viene dall’estero, in particolare da Spagna (23%), Paesi Bassi (5,3%), Grecia e Regno Unito, ma quasi la metà viene da fuori Europa: fanno festa Thailandia, Cina ed Equador. La ragione? I giapponesi ci hanno fatto fuori tutti i tonni, non proteggiamo le nostre aree di pesca nei nostri mari fanno strascico tutti e la nostra marineria muore ogni anno di più.
Come si legge nel rapporto poliennale del ministero dell’Agricoltura (competente) che vale fino al prossimo anno: «Utilizzando il 2004 come anno di riferimento base, si registra una evidente e costante contrazione nella consistenza della flotta, che passa dai 14.873 battelli del 2004 agli 11.926 del 2020, registrando quindi un calo complessivo superiore ai 2.900 motopesca». A reggere sono rimaste le barche della piccola pesca, i pensionati del mare. Ah sia detto per inciso. Sono quelli che ormeggiano ai moletti degli stabilimenti balneari. In attesa che in nome della Bolkestein qualcuno li sfratti.
Ue sempre in panne sulle sanzioni: «Più si va avanti, più è difficile»
Sulle sanzioni a Mosca l’Europa appare più divisa che mai e i «pacchetti» già predisposti per indebolire Vladimir Putin stentano a decollare. Lo stesso dicasi per le ipotizzate, future sanzioni. Del resto, più si va avanti nell’inasprimento delle misure, più la situazione diventa divisiva, perché ogni Stato membro ha i suoi interessi da salvaguardare ma anche perché qualcuno comincia ad accorgersi che una sanzione che si rispetti dovrebbe danneggiare più chi la riceve che chi la dispone. Se ne è reso conto il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, rimarcando come l'Europa, che era partita con l’idea di bloccare del tutto il petrolio e il gas russi, potrà arrivare solo a un compromesso. «Si tratta di un problema etico gigantesco perché sappiamo bene che il Pil della Russia è basato sull’export di energia: alla fine la Commissione troverà una via d’uscita, che comunque sarà un compromesso».
I continui tira e molla tra membri dell’Europa «unita» non sfuggono a nessuna delle parti, tanto che il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, pur rispondendo al presidente Volodymyr Zelensky (il quale rimarcava la mancanza di unità in Europa sulla posizione da prendere nei confronti della guerra) che «l’unità europea è stata notevole e questo dovrebbe essere anche il piano per il futuro», ha dovuto poi aggiungere che comunque «più andremo avanti nelle sanzioni, più sarà difficile, poiché ci sono realtà diverse nei diversi Paesi membri».
L’imbarazzo è palpabile e sta venendo a galla una realtà forse prevedibile: imprese e realtà economiche di vari Paesi europei non vogliono rispettare le sanzioni che danneggiano più loro che il «nemico», quindi stanno mettendo in moto strategie volte ad aggirarle. L’esecutivo comunitario è stato costretto a correre ai ripari, proponendo di aggiungere la violazione delle misure restrittive all’elenco dei reati Ue. È dunque in preparazione la Direttiva sulle sanzioni penali, dove saranno elencati reati come «intraprendere azioni o attività volte ad aggirare direttamente o indirettamente le sanzioni, anche occultando attività», «non congelare fondi appartenenti, detenuti o controllati da una persona/entità» oggetto di sanzioni o «intraprendere operazioni, quali l’importazione o l’esportazione di merci soggette a divieti commerciali».
La strada per concordare il sesto pacchetto di sanzioni contro la Federazione Russa - compreso appunto l’embargo sui prodotti petroliferi - ma anche quella per preparare un settimo pacchetto, appare dunque tutta in salita. «L’Unione europea può ancora trovare un accordo sull’embargo per il petrolio russo nei prossimi giorni o ricorrere ad altri strumenti», ha detto fiducioso il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck. Finora, però, i colloqui all’interno dell’Ue sulla proposta di embargo non hanno portato a una svolta, con l’Ungheria che ha posto un veto. Tra cinque giorni ci sarà il prossimo Consiglio della Ue ma l’accordo sembra lontano anni luce. Resta da vedere quali siano gli «altri strumenti» menzionati dalla Germania.
