
Malato di cancro da tempo, il numero 10 del Brasile aveva 82 anni. Giocò un Mondiale da ragazzino e sbalordì il pianeta, è stato amato e universalmente riconosciuto come unica «alternativa» a Maradona.Da oggi rimarrà per sempre lì, a metà strada fra la terra e il cielo, mentre si prepara a colpire di testa con Tarcisio Burgnich proteso invano all’indietro e Ricky Albertosi che smanaccia l’aria. Il nostro Pelé è quello, immobile dentro la leggenda, al 18º minuto di Italia-Brasile, Città del Messico, finale mondiale 1970. Un gesto leggero e possente che Gianni Brera descrive così: «Sembrava che non fosse saltato a cercare la palla, ma fosse sceso da una liana di baobab o di sicomoro a umiliare i comuni mortali». Oggi verrebbe arrestato per razzismo.Edson Arantes do Nascimento. È morto il numero uno, se n’è andato a 82 anni per colpa di un tumore al colon e metastasi ai polmoni, al pancreas e all’intestino. Fra qualche settimana torneremo a pensare che sia ancora vivo e qualcuno dirà d’averlo visto palleggiare in un campetto alla periferia di San Paolo, come capitava a Elvis Presley nelle balere del Midwest. È un destino giusto per coloro che non si eclissano mai, anzi vengono rispettati grazie a un carisma che sopravvive alle leggi di natura. È morto il numero uno del Novecento, togliamoci subito il pensiero: la Fifa lo ha designato miglior calciatore del secolo e il Cio miglior atleta del secolo. Punto. Diego Maradona è stato il più geniale, ma Pelé ha vinto tre campionati del mondo e ha segnato 1.281 gol in 1.363 partite, con lui in campo si cominciava da uno a zero. Di nuovo punto. Mostrava anche da vecchio un sorriso da bambino ma l’ultima volta che lo abbiamo visto in pubblico piangeva. C’era la presentazione a Rio de Janeiro del progetto per un impianto sperimentale abbastanza assurdo: obiettivo, sfruttare l’energia cinetica dei calciatori per produrre energia. Disse travolto dall’emozione: «Mio padre mi chiamò Edson in onore di Thomas Alva Edison, questo progetto è per lui». Era vero, quel 23 ottobre 1940 a Tres Corazoes (Tre Cuori), nel Sud Est brasiliano, arrivò l’energia elettrica e quel povero Paese di contadini uscì per sempre dalla penombra. Un evento troppo grande per accorgersi che nello stesso giorno mamma Celeste stava dando alla luce il creolo più forte del mondo. Papà Dondinho era un discreto centravanti e avrebbe stabilito un record che il figlio non riuscì mai a battere: cinque gol di testa in una sola partita. Quel giorno osserva il neonato e scuote il capo: «Ha i piedi troppo piccoli». Accompagnata dalla profezia ortopedica, la famiglia si trasferisce a Bauru nello stato di San Paolo e il piccolo Edson farà di tutto per smentirla. I soldi in casa non bastano e a 11 anni Dico (mamma Celeste lo chiamerà così per tutta la vita) diventa aiuto lustrascarpe. La faccenda dei soprannomi e della nascita di quello definitivo, Pelé, è un capitolo a sé. Prima versione: il suo idolo è Bilé, portiere della squadra locale. Quando gioca a pallone con suo padre sceglie di stare in porta e a ogni parata grida «para Pilé», perché la «b» a quattro anni non gli esce ancora rotonda. Seconda versione: Pelé come piccoletto, glielo incolla alla schiena un compagno di classe che lui detesta. Da grande arriverà a 1 metro e 72, statura media, ma con un fisico da toro. E poi velocissimo, resistente, con un dribbling da stendere e un’elevazione formidabile. Nato a Tre Cuori e dotato di quattro polmoni. Terza versione: da bambino si sfiniva a giocare con palloni di fortuna - anche sfere fatte di stracci- su campi impresentabili, spelacchiati, peladas. Pelé. Quel ragazzino avrà anche i piedi piccoli (arriva a 39, stesso numero di Maradona) ma gioca divinamente già a 13 anni quando papà Dondinho si ricrede e lo affida alle cure di un vecchio