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2019-04-20
Per i burattinai di Greta è ora di incassare
Ansa
Dopo una prima fase di gestazione, la gigantesca operazione mediatica costruita intorno a Greta Thunberg, la giovane attivista svedese che si batte contro il cambiamento climatico, si accinge a staccare i primi dividendi. Perché se è vero come diceva l'economista John Maynard Keynes che «nel lungo periodo siamo tutti morti», d'altro canto l'antico detto latino secondo cui pecunia non olet non cessa mai di essere valido. Quante volte negli ultimi mesi ci siamo sentiti ripetere che il tempo sta per scadere e che se non facciamo qualcosa siamo spacciati? Il «fate presto» in chiave ecologista è un mantra talmente potente da riuscire a mettere d'accordo personaggi apparentemente agli antipodi come papa Francesco, Bono Vox, Emmanuel Macron, Sergio Mattarella e Jean Claude Juncker. Non c'è tempo: Greta l'ha ripetuto svariate volte anche durante la visita romana di questi giorni culminata ieri con il consueto sciopero del venerdì, spingendosi fino a fissare per il 2030 la data della presunta apocalisse.
Non è affatto un caso, dunque, se la startup fondata dall'imprenditore svedese Ingmar Rentzhog e sviluppata all'ombra di Greta Thunberg sia stata battezzata We don't have time, che in inglese significa per l'appunto «non c'è tempo». Obiettivo finale il lancio di un nuovo social network, fissato per il 22 aprile in occasione della Giornata della Terra, per sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema del cambiamento climatico. Scorrendo la lista degli ospiti che hanno confermato la presenza all'evento inaugurale ci imbattiamo in alcuni personaggi interessanti. Il nome più in vista è quello di Jeffrey Sachs, economista statunitense e direttore dell'Earth institute della Columbia University. Sachs è considerato l'ispiratore dei contenuti economici dell'enciclica Laudato si' e solo lo scorso novembre ha tenuto in Vaticano una conferenza nella quale, novello Mosè, mostra in una slide le nuove tavole della legge ambientalista con tanto di «10 comandamenti del cambiamento climatico». Non è assurdo pensare che ci sia il suo zampino dietro al cordialissimo incontro tra Greta Thunberg e papa Jorge Mario Bergoglio. Nel 2006 l'economista aveva ricevuto da George Soros un assegno da ben 50 milioni di dollari, erogato in favore di Millennium promises, un'organizzazione nata per combattere la povertà in Africa e della quale ancora oggi Sachs risulta direttore. E la lunga mano del «filantropo» ungherese compare anche dietro la ventiduenne Luisa Neubauer, vice di Greta in Germania. La campagna «One» per la quale è ambasciatrice ha ricevuto infatti almeno mezzo milione di dollari dalla Open society di Soros, oltre a 13 milioni donati nel 2017 dalla fondazione Bill e Melinda Gates. Scorrendo più avanti, immancabile la presenza dei giovanissimi attivisti che oggi tanto vanno di moda. Si va da Jamie Margolin (alter ego statunitense di Greta) a Tiziana Arredondo e non manca nemmeno un italiano, il sedicenne Aran Cosentino. Tra i partner troviamo, oltre a un'ampia rosa di Ong: The climate reality project di Al Gore, Connect4climate della World Bank e Global Utmaning, il think tank del ricchissimo ex ministro Kristina Persson e del quale Rentzhog risulta presidente.
Ingmar Rentzhog è legato a doppio filo alla famiglia Thunberg. Quando il 20 agosto dello scorso anno Greta inizia di fronte al parlamento svedese il suo skolstrejk for klimatet (sciopero da scuola per il clima, ndr), guarda caso Rentzhog si trova nei paraggi e pubblica le foto della giovane sui social. La segnalazione viene raccolta dall'importante quotidiano svedese Aftonbladet, che rilancia le immagini di Greta a gambe incrociate con a fianco il suo ormai celebre cartello. Passano appena tre giorni e lo stesso giornale dedica ampio spazio a un servizio proprio sui Thunberg. Di recente il papà Svante, attore e produttore, e la mamma Malena Ernman, cantante lirica, avevano pubblicato un libro nel quale raccontano come la sindrome di Asperger della quale soffre la figlia e la sua «ossessione» per il cambiamento climatico avesse cambiato le loro vite. La vicenda diventa virale e si trasforma in un trampolino di lancio tanto per la coppia quanto per Greta, la cui notorietà si diffonde presto ben oltre i confini scandinavi. Nel bene e nel male, Ingmar Rentzhog contribuisce in maniera decisiva a lanciare la figura della ragazza.
Da buon imprenditore, Rentzhog fiuta le potenzialità dell'affare e continua a lavorare nell'ombra con l'obiettivo di reperire fondi per la sua creatura. Senza mettersi troppi scrupoli, in vista della campagna di fundraising lanciata a novembre, Rentzhog cita nel prospetto informativo destinato agli investitori il nome di Greta Thunberg per ben 11 volte. Un modo assai esplicito per marcare il territorio e ribadire che quel personaggio lo ha inventato lui.
Negli stessi giorni, l'imprenditore nomina la giovane attivista nel board di We don't have time. Una ciliegina sulla torta che aiuta a convogliare nei conti della startup ben 13,1 milioni di corone svedesi (l'equivalente di 1,25 milioni di euro). La famiglia della ragazza e i media svedesi non la prendono bene, e lo accusano di aver sfruttato il nome dell'adolescente per i proprio scopi. Sebbene i Thunberg si siano dissociati dalla vicenda e Greta abbia poi dato le dimissioni dal board, Rentzhog va avanti spedito con il suo progetto che, come detto, si accinge a partire nel giro di una manciata di giorni. Perché, quando si tratta di far soldi, il tempo non manca mai.
