2022-08-05
Pechino mostra i muscoli agli Usa e circonda Taiwan di missili e navi
Maxi esercitazioni belliche del Dragone in rappresaglia per la visita di Nancy Pelosi: pioggia di razzi e caccia verso lo Stretto. La Cina sfrutta la debolezza di Washington, che è divisa sulla linea da adottare contro le mire di Xi Jinping.Resta alta la tensione a Taiwan. L’esercito cinese ha avviato esercitazioni militari attorno all’isola, che dovrebbero durare fino a lunedì: si tratta delle manovre più ampie mai compiute nell’area da Pechino. Il Dragone ha lanciato undici missili Dongfeng nelle acque di Taiwan, mentre 22 caccia cinesi hanno superato la linea mediana dello stretto. Secondo i media statali di Pechino, le esercitazioni puntano a simulare un blocco aereo e navale intorno all’isola. Se Taipei ha attivato i sistemi di difesa e sparato razzi contro droni cinesi, il Giappone - dove è atterrata ieri Nancy Pelosi - ha denunciato che cinque missili sono caduti nella propria zona economica esclusiva. Tutto questo, mentre la portaerei statunitense Ronald Reagan effettuava operazioni nel Mar delle Filippine. Nel frattempo, il Dragone ha risposto duramente a un comunicato del G7, che aveva chiesto di evitare una «escalation non necessaria». «Sono gli Stati Uniti che hanno provocato la crisi e che continuano ad aumentare le tensioni», ha tuonato il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, incassando l’appoggio del Cremlino e convocando gli ambasciatori dei Paesi del G7 per «esprimere il più completo disappunto». Ricordiamo che Pechino ha giustificato le manovre militari come ritorsione alla recente visita della Pelosi sull’isola. Di reazione cinese «esagerata» ha a tal proposito parlato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Come La Verità scrive da giorni, il problema non risiede nel viaggio in sé. La Pelosi aveva tutto il diritto di recarsi a Taipei, visto che - con buona pace della propaganda di Pechino - l’isola non ha mai riconosciuto né è mai stata sotto il controllo della Repubblica popolare cinese, istituita da Mao Zedong nel 1949. Il problema è che la visita è stata preceduta da divergenze pubbliche tra la stessa Pelosi e Joe Biden, il quale aveva chiaramente lasciato intendere di non gradire il viaggio della Speaker a Taipei. Questo ha trasmesso ai cinesi un’immagine di divisione tra i vertici istituzionali americani, indebolendo così la capacità di deterrenza di Washington nei confronti del Dragone. L’altro ieri, anche Politico ha criticato la Casa Bianca per come ha gestito la questione, accusandola di aver commesso «pasticci pubblici a vantaggio di Pechino». Nonostante ostenti una retorica rabbiosa, la Repubblica popolare è tutt’altro che scontenta della recente visita della Pelosi: perché quella visita ha platealmente palesato delle fratture nelle alte sfere di Washington. Fratture che adesso incoraggiano il Dragone ad alzare l’asticella della temerarietà. Non a caso, lo abbiamo visto, quelle in corso sono le esercitazioni militari più grandi mai condotte da Pechino nei pressi di Taiwan. In una fase in cui il Dragone si fa sempre più aggressivo, l’ultima cosa di cui Taipei aveva bisogno è che gli Usa si mostrassero divisi. Tanto più che, dai tempi di Mao, Pechino ricorre al dossier taiwanese per testare le reazioni americane. E attenzione: il problema dell’indebolimento della deterrenza statunitense non nasce con il viaggio della Pelosi. A ottobre e maggio, Biden disse pubblicamente che avrebbe difeso Taipei in caso d’invasione cinese: un’affermazione che, se confermata, avrebbe modificato la classica posizione americana della cosiddetta «ambiguità strategica» (non chiarire preventivamente, cioè, se Washington abbia intenzione di prendere o meno le armi per tutelare l’isola da un attacco). Peccato che, in entrambi i casi, lo staff della Casa Bianca si sia affrettato a smentire il presidente, negando un mutamento nella posizione di Washington. Ora, questi episodi non possono essere derubricati semplicisticamente a mere gaffes di Biden. Si tratta in realtà della manifestazione di divergenze in seno alla stessa amministrazione americana, che sulla Cina non ha mai avuto una posizione compatta: se Tony Blinken promuove la linea dura sui diritti umani, Janet Yellen e John Kerry auspicano una distensione per esigenze commerciali e ambientaliste. D’altronde sono vari i settori (da Wall Street alla Silicon Valley) che spingono il presidente a un approccio soft con la Repubblica popolare: un presidente che, secondo il National Interest, ha nei mesi scorsi bloccato o ritardato la fornitura di armi a Taipei. Va quindi da sé come questo caos abbia man mano minato la deterrenza che Biden è in grado di esercitare verso il Dragone. E non è un caso che le incursioni militari cinesi nello spazio aereo dell’isola siano riprese da ottobre: poche settimane dopo il disastro dell’evacuazione afgana. Insomma, qui il problema non è che la Cina starebbe rispondendo a una presunta provocazione statunitense. Il problema è che, a fronte dell’irresolutezza dell’attuale Casa Bianca, la Cina si sente oggi più sicura nell’aumentare la pressione su Taiwan e, forse, nel procedere a un’invasione. Pace e libertà non si preservano con i summit e i comunicati altisonanti, ma mostrando i muscoli e dissuadendo i nemici dall’agire. Biden deve capirlo o il disastro non si abbatterà solo su Taiwan, ma sull’Occidente tutto.
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