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2022-05-27
I pescatori dell’Adriatico fermano le barche. Sarà un’estate senza pesce
Qualcosa di buono c’è: la dimostrazione che le roboanti proclamazioni dell’anno di… sono una presa in giro. Sì deve sapere che l’Onu e anche la Fao hanno proclamato il 2022 anno internazionale della pesca e dell’acquacoltura. Si sono accorti che mezzo mondo campa di pesce. Dovrebbero spiegarlo ai pescatori di Ancona che ieri hanno bloccato il porto con un corteo di protesta, a quelli dell’Adriatico - dalle Marche alla Puglia - che da una settimana non vanno in mare strozzati dal caro gasolio. Il movimento di protesta sta montando in tutti i porti d’Italia e porterà, se la situazione non si risolve, alla serrata totale delle marinerie. Lo avevano già fatto a marzo, sono pronti a rifarlo adesso perché non riescono più a sopportare i costi. Ovviamente nessuno gli risponde, ma attenzione perché questa «protesta a strascico» può far saltare anche una parte del fatturato turistico.
Ora hanno altro a cui pensare al governo: ci sono da privatizzare gli arenili, figurati se si possono occupare di quello che accade nel mare. E però farebbero bene a darci un’occhiata. Da una settimana le barche dell’Adriatico, che è il mare più pescoso tra i nostri, sono ferme all’ormeggio. Non ce la fanno più. Troppo alti i costi, troppo forte la concorrenza straniera, troppe le tasse. La crisi della nostra pesca parte da lontano. È almeno dal 2008 che ogni anno perdiamo circa il 5% del pescato e della flotta, ma è successo tutto in silenzio. Del resto loro stanno in alto mare. La situazione delle flotte pescherecce è disastrosa. Ad Ancona ieri gli armatori che hanno protestato fin sotto la prefettura e hanno chiesto - consegnando un dossier al prefetto Darco Pellos - un incontro con i ministri Stefano Patuanelli (Agricoltura) e Daniele Franco (Economia) con la mediazione di Luciana Lamorgese (Interni) per evitare che una serrata pacifica diventi una protesta rabbiosa. Ovviamente nessuno se li è filati. Ora tutto l’Adriatico è all’ormeggio. Ieri lo scalo dorico è stato bloccato per un paio d’ore. C’erano delegazioni delle flotte di Gaeta, di San Benedetto (due sere fa si sono rischiati scontri in porto), di Vasto e di Pescara da dove la serrata è partita quattro giorni fa. A Termoli c’è stato un sit in, a Selinunte tornano a farsi sentire gli armatori, ma anche la piccola pesca.
La serrata delle reti si sta allargando anche al Tirreno. Mercoledì notte a Porto Santo Stefano, nel grossetano, è arrivata una delegazione di cento armatori dei porti adriatici e del Sud e lì è stato stretto un patto tra tutte le marinerie. O arrivano risposte dal governo sul caro gasolio o non si va più in mare. La situazione la spiega bene Apollinare Lazzari, che guida l’Associazione produttori e pescatori di Ancona: «Ora paghiamo il carburante 1 euro e 20 centesimi al litro, una barca ne consuma sui 3.000 litri al giorno. Ed è chiaro che così non si può andare avanti. Noi, a differenza di altre imprese, non possiamo scaricare il costo sul prodotto. A noi serve un aiuto diretto, immediato; non chiediamo sconti o altre agevolazioni, ci occorre soltanto che il gasolio non superi un certo prezzo così da poter lavorare». Insomma più che un decreto aiuti lanciano proprio un Sos.
Il blocco delle paranze è faccenda che ricade direttamente anche sull’economia turistica del mare. È vero che con la privatizzazione delle spiagge il governo sembra intenzionato a non preoccuparsi dell’attrattiva mare, ma chi ha ristoranti nei luoghi di vacanza qualche problema se lo pone. Se Moreno Cedroni, due stelle Michelin incantevole il suo Clandestino nello specchio di mare del Conero, è disperato perché non trova personale, Marco Cupido, anche lui marchigiano, alla Degusteria è incerto se continuare a servire il fritto misto: «Con l’olio di girasole (causa guerra in Ucraina, ndr) passato da 90 centesimi a 3 euro al litro e il prezzo del pesce quasi raddoppiato, il fritto è diventato un piatto da ricchi». Ma anche gli sciatt in Val Chiavenna sono a rischio per il caro frittura.