Antonio Grizzuti
Non è ecologia, ma solo un business che oltretutto all’Italia non conviene
L'onda del verde è un business come tanti altri. Basta dirselo e non farsi prendere per il naso. In passato ci sono state le lobby degli idrocarburi, quelle del tabacco ai tempi di Marlboro man e le immancabili pressioni dei colossi delle armi. Pellicole su pellicole ne hanno raccontato le dinamiche. Ora le nazioni che hanno campato per decenni sulle materie prime fossili finanziano qualunque convegno inizi con la parola «green». Le sette sorelle si dedicano allo sviluppo dei concetti di «resilienza» e sostenibilità. L'industria della Difesa, infine, è perennemente osteggiata, nonostante garantisca ritorni industriali decisamente elevati rispetto a tutti i filoni sovvenzionati dalla spesa pubblica. Motivo per cui gli esperti lobbisti si spostano sulla nuova mangiatoia. Un esempio su tutti. Basta prendersi il Green new deal della nuova icona dei dem americani, Alexandria Ocasio-Cortez. Un misto di piano Marshall e di rivoluzione keynesiana per rendere le reti elettriche intelligenti e far circolare auto e mezzi di trasporto con mega batterie elettriche. L'Unione europea rischia di spingerci in una direzione non troppo lontana dal delirio della Cortez. Un esempio vicino a noi? La mossa dei 5 stelle per tassare le auto a benzina, gasolio e gas e incentivare solo le elettriche. La vulgata portata avanti da Greta Thunberg è perfetta per tirare la volata ad emendamenti che potrebbero spingersi addirittura oltre. Eppure il nostro Paese avrebbe il dovere di tutelarsi e di portare avanti un piano energetico su misura, in modo da incentivare l'economia interna e i posti di lavoro. Invece lo storytelling e i tour globali di Greta rischiano di portarci in un direzione ostinata e contraria: pochi benefici all'ambiente e grossi danni al nostro Pil.
La falsità ideologica dell'auto elettrica sta ad esempio nell'impatto zero: il livello di inquinamento dipende non solo dalle emissioni, ma anche da come viene prodotta l'energia per caricare le batterie. E se questa è generata con impianti che bruciano un combustibile fossile e deve poi essere trasportata per centinaia di chilometri, l'anidride carbonica totale è senza dubbio maggiore di quella prodotta dai motori endotermici. Non siamo neppure certi che la tecnologia sia ecologicamente sostenibile. Serve un piano globale per il riciclo delle batterie ad alta capacità, poiché anche quelle più moderne difficilmente superano i quattro anni di vita. In Europa lo smaltimento tocca ai produttori, ma in molti altri Paesi del mondo, come la Cina, la questione non ha regole chiare, con potenziali impatti sulla salute e sull'inquinamento dei terreni e delle falde idriche. Eppure l'onda verde rende governi e consumatori acritici. Ad esempio, uno dei dossier chiave del nostro Paese passa per il gas e per le sue declinazioni più avanzate, tra cui il mix di metano e idrogeno.
Un recente studio del consorzio «Gas for Climate» dimostrerebbe che l'immissione di 270 miliardi di metri cubi di gas rinnovabile (biometano e idrogeno) nelle infrastrutture già esistenti e la produzione di elettricità prodotta da fonti ecosostenibili rappresenterebbero il mix perfetto per traghettare l'Europa in modo meno costoso possibile verso l'abbattimento delle emissione di CO2. Detto in parole povere, questo importante obiettivo si potrebbe raggiungere sfruttando le unità di stoccaggio di gas già esistenti che poterebbero essere riutilizzate senza troppi sforzi per immagazzinare biometano e idrogeno. Risparmio potenziale: 270 miliardi all'anno per le nazioni dell'area euro. Le nostre aziende potrebbero essere driver di tale tecnologia, non solo dentro i confini dell'Italia.
Stesso discorso si può fare per il biometano. L'altro giorno è stato firmato un accordo di filiera del settore agricolo e industriale, a poco più di un anno dall'emanazione del decreto 2 marzo 2018 sulla promozione dell'uso del biometano stesso e degli altri biocarburanti avanzati nel settore dei trasporti, che si inserisce non solo nel raggiungimento del target sulle energie rinnovabili nei trasporti al 2020. La cosa positiva della filiera tricolore sta nei posti di lavoro. Stando ai dati delle associazioni agricole, il settore risulta a grande intensità occupazionale: negli ultimi dieci anni ha favorito la creazione di oltre 6.400 posti di lavoro permanenti nel nostro Paese. Prima di infilarsi in battaglia ecologiste è bene pensare chi ci guadagnerà. La nostra economia è stagnante, e quella del Vecchio Continente non si è ancora ripresa. In questo momento la battaglia per i dazi commerciali tra Usa e Cina rischia di fare dell'Europa un grosso vaso di coccio fermo in attesa degli eventi. Stanziare ulteriori fondi per le rinnovabili, per le vetture elettriche o altre amenità ideologiche sembra non essere più sostenibile. Un Paese deve darsi una strategia energetica tarata sulle proprie specifiche necessità e soprattutto sui ritorni economici.
Non possiamo spingere tutto su un comparto se poi a beneficiarne saranno aziende tedesche o cinesi. Gli incentivi alle rinnovabili pesano sulle bollette degli italiani. Nel 2016 una famiglia tipo di quattro persone ha speso in un anno circa 2.600 euro per scaldarsi e avere corrente. Il 5% (meno di 140 euro) è andato direttamente a sostenere le rinnovabili. Eppure in Italia da tempo manca una strategia chiara e univoca. A seguire i racconti di Greta si rischia di peggiorare la situazione attuale e alzare i costi per le rinnovabili senza creare nuovi posti di lavoro. Una brutta favola.
