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2021-08-25
Per Letta i brogli del Pd sono «vecchi»
Enrico Letta (Ansa)
«Si sta dando troppo peso a una questione (del passato», è stata la sua lapidaria sentenza. In verità, il caso risale al 2019, appena due anni fa, e si tratta dell'ultima volta in cui gli elettori del suo partito sono stati chiamati a esprimere le proprie preferenze circa il leader che avrebbe dovuto guidarli. Dunque, a noi tanto vecchia la faccenda non sembra. Soprattutto non pare argomento da archeologia politica, visto che il sistema permeato dai brogli per far risultare più ampia la partecipazione popolare è lo stesso in vigore tuttora e di cui il Pd potrebbe tornare presto a servirsi se dovesse trovare un sostituto per lo stesso Letta. Il quale, a dire il vero, in barba alla scelta dal basso con la chiamata alle elezioni dei militanti, è stato nominato segretario da un accordo fra le correnti del partito. I vari Andrea Orlando, Dario Franceschini, Goffredo Bettini ed ex renziani erano stati colti di sorpresa dalle dimissioni di Nicola Zingaretti. Avendo passato mesi a litigare, a decidere se appoggiare Giuseppe Conte o prenderne le distanze per non risultare appiattiti su una linea grillina, all'improvviso si sono trovati in mezzo al guado, cioè nel pieno di una crisi di governo senza avere una guida. O meglio, avendone una che stufa di discussioni li aveva mandati a quel Paese. Risultato, in fretta e furia ecco tirato fuori a sorpresa dal cilindro il rifugiato speciale, ossia Enrico Letta.
Dal suo esilio dorato sulle sponde della Senna, l'ex presidente del Consiglio giubilato da Matteo Renzi, da sette anni rifiutava qualsiasi coinvolgimento da parte dei compagni. A chi gli tirava la giacchetta, affinché tornasse a impegnarsi nella vita politica italiana, Letta aveva sempre offerto uno sdegnoso rifiuto. Ma di fronte alla designazione per acclamazione dei capibastone di tutte le correnti, alla fine il Nipotissimo (il soprannome gli deriva dal fatto di essere figlio del fratello del plenipotenziario berlusconiano) ha capitolato. Per l'occasione, il partito delle primarie ha rinunciato alle primarie, cioè ha evitato di consultare la base. Una soluzione all'italiana a cui i sostenitori della partecipazione dal basso solitamente si adeguano quando sono nei guai. È successo con la scelta dei candidati sindaci, che hanno dribblato le primarie, e pure con quella del governatore della Calabria: dopo aver bruciato una candidatura dietro l'altra, alla fine Letta ha virato su Amalia Bruni per fare contenti i grillini, ma così ha scontentato il vecchio governatore, che appena ha potuto si è messo di traverso. Eh sì, la storia delle primarie, del bagno di folla prima delle elezioni, al Pd non porta proprio bene. Da Walter Veltroni a Pier Luigi Bersani, chi le ha vinte si è poi messo nei guai, mentre chi le ha perse, come la prima volta di Renzi, poi ne ha tratto vantaggio, riuscendo a imporsi al secondo giro.
Nel caso di cui trattiamo in questi giorni e che il leader del Partito democratico vorrebbe volentieri silenziare parlando d'altro, cioè del sottosegretario leghista Claudio Durigon, reo di voler cambiare nome a un parco dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non si tratta solo di dimenticarsi del rito delle primarie quando occorre, ma di gonfiarle quando servono, per far apparire un consenso e una partecipazione che non ci sono. Le conversazioni intercorse in Emilia fra alcuni dirigenti del partito dimostrano che i risultati si costruiscono su misura, a seconda di quel di cui si ha bisogno. E se in un piccolo paese, per volere dei vertici del Pd locale, si fabbricano schede false, si è autorizzati a pensare male e a ritenere che il sistema usato dai compagni ad Argelato non sia circoscritto a pochi circoli, ma sia la metodologia spiccia per far quadrare i conti e far figurare ciò che non c'è, ovvero il gran consenso popolare dietro a una scelta. Insomma, la democrazia è solo una finzione, che si usa per far apparire cose che non ci sono. Si capisce che Letta di tutto ciò non abbia voglia di parlare e preferisca altri argomenti. Spiegare ai propri elettori che il massimo esercizio di democrazia interna è una colossale presa per i fondelli e che alla fine gli apparati decidono tutto, anche quanti debbano essere i votanti, significherebbe demolire anni di propaganda e riconoscere l'imbroglio. Ovvero, suicidarsi con le proprie mani. Una cosa a cui Letta sembra comunque avviato senza volerlo, perché con la linea filo grillina e le uscite pro ius soli e legge Zan, l'insuccesso è assicurato.