Il pesce rischia di diventare merce rarissima. Gli italiani nel corso degli anni hanno continuato ad aumentare la quota di pescato consumato. Siamo a 29 chili a testa (la media europea è a 26, ma lontanissimi da Portogallo e Spagna che viaggiano sul mezzo quintale), ma il nostro ci basta per un mese. Sì, è così. Nonostante gli 8.500 chilometri di costa, la cattura di pesce italiano è pari a 193.000 tonnellate per un fatturato che sta sotto i 700 milioni di euro. L’acquacoltura, che è in sviluppo ed è comunque la migliore del mondo, soccorre con altre 157.000 tonnellate. Tutto il resto - e sono oltre 1 milione e 300.000 tonnellate - viene dall’estero, in particolare da Spagna (23%), Paesi Bassi (5,3%), Grecia e Regno Unito, ma quasi la metà viene da fuori Europa: fanno festa Thailandia, Cina ed Equador. La ragione? I giapponesi ci hanno fatto fuori tutti i tonni, non proteggiamo le nostre aree di pesca nei nostri mari fanno strascico tutti e la nostra marineria muore ogni anno di più.
Come si legge nel rapporto poliennale del ministero dell’Agricoltura (competente) che vale fino al prossimo anno: «Utilizzando il 2004 come anno di riferimento base, si registra una evidente e costante contrazione nella consistenza della flotta, che passa dai 14.873 battelli del 2004 agli 11.926 del 2020, registrando quindi un calo complessivo superiore ai 2.900 motopesca». A reggere sono rimaste le barche della piccola pesca, i pensionati del mare. Ah sia detto per inciso. Sono quelli che ormeggiano ai moletti degli stabilimenti balneari. In attesa che in nome della Bolkestein qualcuno li sfratti.
Ue sempre in panne sulle sanzioni: «Più si va avanti, più è difficile»
Sulle sanzioni a Mosca l’Europa appare più divisa che mai e i «pacchetti» già predisposti per indebolire Vladimir Putin stentano a decollare. Lo stesso dicasi per le ipotizzate, future sanzioni. Del resto, più si va avanti nell’inasprimento delle misure, più la situazione diventa divisiva, perché ogni Stato membro ha i suoi interessi da salvaguardare ma anche perché qualcuno comincia ad accorgersi che una sanzione che si rispetti dovrebbe danneggiare più chi la riceve che chi la dispone. Se ne è reso conto il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, rimarcando come l'Europa, che era partita con l’idea di bloccare del tutto il petrolio e il gas russi, potrà arrivare solo a un compromesso. «Si tratta di un problema etico gigantesco perché sappiamo bene che il Pil della Russia è basato sull’export di energia: alla fine la Commissione troverà una via d’uscita, che comunque sarà un compromesso».
I continui tira e molla tra membri dell’Europa «unita» non sfuggono a nessuna delle parti, tanto che il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, pur rispondendo al presidente Volodymyr Zelensky (il quale rimarcava la mancanza di unità in Europa sulla posizione da prendere nei confronti della guerra) che «l’unità europea è stata notevole e questo dovrebbe essere anche il piano per il futuro», ha dovuto poi aggiungere che comunque «più andremo avanti nelle sanzioni, più sarà difficile, poiché ci sono realtà diverse nei diversi Paesi membri».
L’imbarazzo è palpabile e sta venendo a galla una realtà forse prevedibile: imprese e realtà economiche di vari Paesi europei non vogliono rispettare le sanzioni che danneggiano più loro che il «nemico», quindi stanno mettendo in moto strategie volte ad aggirarle. L’esecutivo comunitario è stato costretto a correre ai ripari, proponendo di aggiungere la violazione delle misure restrittive all’elenco dei reati Ue. È dunque in preparazione la Direttiva sulle sanzioni penali, dove saranno elencati reati come «intraprendere azioni o attività volte ad aggirare direttamente o indirettamente le sanzioni, anche occultando attività», «non congelare fondi appartenenti, detenuti o controllati da una persona/entità» oggetto di sanzioni o «intraprendere operazioni, quali l’importazione o l’esportazione di merci soggette a divieti commerciali».
La strada per concordare il sesto pacchetto di sanzioni contro la Federazione Russa - compreso appunto l’embargo sui prodotti petroliferi - ma anche quella per preparare un settimo pacchetto, appare dunque tutta in salita. «L’Unione europea può ancora trovare un accordo sull’embargo per il petrolio russo nei prossimi giorni o ricorrere ad altri strumenti», ha detto fiducioso il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck. Finora, però, i colloqui all’interno dell’Ue sulla proposta di embargo non hanno portato a una svolta, con l’Ungheria che ha posto un veto. Tra cinque giorni ci sarà il prossimo Consiglio della Ue ma l’accordo sembra lontano anni luce. Resta da vedere quali siano gli «altri strumenti» menzionati dalla Germania.