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Serrata per protestare contro i rincari del gasolio. E lo stop inizia a estendersi pure al mar Tirreno. Il blocco delle forniture finirà per danneggiare anche il turismo.Roberta Metsola ammette la mancanza di unità sulle sanzioni. Roberto Cingolani: «Ci sarà un compromesso».Lo speciale contiene due articoli.Qualcosa di buono c’è: la dimostrazione che le roboanti proclamazioni dell’anno di… sono una presa in giro. Sì deve sapere che l’Onu e anche la Fao hanno proclamato il 2022 anno internazionale della pesca e dell’acquacoltura. Si sono accorti che mezzo mondo campa di pesce. Dovrebbero spiegarlo ai pescatori di Ancona che ieri hanno bloccato il porto con un corteo di protesta, a quelli dell’Adriatico - dalle Marche alla Puglia - che da una settimana non vanno in mare strozzati dal caro gasolio. Il movimento di protesta sta montando in tutti i porti d’Italia e porterà, se la situazione non si risolve, alla serrata totale delle marinerie. Lo avevano già fatto a marzo, sono pronti a rifarlo adesso perché non riescono più a sopportare i costi. Ovviamente nessuno gli risponde, ma attenzione perché questa «protesta a strascico» può far saltare anche una parte del fatturato turistico. Ora hanno altro a cui pensare al governo: ci sono da privatizzare gli arenili, figurati se si possono occupare di quello che accade nel mare. E però farebbero bene a darci un’occhiata. Da una settimana le barche dell’Adriatico, che è il mare più pescoso tra i nostri, sono ferme all’ormeggio. Non ce la fanno più. Troppo alti i costi, troppo forte la concorrenza straniera, troppe le tasse. La crisi della nostra pesca parte da lontano. È almeno dal 2008 che ogni anno perdiamo circa il 5% del pescato e della flotta, ma è successo tutto in silenzio. Del resto loro stanno in alto mare. La situazione delle flotte pescherecce è disastrosa. Ad Ancona ieri gli armatori che hanno protestato fin sotto la prefettura e hanno chiesto - consegnando un dossier al prefetto Darco Pellos - un incontro con i ministri Stefano Patuanelli (Agricoltura) e Daniele Franco (Economia) con la mediazione di Luciana Lamorgese (Interni) per evitare che una serrata pacifica diventi una protesta rabbiosa. Ovviamente nessuno se li è filati. Ora tutto l’Adriatico è all’ormeggio. Ieri lo scalo dorico è stato bloccato per un paio d’ore. C’erano delegazioni delle flotte di Gaeta, di San Benedetto (due sere fa si sono rischiati scontri in porto), di Vasto e di Pescara da dove la serrata è partita quattro giorni fa. A Termoli c’è stato un sit in, a Selinunte tornano a farsi sentire gli armatori, ma anche la piccola pesca. La serrata delle reti si sta allargando anche al Tirreno. Mercoledì notte a Porto Santo Stefano, nel grossetano, è arrivata una delegazione di cento armatori dei porti adriatici e del Sud e lì è stato stretto un patto tra tutte le marinerie. O arrivano risposte dal governo sul caro gasolio o non si va più in mare. La situazione la spiega bene Apollinare Lazzari, che guida l’Associazione produttori e pescatori di Ancona: «Ora paghiamo il carburante 1 euro e 20 centesimi al litro, una barca ne consuma sui 3.000 litri al giorno. Ed è chiaro che così non si può andare avanti. Noi, a differenza di altre imprese, non possiamo scaricare il costo sul prodotto. A noi serve un aiuto diretto, immediato; non chiediamo sconti o altre agevolazioni, ci occorre soltanto che il gasolio non superi un certo prezzo così da poter lavorare». Insomma più che un decreto aiuti lanciano proprio un Sos. Il blocco delle paranze è faccenda che ricade direttamente anche sull’economia turistica del mare. È vero che con la privatizzazione delle spiagge il governo sembra intenzionato a non preoccuparsi dell’attrattiva mare, ma chi ha ristoranti nei luoghi di vacanza qualche problema se lo pone. Se Moreno Cedroni, due stelle Michelin incantevole il suo Clandestino nello specchio di mare del Conero, è disperato perché non trova personale, Marco Cupido, anche lui marchigiano, alla Degusteria è incerto se continuare a servire il fritto misto: «Con l’olio di girasole (causa guerra in Ucraina, ndr) passato da 90 centesimi a 3 euro al litro e il prezzo del pesce quasi raddoppiato, il fritto è diventato un piatto da ricchi». Ma anche gli sciatt in Val Chiavenna sono a rischio per il caro frittura. Il pesce rischia di diventare merce rarissima. Gli italiani nel