amico, Valdemar de Brito, ex nazionale brasiliano, osservatore del Santos di San Paolo. È lui a pronunciare per primo la frase: «Questo ragazzo sarà il più grande calciatore del mondo». Esordisce a 15 anni con la maglia bianca del Santos, segna quattro gol, e non essendoci Mino Raiola nei paraggi starà lì tutta la vita prima di andare al luna park chiamato Cosmos. L’anno successivo è capocannoniere con 32 reti, l’inizio della sinfonia: 11 campionati nazionali, due coppe Libertadores, due coppe Intercontinentali. Più i tre mondiali e 77 gol in 91 partite con la casacca verdeoro della nazionale.Lui attribuisce tutto questo alla «ginga», il movimento principale della danza guerriera capoeira, sbarcata da un brigantino di negrieri a Salvador de Bahia con gli schiavi in arrivo dall’Africa. «La ginga è il fattore decisivo per giocare a calcio, un atteggiamento in cui il talento prevale sulla tecnica, il piacere del gesto è dominante. Dovendo scegliere solo un calciatore con queste caratteristiche dico Messi». Coloro che lo ammirano gli ricordano anche i 100 metri in 11 secondi, i 7 metri nel salto in lungo, l’1,85 nel salto in alto. In allenamento è sempre l’ultimo a smettere e questo gli vale un altro soprannome: gasolina. Ai mondiali di Svezia del 1958 il re bambino si svela al pianeta. Il Brasile uscito dall’incubo della sconfitta al Maracanà contro l’Uruguay è allenato da un rivoluzionario, Vicente Feola. Non tanto per il modulo ma per il supporto scientifico: medici, preparatori e lo psicologo che programma sedute quotidiane per capire se i più riluttanti al gioco di squadra - i «venezia» della capoeira - sono sulla buona strada per imparare a passare il pallone. Pelé in campo fa il matto, non lo prendono mai. In finale con la Svezia segna due gol, uno con pallonetto sul difensore e tiro al volo che diventa il simbolo del suo genio pedatorio. Vincono 5-2 i brasiliani. La prima rete svedese è merito di Nils Liedholm, che per anni si divertirà a tenere in piedi questo siparietto. «In mia carriera ho fermato anche Pelé». Ma Barone, ha segnato due gol. «Certo, solo due».L’impressione è enorme. Quel giorno Brera si stropiccia gli occhi. «Mettete tutti gli assi che volete in negativo, poneteli uno sull’altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti». Una sentenza. Lui è un uomo tranquillo, non sarà mai un apocalittico, un rivoluzionario anche fuori da campo. Mai un’icona pop come George Best, mai un divino maledetto come Diego Maradona, mai uno scienziato pazzo come Johann Cruijff. Lui è semplicemente mago Merlino, un tocco e tutto sembra facile, definitivo. Quattro anni dopo, ai mondiali del Cile, arriva da numero uno e i difensori gli massaggiano le gambe. Un terzino cecoslovacco gli sbriciola una caviglia nella prima partita, ma in Brasile raccontano un’altra storia: il papà del suo sostituto, l’Amarildo che sarebbe venuto al Milan a raccogliere qualche lira, è un sinistro macumbero e gli ha piazzato la fattura. C’è chi vorrebbe comprarlo a peso d’oro. Moratti padre lo tratta per l’Inter, la famiglia Agnelli per la Juventus, il Real Madrid gli fa una corte spietata. Ma Pelé non si muove anche perché il Parlamento lo blinda definendolo «patrimonio nazionale» e vietandone l’esportazione. Adesso è un’icona e se ne rende conto. «Quando il mio Brasile vince, e vince con classe, le persone dimenticano anche la disperazione e la fame». I suoi dribbling sono degli «olé» sull’aria della Carmen, la sua fama è planetaria. Nel 1969, Nigeria e Biafra in guerra firmano una tregua per ospitare una partita del Santos. Un giorno un arbitro lo espelle, ma è costretto a scappare inseguito dalla folla inferocita che non vuole perdersi le giocate del fenomeno. Poi al Maracanà, durante Santos-Vasco de Gama, arriva l’istante del destino che