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«Roba vecchia». Così Enrico Letta ha liquidato i brogli delle primarie. Pur essendo sempre pronto a parlare di tutto, di antifascismo a distanza di oltre 75 anni dalla caduta del fascismo, di voto ai sedicenni, di legge Zan e pure di ius soli, il segretario del Partito democratico preferisce non commentare la questione delle schede farlocche per l'elezione dei vertici del Pd. «Si sta dando troppo peso a una questione (del passato», è stata la sua lapidaria sentenza. In verità, il caso risale al 2019, appena due anni fa, e si tratta dell'ultima volta in cui gli elettori del suo partito sono stati chiamati a esprimere le proprie preferenze circa il leader che avrebbe dovuto guidarli. Dunque, a noi tanto vecchia la faccenda non sembra. Soprattutto non pare argomento da archeologia politica, visto che il sistema permeato dai brogli per far risultare più ampia la partecipazione popolare è lo stesso in vigore tuttora e di cui il Pd potrebbe tornare presto a servirsi se dovesse trovare un sostituto per lo stesso Letta. Il quale, a dire il vero, in barba alla scelta dal basso con la chiamata alle elezioni dei militanti, è stato nominato segretario da un accordo fra le correnti del partito. I vari Andrea Orlando, Dario Franceschini, Goffredo Bettini ed ex renziani erano stati colti di sorpresa dalle dimissioni di Nicola Zingaretti. Avendo passato mesi a litigare, a decidere se appoggiare Giuseppe Conte o prenderne le distanze per non risultare appiattiti su una linea grillina, all'improvviso si sono trovati in mezzo al guado, cioè nel pieno di una crisi di governo senza avere una guida. O meglio, avendone una che stufa di discussioni li aveva mandati a quel Paese. Risultato, in fretta e furia ecco tirato fuori a sorpresa dal cilindro il rifugiato speciale, ossia Enrico Letta. Dal suo esilio dorato sulle sponde della Senna, l'ex presidente del Consiglio giubilato da Matteo Renzi, da sette anni rifiutava qualsiasi coinvolgimento da parte dei compagni. A chi gli tirava la giacchetta, affinché tornasse a impegnarsi nella vita politica italiana, Letta aveva sempre offerto uno sdegnoso rifiuto. Ma di fronte alla designazione per acclamazione dei capibastone di tutte le correnti, alla fine il Nipotissimo (il soprannome gli deriva dal fatto di essere figlio del fratello del plenipotenziario berlusconiano) ha capitolato. Per l'occasione, il partito delle primarie ha rinunciato alle primarie, cioè ha evitato di consultare la base. Una soluzione all'italiana a cui i sostenitori della partecipazione dal basso solitamente si adeguano quando sono nei guai. È successo con la scelta dei candidati sindaci, che hanno dribblato le primarie, e pure con quella del governatore della Calabria: dopo aver bruciato una candidatura dietro l'altra, alla fine Letta ha virato su Amalia Bruni per fare contenti i grillini, ma così ha scontentato il vecchio governatore, che appena ha potuto si è messo di traverso. Eh sì, la storia delle primarie, del bagno di folla prima delle elezioni, al Pd non porta proprio bene. Da Walter Veltroni a Pier Luigi Bersani, chi le ha vinte si è poi messo nei guai, mentre chi le ha perse, come la prima volta di Renzi, poi ne ha tratto vantaggio, riuscendo a imporsi al secondo giro. Nel caso di cui trattiamo in questi giorni e che il leader del Partito democratico vorrebbe volentieri silenziare parlando d'altro, cioè del sottosegretario leghista Claudio Durigon, reo di voler cambiare nome a un parco dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non si tratta solo di dimenticarsi del rito delle primarie quando occorre, ma di gonfiarle quando servono, per far apparire un consenso e una partecipazione che non ci sono. Le conversazioni intercorse in Emilia fra alcuni dirigenti del partito dimostrano che i risultati si costruiscono su misura, a seconda di quel di cui si ha bisogno. E se in un piccolo paese, per volere dei vertici del Pd locale, si fabbricano schede false, si è autorizzati a pensare male e a ritenere che il sistema usato dai compagni ad Argelato non sia circoscritto a pochi circoli, ma sia la metodologia spiccia per far quadrare i conti e far figurare ciò che non c'è, ovvero il gran consenso popolare dietro a una scelta. Insomma, la democrazia è solo una finzione, che si usa per far apparire cose che non ci sono. Si capisce che Letta di tutto ciò non abbia voglia di parlare e preferisca altri argomenti. Spiegare ai propri elettori che il massimo esercizio di democrazia interna è una colossale presa per i fondelli e che alla fine gli apparati decidono tutto, anche quanti debbano essere i votanti, significherebbe demolire anni di propaganda e riconoscere l'imbroglio. Ovvero, suicidarsi con le proprie mani. Una cosa a cui Letta sembra comunque avviato senza volerlo, perché con la linea filo grillina e le uscite pro ius soli e legge Zan, l'insuccesso è assicurato.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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