corso degli anni hanno continuato ad aumentare la quota di pescato consumato. Siamo a 29 chili a testa (la media europea è a 26, ma lontanissimi da Portogallo e Spagna che viaggiano sul mezzo quintale), ma il nostro ci basta per un mese. Sì, è così. Nonostante gli 8.500 chilometri di costa, la cattura di pesce italiano è pari a 193.000 tonnellate per un fatturato che sta sotto i 700 milioni di euro. L’acquacoltura, che è in sviluppo ed è comunque la migliore del mondo, soccorre con altre 157.000 tonnellate. Tutto il resto - e sono oltre 1 milione e 300.000 tonnellate - viene dall’estero, in particolare da Spagna (23%), Paesi Bassi (5,3%), Grecia e Regno Unito, ma quasi la metà viene da fuori Europa: fanno festa Thailandia, Cina ed Equador. La ragione? I giapponesi ci hanno fatto fuori tutti i tonni, non proteggiamo le nostre aree di pesca nei nostri mari fanno strascico tutti e la nostra marineria muore ogni anno di più. Come si legge nel rapporto poliennale del ministero dell’Agricoltura (competente) che vale fino al prossimo anno: «Utilizzando il 2004 come anno di riferimento base, si registra una evidente e costante contrazione nella consistenza della flotta, che passa dai 14.873 battelli del 2004 agli 11.926 del 2020, registrando quindi un calo complessivo superiore ai 2.900 motopesca». A reggere sono rimaste le barche della piccola pesca, i pensionati del mare. Ah sia detto per inciso. Sono quelli che ormeggiano ai moletti degli stabilimenti balneari. 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Del resto, più si va avanti nell’inasprimento delle misure, più la situazione diventa divisiva, perché ogni Stato membro ha i suoi interessi da salvaguardare ma anche perché qualcuno comincia ad accorgersi che una sanzione che si rispetti dovrebbe danneggiare più chi la riceve che chi la dispone. Se ne è reso conto il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, rimarcando come l'Europa, che era partita con l’idea di bloccare del tutto il petrolio e il gas russi, potrà arrivare solo a un compromesso. «Si tratta di un problema etico gigantesco perché sappiamo bene che il Pil della Russia è basato sull’export di energia: alla fine la Commissione troverà una via d’uscita, che comunque sarà un compromesso». I continui tira e molla tra membri dell’Europa «unita» non sfuggono a nessuna delle parti, tanto che il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, pur rispondendo al presidente Volodymyr Zelensky (il quale rimarcava la mancanza di unità in Europa sulla posizione da prendere nei confronti della guerra) che «l’unità europea è stata notevole e questo dovrebbe essere anche il piano per il futuro», ha dovuto poi aggiungere che comunque «più andremo avanti nelle sanzioni, più sarà difficile, poiché ci sono realtà diverse nei diversi Paesi membri». L’imbarazzo è palpabile e sta venendo a galla una realtà forse prevedibile: imprese e realtà economiche di vari Paesi europei non vogliono rispettare le sanzioni che danneggiano più loro che il «nemico», quindi stanno mettendo in moto strategie volte ad aggirarle. L’esecutivo comunitario è stato costretto a correre ai ripari, proponendo di aggiungere la violazione delle misure restrittive all’elenco dei reati Ue. È dunque in preparazione la Direttiva sulle sanzioni penali, dove saranno elencati reati come «intraprendere azioni o attività volte ad aggirare direttamente o indirettamente le sanzioni, anche occultando attività», «non congelare fondi appartenenti, detenuti o controllati da una persona/entità» oggetto di sanzioni o «intraprendere operazioni, quali l’importazione o l’esportazione di merci soggette a divieti commerciali». La strada per concordare il sesto pacchetto di sanzioni contro la Federazione Russa - compreso appunto l’embargo sui prodotti petroliferi - ma anche quella per preparare un settimo pacchetto, appare dunque tutta in salita. «L’Unione europea può ancora trovare un accordo sull’embargo per il petrolio russo nei prossimi giorni o ricorrere ad altri strumenti», ha detto fiducioso il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck. Finora, però, i colloqui all’interno dell’Ue sulla proposta di embargo non hanno portato a una svolta, con l’Ungheria che ha posto un veto. Tra cinque giorni ci sarà il prossimo Consiglio della Ue ma l’accordo sembra lontano anni luce. Resta da vedere quali siano gli «altri strumenti» menzionati dalla Germania.
Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Ansa)
L’assemblea dem non incorona Schlein come candidata premier Gori si fa portavoce dei riformisti: «Il Green deal va ripensato».
Suggerimento, gratis, per i talk televisivi: si sottopongano Elly Schlein e i dirigenti del Pd, tipo l’economista Francesco Boccia, al test della michetta. Ieri la segretaria che sperava di cambiare lo statuto – tentativo fallito – per farsi incoronare candidata unica alla presidenza del Consiglio e che sta tentando di rinviare il congresso (cade a marzo 2027 e se per caso lo perdesse non riuscirebbe neppure ad avvicinarsi a Palazzo Chigi), se n’è uscita con una battuta alimentare: «Meloni festeggia l’Unesco, ma il frigo degli italiani è sempre più vuoto, la sua calcolatrice è rotta: vada nei supermercati e guardi quanto sono aumentati i prezzi». Chissà se Elly Schlein sa quanto costa il pane al chilo e un etto di mandorle. Lei è vegetariana e chiederle del prosciutto sarebbe indelicato.
L’assemblea del Pd, convocata ieri a Roma in concomitanza con Atreju per non lasciare troppo spazio a Giorgia Meloni, ha ricordato, se ancora ce ne fosse bisogno, che per i dem vale tutto. Ma soprattutto ha lasciato in sospeso le polemiche interne: congelate perché si doveva tentare di offuscare la comunicazione Fdi. La Schlein ha evitato qualsiasi voto e qualsiasi argomento divisivo. Ha fatto un po’ di propaganda e nulla più. Così vale che Stefano Bonaccini, dopo averne dette di ogni contro la segretaria annunci che la sua corrente Energia popolare rientra in maggioranza e porti solidarietà ai giornalisti del gruppo Gedi così come l’hanno data alle vittime ebree di Bondi Beach. A Repubblica e alla Stampa al massimo cambiano padrone, in Australia gli amici di Hamas, non così distanti dai pro Pal e da Francesca Albanese a cui i sindaci Pd consegnano le chiavi delle città, hanno ammazzato. Ma è brutto dirlo nel giorno in cui Elly Schlein s’ingegna a sfidare Giorgia Meloni su tutto. «Anche tanti di coloro che hanno votato per questa destra capiscono che non ha fatto nulla per la crescita; Arianna Meloni ci ha detto che loro priorità sono il premierato e la legge elettorale perché hanno paura di perdere». La Schlein si sente già al governo e annuncia: «Metteremo 3 miliardi in più sulla sanità, faremo il salario minimo a 9 euro, abbatteremo il prezzo dell’energia scollegandolo da quello del gas». Il fatto è che per battere «queste destre che delegittimano l’Onu, il diritto internazionale e facendo i vassalli non difendono l’interesse nazionale» ci vogliono i voti. Elly Schlein azzarda: «I voti assoluti della nostra coalizione e di quella del governo sono sostanzialmente pari ma siamo il primo partito con i voti reali, non nei sondaggi, nei voti veri». A essersi rotta deve essere la sua calcolatrice, non quella della Meloni.