Claudio Antonelli
Diecimila gretini vanno in piazza: «La nostra lotta durerà anni»
«La sola cosa di cui abbiamo bisogno è un futuro. E la cosa più triste è che la maggior parte dei bambini non è consapevole del destino che li aspetta». Dopo la visita in Senato e dal Papa, la giovane attivista svedese Greta Thunberg ha partecipato alla manifestazione per il clima organizzata dal movimento Fridays for future a piazza del Popolo a Roma. Con Dior (in onore dello stilista?), l'ormai celebre maialino portato al guinzaglio, parlando da un palco alimentato da 120 biciclette con la dinamo per non consumare troppa energia «sporca», Greta è tornata a sollecitare i suoi coetanei «a fare la differenza con gli adulti che fino a oggi hanno detto menzogne e fatto promesse senza mantenerle, in un mondo dove la crisi è sempre stata ignorata». Sono stati migliaia i liceali «gretini» (3.500 secondo la Questura, 10.000 secondo gli organizzatori) arrivati nella capitale per chiedere ai governi di tutto il mondo di fare presto per combattere il riscaldamento globale, perché il clima è già cambiato ma «non è per colpa nostra». E a chi dice che Greta e compagnia stanno perdendo tempo, lei ribadisce: «Noi stiamo cambiando il mondo».
Eppure la stessa paladina della lotta contro il riscaldamento climatico, già candidata al premio Nobel per la pace, ammette che «negli ultimi 6 mesi milioni di ragazzi delle scuole hanno fatto sciopero ma nulla è cambiato, infatti le emissioni continuano a crescere e non vi è un cambiamento politico da nessuna parte. Dobbiamo prepararci, dobbiamo continuare per molto tempo. La nostra lotta non è una questione di settimane o di mesi, ma di anni». Chissà se ne erano consapevoli anche i ragazzi, che sotto un caldo sole quasi estivo, innalzavano decine di cartelli disegnati a mano, con divertenti slogan: da «Ci avete rotto i polmoni» a «Piantalberi», da «Make earth cool again» a «Make earth Greta again», a «Riscalda il tuo cuore non il tuo pianeta».
Lo ha ribadito la Thunberg invitando la bella gioventù a scegliere da che parte stare. «Siamo a un bivio per l'umanità. È ora che dobbiamo scegliere il sentiero da prendere. Siamo qui ora per scegliere e per invitare gli altri a seguire il nostro esempio. È un problema che accomuna tutti i Paesi. Il nostro futuro è stato venduto perché poche persone possano fare molti soldi. Quando ci dicono che il cielo è l'unico limite ci dicono una bugia. Non protestiamo perché gli adulti si facciano i selfie con noi. Noi bambini lo facciamo perché si agisca in concreto. Non siamo noi ad aver causato questa crisi. Ci siamo solo nati in mezzo. E vediamo che le promesse che ci vengono fatte non vengono rispettate. Ma noi continueremo a combattere per il nostro futuro e il nostro pianeta. Purtroppo molti di noi lo capiranno quando sarà troppo tardi». Insomma, l'obiettivo è soltanto uno: salvare il pianeta, come dicono un po' tutti i giovani e gli attivisti di Fridays for future di Roma, loro che sicuramente sono dei paladini della raccolta differenziata a casa e a scuola, contribuendo così al corretto smaltimento e recupero dei rifiuti. Di certo sanno che nel primo trimestre 2019 in Italia le temperature minime sono state, secondo le elaborazioni Coldiretti dei dati Isac Cnr, di 0,76 gradi superiori alla media. Non solo, il 2019 è tra i più caldi del pianeta, visto che la temperatura media del primo trimestre sulla superficie della Terra e degli oceani è stata di 0,90 gradi superiore rispetto alla media del XX secolo. Solo il primo trimestre del 2016 e quello del 2017 sono risultati più caldi da quando sono iniziate le rilevazioni dal 1880.
Non c'è stato ieri l'incontro tra il ministro dell'Ambiente, Sergio Costa, e la sedicenne svedese. «Non voglio mettere il cappello sulla piazza, questa deve essere una piazza di giovani senza colori», ha detto il ministro, «L'incontro ci sarà magari la prossima volta».
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Luisa Neubauer, vice dell'ambientalista in Germania, è leader di una campagna lautamente finanziata da Soros, Bill Gates e Bono. L'Ong «We don't have time» ha raccolto 13 milioni sfruttando l'immagine della sedicenne. Il 22 aprile lancerà un suo social network.Non è ecologia, ma solo un business che oltretutto all'Italia non conviene. Quella ecocompatibile è l'ultima mangiatoia delle grandi lobby, perciò è partito l'input globale a investirci. Ma per nazioni come la nostra questi nuovi filoni sono una beffa: costano di più e non creano posti di lavoro.Diecimila gretini vanno in piazza: «La nostra lotta durerà anni». La svedese a Roma con i baby attivisti. Il ministro Sergio Costa rifiuta di incontrarla.Lo speciale comprende tre articoli. Dopo una prima fase di gestazione, la gigantesca operazione mediatica costruita intorno a Greta Thunberg, la giovane attivista svedese che si batte contro il cambiamento climatico, si accinge a staccare i primi dividendi. Perché se è vero come diceva l'economista John Maynard Keynes che «nel lungo periodo siamo tutti morti», d'altro canto l'antico detto latino secondo cui pecunia non olet non cessa mai di essere valido. Quante volte negli ultimi mesi ci siamo sentiti ripetere che il tempo sta per scadere e che se non facciamo qualcosa siamo spacciati? Il «fate presto» in chiave ecologista è un mantra talmente potente da riuscire a mettere d'accordo personaggi apparentemente agli antipodi come papa Francesco, Bono Vox, Emmanuel Macron, Sergio Mattarella e Jean Claude Juncker. Non c'è tempo: Greta l'ha ripetuto svariate volte anche durante la visita romana di questi giorni culminata ieri con il consueto sciopero del venerdì, spingendosi fino a fissare per il 2030 la data della presunta apocalisse.Non è affatto un caso, dunque, se la