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Riduci
Serrata per protestare contro i rincari del gasolio. E lo stop inizia a estendersi pure al mar Tirreno. Il blocco delle forniture finirà per danneggiare anche il turismo.Roberta Metsola ammette la mancanza di unità sulle sanzioni. Roberto Cingolani: «Ci sarà un compromesso».Lo speciale contiene due articoli.Qualcosa di buono c’è: la dimostrazione che le roboanti proclamazioni dell’anno di… sono una presa in giro. Sì deve sapere che l’Onu e anche la Fao hanno proclamato il 2022 anno internazionale della pesca e dell’acquacoltura. Si sono accorti che mezzo mondo campa di pesce. Dovrebbero spiegarlo ai pescatori di Ancona che ieri hanno bloccato il porto con un corteo di protesta, a quelli dell’Adriatico - dalle Marche alla Puglia - che da una settimana non vanno in mare strozzati dal caro gasolio. Il movimento di protesta sta montando in tutti i porti d’Italia e porterà, se la situazione non si risolve, alla serrata totale delle marinerie. Lo avevano già fatto a marzo, sono pronti a rifarlo adesso perché non riescono più a sopportare i costi. Ovviamente nessuno gli risponde, ma attenzione perché questa «protesta a strascico» può far saltare anche una parte del fatturato turistico. Ora hanno altro a cui pensare al governo: ci sono da privatizzare gli arenili, figurati se si possono occupare di quello che accade nel mare. E però farebbero bene a darci un’occhiata. Da una settimana le barche dell’Adriatico, che è il mare più pescoso tra i nostri, sono ferme all’ormeggio. Non ce la fanno più. Troppo alti i costi, troppo forte la concorrenza straniera, troppe le tasse. La crisi della nostra pesca parte da lontano. È almeno dal 2008 che ogni anno perdiamo circa il 5% del pescato e della flotta, ma è successo tutto in silenzio. Del resto loro stanno in alto mare. La situazione delle flotte pescherecce è disastrosa. Ad Ancona ieri gli armatori che hanno protestato fin sotto la prefettura e hanno chiesto - consegnando un dossier al prefetto Darco Pellos - un incontro con i ministri Stefano Patuanelli (Agricoltura) e Daniele Franco (Economia) con la mediazione di Luciana Lamorgese (Interni) per evitare che una serrata pacifica diventi una protesta rabbiosa. Ovviamente nessuno se li è filati. Ora tutto l’Adriatico è all’ormeggio. Ieri lo scalo dorico è stato bloccato per un paio d’ore. C’erano delegazioni delle flotte di Gaeta, di San Benedetto (due sere fa si sono rischiati scontri in porto), di Vasto e di Pescara da dove la serrata è partita quattro giorni fa. A Termoli c’è stato un sit in, a Selinunte tornano a farsi sentire gli armatori, ma anche la piccola pesca. La serrata delle reti si sta allargando anche al Tirreno. Mercoledì notte a Porto Santo Stefano, nel grossetano, è arrivata una delegazione di cento armatori dei porti adriatici e del Sud e lì è stato stretto un patto tra tutte le marinerie. O arrivano risposte dal governo sul caro gasolio o non si va più in mare. La situazione la spiega bene Apollinare Lazzari, che guida l’Associazione produttori e pescatori di Ancona: «Ora paghiamo il carburante 1 euro e 20 centesimi al litro, una barca ne consuma sui 3.000 litri al giorno. Ed è chiaro che così non si può andare avanti. Noi, a differenza di altre imprese, non possiamo scaricare il costo sul prodotto. A noi serve un aiuto diretto, immediato; non chiediamo sconti o altre agevolazioni, ci occorre soltanto che il gasolio non superi un certo prezzo così da poter lavorare». Insomma più che un decreto aiuti lanciano proprio un Sos. Il blocco delle paranze è faccenda che ricade direttamente anche sull’economia turistica del mare. È vero che con la privatizzazione delle spiagge il governo sembra intenzionato a non preoccuparsi dell’attrattiva mare, ma chi ha ristoranti nei luoghi di vacanza qualche problema se lo pone. Se Moreno Cedroni, due stelle Michelin incantevole il suo Clandestino nello specchio di mare del Conero, è disperato perché non trova personale, Marco Cupido, anche lui marchigiano, alla Degusteria è incerto se continuare a servire il fritto misto: «Con l’olio di girasole (causa guerra in Ucraina, ndr) passato da 90 centesimi a 3 euro al litro e il prezzo del pesce quasi raddoppiato, il fritto è diventato un piatto da ricchi». Ma anche gli sciatt in Val Chiavenna sono a rischio per il caro frittura. Il pesce rischia di diventare merce rarissima. Gli italiani nel corso degli anni hanno continuato ad aumentare la quota di pescato consumato. Siamo a 29 chili a testa (la media europea è a 26, ma lontanissimi da Portogallo e Spagna che viaggiano sul mezzo quintale), ma il nostro ci basta per un mese. Sì, è così. Nonostante gli 8.500 chilometri di costa, la cattura di pesce italiano è pari a 193.000 