solo uno scrittore del calibro di Eduardo Galeano può raccontare. «L’arbitro fischiò il rigore, Pelé non volle tirarlo, centomila persone lo obbligarono a farlo. Questo rigore era differente: la gente sentì che aveva qualcosa di sacro. E per questo il popolo più casinaro del mondo fece silenzio. Il clamore della folla tacque di colpo come se obbedisse a un ordine: nessuno parlava, nessuno respirava, nessuno era lì. Pelé e il portiere Andrada erano soli, in solitudine aspettavano. Pelé fermo vicino al pallone nel punto bianco del rigore. Dodici passi più in là, Andrada, piegato su se stesso, in agguato tra i pali. Il portiere arrivò a toccarla, ma Pelé inchiodò il pallone in rete. Era il suo gol numero 1.000. Allora la folla tornò a esistere e saltò come un bambino pazzo di allegria, illuminando la notte». In quel momento l’Apollo 12 stava scendendo sulla Luna. Ai mondiali del Messico è inarrivabile. Burgnich, che lo marca in finale, ammette: «Pensavo che fosse fatto di carne e ossa come me. Beh, mi sbagliavo». Terzo titolo, la sua esultanza finisce su un francobollo da 10 centesimi. Canta con Gaetano Veloso e Chico Buarque, recita al cinema con Sylvester Stallone e Michael Caine (in Fuga per la vittoria di John Huston), il suo ritratto è firmato da Andy Warhol. Nel 1974 insegue qualche milione di dollari della Warner Communications, proprietaria dei Cosmos di New York. E il suo trasferimento è la prima notizia di calcio nella storia del New York Times a finire in prima pagina.Tre anni dopo si consegna alla vita di tutti i giorni con lo stesso sorriso da bambino. «Quando faccio una cosa mi piace farla bene», canticchia nello spot di un deodorante. Ne farà tante, di cose. Il ministro dello Sport, l’ambasciatore dell’Onu, il talent scout del Fulham (chissà perché), il testimonial di Atari che chiama Pelé il primo videogame legato al calcio. Il suo nome diventa anche uno stadio, una marca di caffè, la legge contro la corruzione nel calcio brasiliano (legge Pelé). Di lui Jorge Amado scrive: «Ci ha regalato momenti immortali, ci ha aiutato a credere che l’immortalità esiste».Nel film autobiografico, il giovane Pelé sta giocando nella hall dell’albergo di Stoccolma e rovescia con una pallonata involontaria la zuccheriera di un signore seduto di spalle a un tavolino. Quando si gira, quel signore è il vero Pelé. Il cerchio si chiude. Lui ragazzo, lui anziano, lui per sempre simbolo di uno sport senza arroganza, solo gentilezza. Su un muro di Rio sta scritto: «Se Pelé non fosse nato calciatore sarebbe nato pallone».
Sebastien Lecornu (Ansa)
Il premier succeduto a sé stesso nel giro di poche ore recluta ben 34 ministri: molti macronisti, non c’è Retailleau. I suoi repubblicani furiosi, lepenisti e sinistra radicale invocano subito la sfiducia. I socialisti abbozzano. L’ipotesi è che il governo veda sì e no il Natale.
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Il leader ucraino andrà alla Casa Bianca da Trump, che alla Knesset ha detto di volersi concentrare sulla Russia: «Risolveremo la situazione». L’intelligence tedesca: Mosca attaccherà la Nato. E Berlino valuta un’ulteriore esenzione sul debito per il riarmo.
Roberto Vannacci (Ansa)
- Il Carroccio cinque anni fa si era attestato al 22% mentre in questa tornata, pur schierando il generale, il passo indietro è stato molto evidente. Nel centrodestra serpeggiano critiche: «Qui, se ti presenti con retoriche estreme, non ti ascoltano».
- Zaia avvisa FdI: «Sono un problema? Allora vedrò di renderlo reale».
Lo speciale contiene due articoli.
Elly Schlein con Eugenio Giani (Ansa)
Povera matematica: per superare il centrodestra, la segretaria Pd, che non voleva nemmeno Giani, s’inventa le preferenze cumulative. E spara: «Se sommiamo Toscana, Marche e Calabria prendiamo più del governo».