startup fondata dall'imprenditore svedese Ingmar Rentzhog e sviluppata all'ombra di Greta Thunberg sia stata battezzata We don't have time, che in inglese significa per l'appunto «non c'è tempo». Obiettivo finale il lancio di un nuovo social network, fissato per il 22 aprile in occasione della Giornata della Terra, per sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema del cambiamento climatico. Scorrendo la lista degli ospiti che hanno confermato la presenza all'evento inaugurale ci imbattiamo in alcuni personaggi interessanti. Il nome più in vista è quello di Jeffrey Sachs, economista statunitense e direttore dell'Earth institute della Columbia University. Sachs è considerato l'ispiratore dei contenuti economici dell'enciclica Laudato si' e solo lo scorso novembre ha tenuto in Vaticano una conferenza nella quale, novello Mosè, mostra in una slide le nuove tavole della legge ambientalista con tanto di «10 comandamenti del cambiamento climatico». Non è assurdo pensare che ci sia il suo zampino dietro al cordialissimo incontro tra Greta Thunberg e papa Jorge Mario Bergoglio. Nel 2006 l'economista aveva ricevuto da George Soros un assegno da ben 50 milioni di dollari, erogato in favore di Millennium promises, un'organizzazione nata per combattere la povertà in Africa e della quale ancora oggi Sachs risulta direttore. E la lunga mano del «filantropo» ungherese compare anche dietro la ventiduenne Luisa Neubauer, vice di Greta in Germania. La campagna «One» per la quale è ambasciatrice ha ricevuto infatti almeno mezzo milione di dollari dalla Open society di Soros, oltre a 13 milioni donati nel 2017 dalla fondazione Bill e Melinda Gates. Scorrendo più avanti, immancabile la presenza dei giovanissimi attivisti che oggi tanto vanno di moda. Si va da Jamie Margolin (alter ego statunitense di Greta) a Tiziana Arredondo e non manca nemmeno un italiano, il sedicenne Aran Cosentino. Tra i partner troviamo, oltre a un'ampia rosa di Ong: The climate reality project di Al Gore, Connect4climate della World Bank e Global Utmaning, il think tank del ricchissimo ex ministro Kristina Persson e del quale Rentzhog risulta presidente. Ingmar Rentzhog è legato a doppio filo alla famiglia Thunberg. Quando il 20 agosto dello scorso anno Greta inizia di fronte al parlamento svedese il suo skolstrejk for klimatet (sciopero da scuola per il clima, ndr), guarda caso Rentzhog si trova nei paraggi e pubblica le foto della giovane sui social. La segnalazione viene raccolta dall'importante quotidiano svedese Aftonbladet, che rilancia le immagini di Greta a gambe incrociate con a fianco il suo ormai celebre cartello. Passano appena tre giorni e lo stesso giornale dedica ampio spazio a un servizio proprio sui Thunberg. Di recente il papà Svante, attore e produttore, e la mamma Malena Ernman, cantante lirica, avevano pubblicato un libro nel quale raccontano come la sindrome di Asperger della quale soffre la figlia e la sua «ossessione» per il cambiamento climatico avesse cambiato le loro vite. La vicenda diventa virale e si trasforma in un trampolino di lancio tanto per la coppia quanto per Greta, la cui notorietà si diffonde presto ben oltre i confini scandinavi. Nel bene e nel male, Ingmar Rentzhog contribuisce in maniera decisiva a lanciare la figura della ragazza.Da buon imprenditore, Rentzhog fiuta le potenzialità dell'affare e continua a lavorare nell'ombra con l'obiettivo di reperire fondi per la sua creatura. Senza mettersi troppi scrupoli, in vista della campagna di fundraising lanciata a novembre, Rentzhog cita nel prospetto informativo destinato agli investitori il nome di Greta Thunberg per ben 11 volte. Un modo assai esplicito per marcare il territorio e ribadire che quel personaggio lo ha inventato lui. Negli stessi giorni, l'imprenditore nomina la giovane attivista nel board di We don't have time. Una ciliegina sulla torta che aiuta a convogliare nei conti della startup ben 13,1 milioni di corone svedesi (l'equivalente di 1,25 milioni di euro). La famiglia della ragazza e i media svedesi non la prendono bene, e lo accusano di aver sfruttato il nome dell'adolescente per i proprio scopi. Sebbene i Thunberg si siano dissociati dalla vicenda e Greta abbia poi dato le dimissioni dal board, Rentzhog va avanti spedito con il suo progetto che, come detto, si accinge a partire nel giro di una manciata di giorni. Perché, quando si tratta di far soldi, il tempo non manca mai.Antonio Grizzuti<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-i-burattinai-di-greta-e-ora-di-incassare-2635075930.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="non-e-ecologia-ma-solo-un-business-che-oltretutto-allitalia-non-conviene" data-post-id="2635075930" data-published-at="1765898354" data-use-pagination="False"> Non è ecologia, ma solo un business che oltretutto all’Italia non conviene L'onda del verde è un business come tanti altri. Basta dirselo e non farsi prendere per il naso. In passato ci sono state le lobby degli idrocarburi, quelle del tabacco ai tempi di Marlboro man e le immancabili pressioni dei colossi delle armi. Pellicole su pellicole ne hanno raccontato le dinamiche. Ora le nazioni che hanno campato per decenni sulle materie prime fossili finanziano qualunque convegno inizi con la parola «green». Le sette sorelle si dedicano allo sviluppo dei concetti di «resilienza» e sostenibilità. L'industria della Difesa, infine, è perennemente osteggiata, nonostante garantisca ritorni industriali decisamente elevati rispetto a tutti i filoni sovvenzionati dalla spesa pubblica. Motivo per cui gli esperti lobbisti si spostano sulla nuova mangiatoia. Un esempio su tutti. Basta prendersi il Green new deal della nuova icona dei dem americani, Alexandria Ocasio-Cortez. Un misto di piano