2024-01-29
Per «Repubblica» la vera minaccia sono le vendite, non la Meloni
Anziché sparlare di censura, Maurizio Molinari torni nella realtà. O i lettori fuggiranno ancora.Conosco Maurizio Molinari da oltre trent’anni. Quando io ero vicedirettore dell’Indipendente e lui un giovane redattore in servizio nella sede di Roma, essendo vacante il posto di capo dell’ufficio, fu per mesi il mio referente privilegiato. Con lui discutevo la mattina, prima delle riunione con i colleghi, quali fossero gli argomenti principali e i servizi da assegnare. Qualche anno dopo, lo ritrovai caposervizio al politico del Tempo, quotidiano di cui nel 1996 divenni direttore. Ecco, né la prima volta né la seconda ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a un pasdaran della sinistra, interprete dei più triti ruoli comuni dei compagni. Anzi, se avessi dovuto incasellarlo in qualche schieramento, di certo non lo avrei messo nel presepe del Pd e degli indignati speciali che da almeno mezzo secolo presidiano i principali giornali. Così come l’occasione fa l’uomo ladro, l’occasione di diventare direttore di Repubblica probabilmente ti fa riconsiderare molte cose e molte idee. Certo mai avrei immaginato che Molinari, conservatore e filo israeliano, poi sarebbe finito per fare comunella con gli eredi del Pci e i nemici di Gerusalemme. Invece purtroppo è ciò che accade e come un Santoro qualsiasi, adesso il direttore di Repubblica si atteggia pure a vittima di un editto meloniano. A differenza del conduttore di fortunate trasmissioni televisive però, Molinari è il direttore di sfortunate avventure editoriali, nel senso che le sorti di Repubblica paiono più minacciate dalle sue scelte che dalla irrisione con cui Giorgia Meloni ha accolto un titolo del suo quotidiano. Incurante della realtà dei fatti, il direttore e i suoi collaboratori hanno preso la palla al balzo, ovvero le critiche per un allarme infondato di Repubblica, per mettere in scena un attentato alla libertà di stampa. Aver detto, come ha fatto il presidente del Consiglio, che i redattori del giornale dovrebbero occuparsi della vendita della Fiat da parte degli Agnelli, ossia degli editori del loro quotidiano, più che della cessione di qualche quota di minoranza delle aziende statali, non è una minaccia, ma una critica legittima, consentita a chiunque conosca la storia dell’industria automobilistica italiana. A rendere ancor più ridicola la pretesa aggressione è il fatto che il giorno dopo il grido di dolore della redazione stipendiata dagli Agnelli è giunto l’editto di Elly Schlein, la quale, non si sa se da Lugano o da Bologna, ha attaccato a testa bassa il Tg1, reo di aver dato notizia delle misure governative a favore dei pensionati. Un servizio propagandistico, secondo la segretaria del Pd, la quale ignorando la presunta minaccia nei confronti della redazione di Repubblica, è giunta a minacciare lei la direzione del telegiornale Rai. Così, forse senza rendersene conto, ma di sicuro senza rendere conto a quello che un tempo era il giornale di riferimento della sinistra, Elly Schlein ha reso comiche le proteste di Molinari e dei suoi giornalisti. I quali non devono temere le critiche che vengono loro rivolte da Palazzo Chigi, ma piuttosto quelle dei loro lettori, i quali si assottigliano giorno dopo giorno, al punto che il giornale si avvicina pericolosamente alla soglia delle vendite di cinquant’anni fa, quando agli esordi al quotidiano davano pochi mesi di vita. Non servono dunque appelli in nome della libertà di stampa e neppure richiami alla Costituzione. La minaccia non viene da Giorgia Meloni, ma dall’interno, cioè da giornalisti che, a cominciare da Molinari, hanno perso il contatto con la realtà e con la verità e continuano a gridare al lupo anche quando i lupi spelacchiati sono loro.
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