tonnellate per un fatturato che sta sotto i 700 milioni di euro. L’acquacoltura, che è in sviluppo ed è comunque la migliore del mondo, soccorre con altre 157.000 tonnellate. Tutto il resto - e sono oltre 1 milione e 300.000 tonnellate - viene dall’estero, in particolare da Spagna (23%), Paesi Bassi (5,3%), Grecia e Regno Unito, ma quasi la metà viene da fuori Europa: fanno festa Thailandia, Cina ed Equador. La ragione? I giapponesi ci hanno fatto fuori tutti i tonni, non proteggiamo le nostre aree di pesca nei nostri mari fanno strascico tutti e la nostra marineria muore ogni anno di più. Come si legge nel rapporto poliennale del ministero dell’Agricoltura (competente) che vale fino al prossimo anno: «Utilizzando il 2004 come anno di riferimento base, si registra una evidente e costante contrazione nella consistenza della flotta, che passa dai 14.873 battelli del 2004 agli 11.926 del 2020, registrando quindi un calo complessivo superiore ai 2.900 motopesca». A reggere sono rimaste le barche della piccola pesca, i pensionati del mare. Ah sia detto per inciso. Sono quelli che ormeggiano ai moletti degli stabilimenti balneari. In attesa che in nome della Bolkestein qualcuno li sfratti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pescatori-adriatico-fermano-barche-2657397331.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ue-sempre-in-panne-sulle-sanzioni-piu-si-va-avanti-piu-e-difficile" data-post-id="2657397331" data-published-at="1653590851" data-use-pagination="False"> Ue sempre in panne sulle sanzioni: «Più si va avanti, più è difficile» Sulle sanzioni a Mosca l’Europa appare più divisa che mai e i «pacchetti» già predisposti per indebolire Vladimir Putin stentano a decollare. Lo stesso dicasi per le ipotizzate, future sanzioni. Del resto, più si va avanti nell’inasprimento delle misure, più la situazione diventa divisiva, perché ogni Stato membro ha i suoi interessi da salvaguardare ma anche perché qualcuno comincia ad accorgersi che una sanzione che si rispetti dovrebbe danneggiare più chi la riceve che chi la dispone. Se ne è reso conto il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, rimarcando come l'Europa, che era partita con l’idea di bloccare del tutto il petrolio e il gas russi, potrà arrivare solo a un compromesso. «Si tratta di un problema etico gigantesco perché sappiamo bene che il Pil della Russia è basato sull’export di energia: alla fine la Commissione troverà una via d’uscita, che comunque sarà un compromesso». I continui tira e molla tra membri dell’Europa «unita» non sfuggono a nessuna delle parti, tanto che il presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, pur rispondendo al presidente Volodymyr Zelensky (il quale rimarcava la mancanza di unità in Europa sulla posizione da prendere nei confronti della guerra) che «l’unità europea è stata notevole e questo dovrebbe essere anche il piano per il futuro», ha dovuto poi aggiungere che comunque «più andremo avanti nelle sanzioni, più sarà difficile, poiché ci sono realtà diverse nei diversi Paesi membri». L’imbarazzo è palpabile e sta venendo a galla una realtà forse prevedibile: imprese e realtà economiche di vari Paesi europei non vogliono rispettare le sanzioni che danneggiano più loro che il «nemico», quindi stanno mettendo in moto strategie volte ad aggirarle. L’esecutivo comunitario è stato costretto a correre ai ripari, proponendo di aggiungere la violazione delle misure restrittive all’elenco dei reati Ue. È dunque in preparazione la Direttiva sulle sanzioni penali, dove saranno elencati reati come «intraprendere azioni o attività volte ad aggirare direttamente o indirettamente le sanzioni, anche occultando attività», «non congelare fondi appartenenti, detenuti o controllati da una persona/entità» oggetto di sanzioni o «intraprendere operazioni, quali l’importazione o l’esportazione di merci soggette a divieti commerciali». La strada per concordare il sesto pacchetto di sanzioni contro la Federazione Russa - compreso appunto l’embargo sui prodotti petroliferi - ma anche quella per preparare un settimo pacchetto, appare dunque tutta in salita. «L’Unione europea può ancora trovare un accordo sull’embargo per il petrolio russo nei prossimi giorni o ricorrere ad altri strumenti», ha detto fiducioso il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck. Finora, però, i colloqui all’interno dell’Ue sulla proposta di embargo non hanno portato a una svolta, con l’Ungheria che ha posto un veto. Tra cinque giorni ci sarà il prossimo Consiglio della Ue ma l’accordo sembra lontano anni luce. Resta da vedere quali siano gli «altri strumenti» menzionati dalla Germania.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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