Marshall e di rivoluzione keynesiana per rendere le reti elettriche intelligenti e far circolare auto e mezzi di trasporto con mega batterie elettriche. L'Unione europea rischia di spingerci in una direzione non troppo lontana dal delirio della Cortez. Un esempio vicino a noi? La mossa dei 5 stelle per tassare le auto a benzina, gasolio e gas e incentivare solo le elettriche. La vulgata portata avanti da Greta Thunberg è perfetta per tirare la volata ad emendamenti che potrebbero spingersi addirittura oltre. Eppure il nostro Paese avrebbe il dovere di tutelarsi e di portare avanti un piano energetico su misura, in modo da incentivare l'economia interna e i posti di lavoro. Invece lo storytelling e i tour globali di Greta rischiano di portarci in un direzione ostinata e contraria: pochi benefici all'ambiente e grossi danni al nostro Pil. La falsità ideologica dell'auto elettrica sta ad esempio nell'impatto zero: il livello di inquinamento dipende non solo dalle emissioni, ma anche da come viene prodotta l'energia per caricare le batterie. E se questa è generata con impianti che bruciano un combustibile fossile e deve poi essere trasportata per centinaia di chilometri, l'anidride carbonica totale è senza dubbio maggiore di quella prodotta dai motori endotermici. Non siamo neppure certi che la tecnologia sia ecologicamente sostenibile. Serve un piano globale per il riciclo delle batterie ad alta capacità, poiché anche quelle più moderne difficilmente superano i quattro anni di vita. In Europa lo smaltimento tocca ai produttori, ma in molti altri Paesi del mondo, come la Cina, la questione non ha regole chiare, con potenziali impatti sulla salute e sull'inquinamento dei terreni e delle falde idriche. Eppure l'onda verde rende governi e consumatori acritici. Ad esempio, uno dei dossier chiave del nostro Paese passa per il gas e per le sue declinazioni più avanzate, tra cui il mix di metano e idrogeno. Un recente studio del consorzio «Gas for Climate» dimostrerebbe che l'immissione di 270 miliardi di metri cubi di gas rinnovabile (biometano e idrogeno) nelle infrastrutture già esistenti e la produzione di elettricità prodotta da fonti ecosostenibili rappresenterebbero il mix perfetto per traghettare l'Europa in modo meno costoso possibile verso l'abbattimento delle emissione di CO2. Detto in parole povere, questo importante obiettivo si potrebbe raggiungere sfruttando le unità di stoccaggio di gas già esistenti che poterebbero essere riutilizzate senza troppi sforzi per immagazzinare biometano e idrogeno. Risparmio potenziale: 270 miliardi all'anno per le nazioni dell'area euro. Le nostre aziende potrebbero essere driver di tale tecnologia, non solo dentro i confini dell'Italia. Stesso discorso si può fare per il biometano. L'altro giorno è stato firmato un accordo di filiera del settore agricolo e industriale, a poco più di un anno dall'emanazione del decreto 2 marzo 2018 sulla promozione dell'uso del biometano stesso e degli altri biocarburanti avanzati nel settore dei trasporti, che si inserisce non solo nel raggiungimento del target sulle energie rinnovabili nei trasporti al 2020. La cosa positiva della filiera tricolore sta nei posti di lavoro. Stando ai dati delle associazioni agricole, il settore risulta a grande intensità occupazionale: negli ultimi dieci anni ha favorito la creazione di oltre 6.400 posti di lavoro permanenti nel nostro Paese. Prima di infilarsi in battaglia ecologiste è bene pensare chi ci guadagnerà. La nostra economia è stagnante, e quella del Vecchio Continente non si è ancora ripresa. In questo momento la battaglia per i dazi commerciali tra Usa e Cina rischia di fare dell'Europa un grosso vaso di coccio fermo in attesa degli eventi. Stanziare ulteriori fondi per le rinnovabili, per le vetture elettriche o altre amenità ideologiche sembra non essere più sostenibile. Un Paese deve darsi una strategia energetica tarata sulle proprie specifiche necessità e soprattutto sui ritorni economici. Non possiamo spingere tutto su un comparto se poi a beneficiarne saranno aziende tedesche o cinesi. Gli incentivi alle rinnovabili pesano sulle bollette degli italiani. Nel 2016 una famiglia tipo di quattro persone ha speso in un anno circa 2.600 euro per scaldarsi e avere corrente. Il 5% (meno di 140 euro) è andato direttamente a sostenere le rinnovabili. Eppure in Italia da tempo manca una strategia chiara e univoca. A seguire i racconti di Greta si rischia di peggiorare la situazione attuale e alzare i costi per le rinnovabili senza creare nuovi posti di lavoro. Una brutta favola. Claudio Antonelli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-i-burattinai-di-greta-e-ora-di-incassare-2635075930.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="diecimila-gretini-vanno-in-piazza-la-nostra-lotta-durera-anni" data-post-id="2635075930" data-published-at="1765898354" data-use-pagination="False"> Diecimila gretini vanno in piazza: «La nostra lotta durerà anni» «La sola cosa di cui abbiamo bisogno è un futuro. E la cosa più triste è che la maggior parte dei bambini non è consapevole del destino che li aspetta». Dopo la visita in Senato e dal Papa, la giovane attivista svedese Greta Thunberg ha partecipato alla manifestazione per il clima organizzata dal movimento Fridays for future a piazza del Popolo a Roma. Con Dior (in onore dello stilista?), l'ormai celebre maialino portato al guinzaglio, parlando da un palco alimentato da 120 biciclette con la dinamo per non consumare troppa energia «sporca», Greta è tornata a sollecitare i suoi coetanei «a fare la differenza con gli adulti che fino a oggi hanno detto menzogne e fatto promesse senza mantenerle, in un mondo dove la crisi è sempre stata ignorata». Sono stati migliaia i liceali «gretini» (3.500 secondo la Questura, 10.000 secondo gli organizzatori) arrivati nella capitale per chiedere ai governi di tutto il mondo di fare presto per combattere il riscaldamento globale, perché il clima è già cambiato ma «non è per colpa nostra». E a chi dice che Greta e compagnia stanno perdendo tempo, lei ribadisce: «Noi stiamo cambiando il mondo». Eppure la stessa paladina della lotta contro il riscaldamento climatico, già candidata al premio Nobel per la pace, ammette che «negli ultimi 6 mesi milioni di ragazzi delle scuole hanno fatto sciopero ma nulla è cambiato, infatti le emissioni continuano a crescere e non vi è un cambiamento politico da nessuna parte. Dobbiamo prepararci, dobbiamo continuare per molto tempo. La nostra lotta non è una questione di settimane o di mesi, ma di anni». Chissà se ne erano consapevoli anche i ragazzi, che sotto un caldo sole quasi estivo, innalzavano decine di cartelli disegnati a mano, con divertenti slogan: da «Ci avete rotto i polmoni» a «Piantalberi», da «Make earth cool again» a «Make earth Greta again», a «Riscalda il tuo cuore non il tuo pianeta». Lo ha ribadito la Thunberg invitando la bella gioventù a scegliere da che parte stare. «Siamo a un bivio per l'umanità. È ora che dobbiamo scegliere il sentiero da prendere. Siamo qui ora per scegliere e per invitare gli altri a seguire il nostro esempio. È un problema che accomuna tutti i Paesi. Il nostro futuro è stato venduto perché poche persone possano fare molti soldi. Quando ci dicono che il cielo è l'unico limite ci dicono una bugia. Non protestiamo perché gli adulti si facciano i selfie con noi. Noi bambini lo facciamo perché si agisca in concreto. Non siamo noi ad aver causato questa crisi. Ci siamo solo nati in mezzo. E vediamo che le promesse che ci vengono fatte non vengono rispettate. Ma noi continueremo a combattere per il nostro futuro e il nostro pianeta. Purtroppo molti di noi lo capiranno quando sarà troppo tardi». Insomma, l'obiettivo è soltanto uno: salvare il pianeta, come dicono un po' tutti i giovani e gli attivisti di Fridays for future di Roma, loro che sicuramente sono dei paladini della raccolta differenziata a casa e a scuola, contribuendo così al corretto smaltimento e recupero dei rifiuti. Di certo sanno che nel primo trimestre 2019 in Italia le temperature minime sono state, secondo le elaborazioni Coldiretti dei dati Isac Cnr, di 0,76 gradi superiori alla media. Non solo, il 2019 è tra i più caldi del pianeta, visto che la temperatura media del primo trimestre sulla superficie della Terra e degli oceani è stata di 0,90 gradi superiore rispetto alla media del XX secolo. Solo il primo trimestre del 2016 e quello del 2017 sono risultati più caldi da quando sono iniziate le rilevazioni dal 1880. Non c'è stato ieri l'incontro tra il ministro dell'Ambiente, Sergio Costa, e la sedicenne svedese. «Non voglio mettere il cappello sulla piazza, questa deve essere una piazza di giovani senza colori», ha detto il ministro, «L'incontro ci sarà magari la prossima volta».
(Arma dei Carabinieri)
Presso la Scuola Ufficiali Carabinieri l'evento è stato presentato da Licia Colò, alla presenza del Ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, e del Gen. C.A. Fabrizio Parrulli, Comandante del Cufaa(Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari Carabinieri). Nel corso dell’evento, anche il Segretario Generale della Convenzione delle Nazioni Unite Cites, Ivonne Higuero, ha rivolto un video-messaggio di saluto alla platea, elogiando l’impegno pluriennale profuso dai Carabinieri e dalle autorità italiane nel contrasto ai traffici di specie selvatiche protette.
La Convenzione Cites, ratificata dall’Italia con la legge n. 874 del 19 dicembre 1975, rappresenta oggi il più importante strumento internazionale per garantire un commercio sostenibile di oltre 40.000 specie di fauna e flora protette. Adottata dalle Nazioni Unite e ratificata da 185 Paesi, la Convenzione costituisce il pilastro normativo per impedire che mercati illegali, abusi e prelievi eccessivi compromettano la sopravvivenza delle specie più vulnerabili.
Il Calendario Cites 2026, realizzato dal Raggruppamento Carabinieri Cites del Comando Carabinieri per la Tutela della Biodiversità del Cufaa, ripercorre l’incessante lavoro svolto prima dal Corpo Forestale dello Stato e, dal 2017, dall’Arma dei Carabinieri attraverso i Nuclei Cites, nel contrasto ai traffici illegali e nella salvaguardia della biodiversità globale.
L’opera accompagna il pubblico in un viaggio attraverso 12 storie emblematiche, ognuna dedicata a una specie protetta che, grazie all’azione dei Carabinieri, ha trovato una nuova possibilità di vita. Tra queste, Edy e Bingo, due scimpanzé sottratti a gravi maltrattamenti in circhi e locali notturni; il leopardo rinvenuto in uno zoo privato illegale a Guspini (VS) e trasferito in una struttura idonea; Oscar, una rara tigre bianca recuperata da condizioni incompatibili con il benessere animale.
Il calendario racconta, inoltre, il ritorno alla libertà di centinaia di esemplari di Testudo graeca e Testudo hermanni, reimmessi nei loro habitat naturali dopo essere stati sequestrati ai traffici illegali, così come il delicato rimpatrio di numerose piante del genere Copiapoa nel deserto di Atacama, in Cile.
A chiudere il racconto, l’energia dei tursiopi, nuovamente liberi di nuotare in acque pulite e adeguate, testimonianza del successo delle attività di recupero e trasferimento operate dagli specialisti Cites.
Ogni storia rappresenta un simbolo del trionfo della legalità sulla sofferenza, sull’abuso e sul profitto illecito, e riflette l’impegno quotidiano dei Carabinieri nel difendere ecosistemi, specie rare e patrimoni naturali che appartengono all’intera umanità.
