Per Amazon, Apple e grandi banche l’aborto diventa un benefit aziendale
La Corte suprema americana pensa di affossare l’aborto come diritto costituzionale, ma i grandi poteri economici non ci stanno. Dopo che, martedì, ha fatto il giro del mondo lo scoop del sito Politico, che ha diffuso una bozza del pronunciamento sul caso Dobbs vs Jackson che rovescerebbe la Roe vs Wade, sentenza che nel 1973, come noto, aprì all’aborto, in America è scoppiato letteralmente il finimondo. La protesta è andata ben oltre la mobilitazione di piazza.
I militanti abortisti hanno iniziato a prendere d’assalto le chiese e il timore è che nella giornata odierna, con la messa domenicale, i disordini possano moltiplicarsi. Nel frattempo, l’organizzazione Ruth sent us, ispirata alla memoria della giudice Ruth Ginzburg, deceduta nel 2020, ha perfino pubblicato una mappa con gli indirizzi di casa dei sei giudici conservatori della corte: Amy Coney Barrett, John Roberts, Samuel Alito, Brett Kavanaugh, Clarence Thomas e Neil Gorsuch. Anche la Casa bianca ha pensato bene di gettar benzina sul fuoco. Il presidente Joe Biden ha dichiarato che «l'idea che possa essere emanato un giudizio che impedirà a chiunque di abortire un bambino è decisamente esagerata», mentre mercoledì, intervenendo ad una serata di gala, Kamala Harris, la sua vice, ha rivolto alla suprema magistratura del Paese toni ai limiti dell’eversivo: «Come osano! Come osano dire a una donna cosa può fare con il proprio corpo!».
Ebbene, come se non bastasse, a quello che, fin dalla notizia di Politico, da molti letta come un pressing sui giudici, pare un accerchiamento senza precedenti della Corte suprema, si stanno ora unendo pure i colossi dell’economia americana. A rompere gli indugi è stata Amazon, che ha deciso di versare fino a 4.000 dollari alle dipendenti che vogliono andare ad abortire.
Più precisamente, secondo quanto ha riferito l’agenzia Reuters quasi in contemporanea allo scoop di Politico, il gigante di Jeff Bezos ha varato un aiuto economico per qualsiasi «trattamento», incluso l’intervento abortivo, che non fosse disponibile entro 100 miglia (161 chilometri) dalla casa del dipendente o di una sua persona a carico, e che non fosse possibile assicurare, in alternativa, con la telemedicina. Una scelta formalmente rivolta a tutti i dipendenti, uomini e donne; ma che sia, di fatto, un incentivo all’aborto è fuori discussione; così com’è indubbio che essa possa essere utilizzata da molte dipendenti dato che, a prescindere da ciò che farà la Corte suprema, in molti Stati repubblicani sono recentemente già entrate in vigore leggi così restrittive da indurre parecchie cliniche per aborti a chiudere i battenti.
Dinnanzi alla novità di Amazon il mondo pro life è insorto. La presidente di Culture of life Africa, Obianuju Ekeocha, ha dichiarato che «l’unica cosa che certi ricchi sono desiderosi di fare per i poveri è pagarli affinché uccidano i loro bambini», mentre la leader di Live action, Lila Rose, ritiene quello dei rimborsi spese per andare ad abortire sia null’altro che un escamotage per non pagare i congedi di maternità. Secondo Rose siamo davanti al più clamoroso oltraggio «che un capo può infliggere alle sue dipendenti: “Pagherò letteralmente 4.000 dollari per farti uccidere tuo figlio, così non devo pagare il congedo di maternità e puoi fare gli straordinari”».
Il fatto è che in questa partita non c’è solo Amazon. Altri grandi nomi dell’economia americana e globale, da Citigroup ad Apple, già da qualche tempo hanno scelto d’introdurre per le dipendenti misure di agevolazione dei «diritti riproduttivi», come sono eufemisticamente chiamati la contraccezione e soprattutto l’aborto. Non solo, pure la grande finanza medita di seguire questa strada. Secondo quanto ricostruito da Bloomberg, in seno ad almeno due tra le più potenti banche d’affari e multinazionali del globo, Goldman Sachs e Jp Morgan, si sta discutendo di estendere i benefici dell’aborto per coprire le spese di viaggio delle dipendenti.
Inutile dire che, se due giganti del genere si unissero ad Amazon, tutti e tre farebbero scuola. Infatti c’è già chi brinda a tale possibilità. Come Jen Stark del Center for business and social justice di Brs, secondo cui «se c’è un lato positivo» nella fuga notizie sul verdetto della Corte suprema che affosserebbe la Roe vs Wade, è proprio che «le aziende americane» si stanno mobilitando «prima che sia troppo tardi». In realtà, negli Stati Uniti si è, in questi giorni, levata pure qualche voce in favore d’una revisione della legislazione abortista.
Per esempio giovedì, sulle colonne del Wall Street Journal, il premio Pulitzer Peggy Noonan ha firmato un editoriale eloquente fin dal titolo, «La fine della Roe vs Wade farà bene all’America», in cui definisce l’osannata sentenza del 1973 come una ferita «mai guarita, e che potrebbe non guarire mai». Ma punti di vista del genere, almeno nell’establishment, rappresentano l’eccezione. I più sono scesi in guerra contro la Corte suprema. E in questo duello adesso i padroni del vapore vogliono un posto in prima fila.