Comunque la prospettiva – anche se Giuseppe Conte proprio da Atreju le ha fatto sapere che i 5 stelle non sono alleati col Pd – è «confrontiamoci anche aspramente, ma costruiamo l’alternativa: è tempo che l’Italia ricominci a sognare e a sperare». Così da gennaio lei parte per un tour programmatico. Doveva andare in giro a parlare del Pd, ma meglio dare addosso alla Meoni che fare i conti con i suoi. Che ieri hanno disertato la direzione nazionale che ha solo votato la relazione della segretaria (225 voti a favore e 36 astenuti) per evitare di palesare le fratture che invece ci sono. L’ala dura dei riformisti ha scelto di rinviare il confronto salvo Giorgio Gori, eurodeputato ex sindaco di Bergamo che all’assemblea ha scandito: «Il Pd ha perso la fiducia, sia della maggioranza degli operai, ma anche degli imprenditori. La sinistra è considerata lontana dal mondo dell’impresa. Serve il riformismo concreto e coraggioso di cui parla Prodi. Il Green deal fatica a tenere insieme obiettivi ambientali e tutele sociali, dobbiamo avere il coraggio di dirlo e promuovere un nuovo e diverso Green deal», ha concluso Gori, «proporre un patto fra istituzioni, imprese e lavoro. La destra porta il Paese al declino, il Pd può presentarsi e vincere le elezioni come partito della crescita e della redistribuzione». La Schlein per ora si occupa dei supermercati, la grande distribuzione.
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Meloni ha poi lanciato un altro attacco all’opposizione a proposito di Abu Mazen, presidente della Palestina: «La sua bella presenza qui ad Atreju fa giustizia delle accuse vergognose di complicità in genocidio che una sinistra imbarazzante ci ha rivolto per mesi». E ancora contro la sinistra: «La buona notizia è che ogni volta che loro parlano male di qualcosa va benissimo. Cioè parlano male di Atreju ed è l’edizione migliore di sempre, parlano male del governo, il governo sale nei sondaggi, hanno tentato di boicottare una casa editrice, è diventata famosissima. Cioè si portano da soli una sfiga che manco quando capita la carta della Pagoda al Mercante in fiera, visto che siamo in clima natalizio. E allora grazie a tutti quelli che hanno fatto le macumbe». L’altra stilettata ironica a proposito del premio dell’Unesco che riconosce la cucina italiana come bene immateriale dell’umanità: «A sinistra non è andato bene manco questo. Loro non sono riusciti a gioire per un riconoscimento che non è al governo ma alle nostre mamme e nonne, alle nostre filiere, alla nostra tradizione, alla nostra identità. Hanno rosicato così tanto che è una settimana che mangiano tutti dal kebabbaro. Veramente roba da matti». Ricordando l’unità della coalizione, Meloni ha sottolineato che questa destra «non è un incidente della storia» rivendicando le iniziative adottate in tre anni di esecutivo. Il premier ha poi toccato i temi di attualità e a proposito dell’equità fiscale rivendicata dall’opposizione ha scandito: «Non accettiamo lezioni da chi fa il comunista con il ceto medio e il turbo capitalista a favore dei potenti. Oggi il Pd si indigna perché gli Elkann vogliono vendere il gruppo Gedi e non ci sarebbero garanzie per i lavoratori però quando chiudevano gli stabilimenti di Stellantis ed erano gli operai a perdere il posto di lavoro, tutti muti. Anche Landini sul tema fischiettava». Non sono mancati i riferimenti ai temi caldi del centrodestra: immigrazione, riforma della giustizia, guerra in Ucraina ed Ue con il disimpegno di Trump e il Green Deal.
Sul palco anche i due vicepremier. «La mia non vuole essere solo una presenza formale, ma una presenza per riconfermare un impegno che tutti noi abbiamo preso nel 1994» ha detto il leader di Fi Antonio Tajani. «Ma gli accordi di alleanze fatte soprattutto di lealtà e impegno, devono essere rinnovati ogni giorno. La ragione di esistere di questa coalizione è fare l’interesse di ciascuno dei 60 milioni di cittadini italiani. E lo possiamo fare garantendo, grazie all’unità di questa coalizione, stabilità politica a questo Paese». Per il leader leghista Matteo Salvini “c’è innanzitutto l’orgoglio di esserci dopo tanti anni. Ci provano in tutti i modi a far litigare me e Giorgia. Ma amici giornalisti, mettetevi l’anima in pace: non ci riuscirete mai». Poi il ministro dei Trasporti ha assicurato che farà «di tutto» per avviare i lavori per il Ponte sullo Stretto, ha rilanciato sull’innalzamento del tetto del contante e sull’impegno anti maranza e infine ricordato come il governo stia facendo un buon lavoro nella tassazione delle banche.
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C'è un'invenzione che si deve agli aviatori, anzi, a un minuto personaggio brasiliano stanco di dover cercare l'orologio nel suo taschino mentre pilotava l'aeroplano.