Nel corso dell’evento, sempre all’interno della Scuola Ufficiali Carabinieri, è stata allestita una mostra fotografica a cura del fotografo Marco Lanza, dal titolo: “Vite spezzate: dal contrasto al commercio illegale in Italia, i reperti confiscati del deposito centrale dei Carabinieri Cites”, con scatti realizzati nel Deposito di Magliano dei Marsi (AQ), gestito dal Raggruppamento Carabinieri Cites, dove viene custodita gran parte dei reperti confiscati durante le attività di contrasto al traffico illecito di animali e piante in via d’estinzione. Ogni fotografia riporta animali diventati oggetti tra oggetti, volutamente inseriti dall’autore in un contesto scarno ed essenziale, che quasi fanno percepire incredulità nel trovarsi in un luogo come questo; animali che interrogano l’osservatore mentre sembra vogliano uscire e riconquistare il proprio ruolo in natura.
Il cinquantesimo anniversario della Cites e il nuovo Calendario 2026 sono dunque l’occasione per riaffermare il valore della cooperazione internazionale e il ruolo determinante dell’Italia – e dell’Arma dei Carabinieri – nel contrasto alla criminalità ambientale e nella protezione della biodiversità mondiale.
Sul Calendario è riportata anche una personale dichiarazione del Gen. C.A. Salvatore Luongo, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri: «L’anniversario per i 50 anni dell’Atto di ratifica in Italia della Convenzione di Washington rappresenta un’occasione di riflessione sull’importanza della salvaguardia della biodiversità su scala planetaria e sulla necessità di affrontare sempre più efficacemente la criminalità che lucra senza alcuno scrupolo sullo sfruttamento della fauna e flora minacciate di estinzione. Conservazione attiva, educazione alla legalità, prevenzione e contrasto sono le direttrici che vedono l’Arma dei Carabinieri, nel suo insieme e con i propri assetti di specialità del Cufaa, sempre più impegnata per dare piena attuazione ai principi fondamentali della Carta Costituzionale su tutto il territorio nazionale e negli scenari di cooperazione internazionale».
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Guido Carlino (Imagoeconomica)
È mancato quindi, grazie al «salvacondotto» approvato dal governo Conte nel 2020, quel controllo preventivo che ha portato i magistrati contabili a bocciare il progetto per la realizzazione del Ponte di Messina. Un paradosso in parte comprensibile, visto che l’emergenza per definizione richiede una certa flessibilità, ma che da quello che è emerso nel corso dell’audizione non viene applicata ad altre strutture commissariali che gestiscono emergenze. Come quella che gestisce la ricostruzione post terremoto del Centro Italia e quella che ha in carico le alluvioni dell’Emilia-Romagna.
In particolare, si legge ancora nel documento, «il perimetro stesso del controllo è stato delimitato attraverso la sottrazione al sindacato preventivo dei contratti relativi all’acquisto di dispositivi e, più in generale, di ogni altro atto negoziale posto in essere dal dipartimento della Protezione civile della presidenza del consiglio dei ministri e dai soggetti attuatori, in quanto conseguente all’urgente necessità di far fronte all’emergenza. A ciò si è accompagnata la limitazione della responsabilità amministrativo-contabile per tali atti “ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario o dell’agente che li ha posti in essere o che vi ha dato esecuzione”». «Ne è derivata», è la lapidaria conclusione, «una significativa compressione delle funzioni di controllo e di quelle giurisdizionali che ha coinvolto anche l’attività del commissario straordinario».
Sta di fatto che gli approfondimenti svolti dai magistrati contabili sembrano essere importanti: «Ad oggi, particolarmente intensa è stata l’istruttoria svolta nei confronti della presidenza del consiglio dei ministri, del dipartimento della Protezione civile, del ministero della Salute, del ministero dell’Economia e delle finanze nonché dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, con riferimento ai flussi finanziari, ai costi della struttura commissariale, alle procedure negoziali, alle eventuali criticità gestionali rilevate e alle conseguenti azioni correttive, agli eventuali contenziosi, nonché alle attività di monitoraggio poste in essere, anche a seguito della chiusura dello stato di emergenza.
Oggetto di approfondimento è stato altresì lo sdoganamento dei dispositivi di protezione individuale e dei beni mobili di qualsiasi genere occorrenti per fronteggiare l’emergenza pandemica». I risultati delle attività in corso però sono ancora top secret: «Della conclusione dell’indagine si darà atto al momento della sua approvazione e pubblicazione».
Per Carlino l’argomento delle emergenze è delicato: «Non può tuttavia non richiamarsi sin d’ora la rilevanza di una particolare attenzione alle modalità di gestione attraverso strutture commissariali, alla luce di quanto è stato osservato dalla Corte dei Conti rispetto a fattispecie analoghe. È evidente che situazioni emergenziali impongono risposte rapide, capaci di superare l’ordinario assetto delle competenze e le regole che governano il normale svolgimento dell’azione amministrativa».
Una riflessione che ha portato la capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Covid, Alice Buonguerrieri a chiedere a Carlino: «Esistono delle limitazioni ad oggi di controlli preventivi concomitanti pari a quelle che abbiamo letto nel Cura Italia per la struttura commissariale, anche su altre strutture emergenziali?». La risposta del magistrato contabile è netta: «Per quanto riguarda i controlli concomitanti, non abbiamo avuto altre limitazioni nelle attività di controllo. L’unica limitazione avuta è quella che riguarda i controlli sulle gestioni del Pnrr e del piano nazionale complementare».
Più diplomatica, ma altrettanto chiara, la risposta alla domanda della parlamentare di Fdi che chiedeva se quello messo in piedi da Giuseppe Conte fosse un modello da replicare. «Io ritengo», spiega Carlino, «che l’obiettivo non solo della Corte dei Conti ma del legislatore debba essere quello di garantire il buon andamento dell’azione amministrativa allora il buon andamento dell’azione amministrativa va garantito attraverso l’introduzione, attraverso il mantenimento di controlli seri, efficaci, esterni quali sono i controlli svolti dalla Corte dei Conti, siano essi controlli preventivi di legittimità, ovvero i controlli successivi».
Ma non basta. Nel documento c’è anche una frase che mette in discussione il modello sanitario sviluppato nel corso degli anni dai governi precedenti, in larga misura a trazione progressista, con un esplicito riferimento ai tagli, più volte minimizzati dagli esponenti del centrosinistra: «Dagli esami svolti dalla Corte è emerso come il biennio dell’emergenza pandemica abbia evidenziato criticità strutturali, quali le carenze nella rete dei servizi territoriali e il sottodimensionamento delle risorse umane, particolarmente incise dalle misure di contenimento della spesa operate nel decennio precedente».
L’audizione della toga ha portato a una dura presa di posizione di Fratelli d’Italia. «Il presidente della Corte dei Conti, Guido Carlino, ha confermato in commissione Covid che, durante la prima fase della pandemia, si è consumato un fatto gravissimo: soltanto la struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri ha goduto, grazie alle norme del governo Conte, di un annullamento dei controlli da parte della Corte dei Conti. Nessun controllo, né preventivo né concomitante». A dirlo sono i capigruppo FdI a Camera e Senato, Galeazzo Bignami e Lucio Malan. «Questo fatto», prosegue la nota, «è stato aggravato da uno scudo penale, previsto dallo stesso esecutivo, che ha determinato una vera e propria immunità totale, poiché danni erariali ingenti venivano archiviati restando dunque impuniti». «Tutte le spese», concludono i due esponenti di Fdi, «erano giustamente attenzionate, tranne quelle di Arcuri e della sua struttura. I risultati di questo trattamento di favore, li abbiamo visiti: sperperi, mascherine inidonee cinesi e mediatori occulti amici».
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L’imam Shahin lascia il CPR: per i giudici non sarebbe una minaccia tale da giustificare la detenzione, nonostante le sue parole sul 7 ottobre e un passato già segnalato dal Viminale. Il provvedimento di espulsione resta, ma la decisione riapre una questione cruciale: fino a che punto la sicurezza nazionale può essere messa in secondo piano rispetto ai ricorsi e alle interpretazioni giudiziarie?
Friedrich Merz, che sabato, al congresso della Csu in Baviera, ha detto che i decenni di pax americana sono finiti, ha rassicurato nei giorni scorsi i siderurgici tedeschi affermando che proteggerà l’acciaio nazionale, anche con dazi alla Cina se necessario. Il suo governo ha cambiato idea circa la clausola Made in Europe su appalti e beni industriali e ora la sostiene.
Un mese fa il Consiglio di sicurezza nazionale tedesco ha espresso preoccupazione per il predominio cinese sui materiali critici e le filiere strategiche. Dopo che il presidente francese Emmanuel Macron si è espresso a favore dei dazi per fermare lo strapotere cinese, anche Berlino sta vincendo la propria riluttanza e sembra intenzionata a intensificare quello che Ursula von der Leyen aveva chiamato sinora, prudentemente, derisking.
La Germania ha perso quote di mercato a favore della Cina proprio nei settori industriali più pesanti, cioè macchinari industriali, apparecchiature elettriche, autoveicoli, componentistica e chimica.
La banca statale Kfw, una specie di Cassa depositi e prestiti tedesca che il governo usa per mascherare gli aiuti di Stato, sta chiedendo al governo di decidere cosa acquistare in Cina e cosa produrre in casa. La produzione manifatturiera tedesca è scesa del 14% dal picco raggiunto nel 2017, con un calo costante. Il deficit commerciale nei confronti della Cina è arrivato a 73 miliardi nei primi dieci mesi di quest’anno, mentre il surplus complessivo cinese tra gennaio e novembre ha superato per la prima volta i 1.000 miliardi di dollari.
Ma Merz è in una posizione difficile, per un paio di serissime ragioni. La prima è la frattura tra le grandi case automobilistiche e chimiche tedesche, che ancora stanno investendo in Cina (vedi Volkswagen e Bmw, che hanno annunciato di poter produrre là al 100%), e l’associazione degli industriali produttori di macchinari di Vorstadt-Dach-Main (Vdma), che accusa Pechino di concorrenza sleale e chiede al governo di difendere l’industria tedesca.
La seconda è una ragione ben più profonda. La situazione attuale della Germania è il risultato stesso della spinta europea alla competitività sui mercati mondiali basata su moneta unica, austerità e bassi salari. La delocalizzazione in Cina e l’abbraccio con l’economia cinese è servita all’Ue per mantenere il proprio modello export-led. Importare dalla Cina ha permesso di ricevere prodotti a basso prezzo che i lavoratori europei, pagati meno del giusto, possono permettersi. In altre parole, il deficit commerciale con la Cina è uno strumento politico di supporto alla compressione delle dinamiche salariali.
L’austerità interna all’eurozona si nutre delle merci cinesi meno costose, che ne sono un pilastro. La Germania, e di riflesso l’eurozona, hanno favorito e coltivato questo modello e ora ne sono soverchiate. Ecco perché per Berlino scegliere di rompere i legami con la Cina e rendere più care le importazioni con i dazi può significare la fine del proprio modello economico e sociale, basato sulla crescita trainata dalle esportazioni e sulla compressione della domanda interna. Per Merz non si tratta tanto di proteggere la propria industria, quanto di decidere se cambiare l’assetto complessivo della Germania o perire. Cioè se ridare fiato alla domanda interna, investendo risorse pubbliche, lasciando aumentare i salari e gestendo l’inflazione senza panico, o proseguire nella strategia suicida perseguita sinora.
La necessità delle merci cinesi per tenere in piedi il baraccone della moneta unica europea è un fatto, ma il cancelliere tedesco si trova davanti ad un compito per il quale non sembra preparato, né culturalmente né politicamente.
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