2023-02-13
Bertinotti: «Il Pd è insignificante. Un mio consiglio? L’autoscioglimento»
L’ex leader comunista: «È l’unico modo per rimettere in circolo la passione della gente perbene. Zelensky prodotto mediatico».Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera e già segretario di Rifondazione Comunista: che impressione le ha fatto la standing ovation tributata a Zelensky dal Parlamento europeo? «È stato uno spettacolo un po’ deprimente. L’Europa ha smarrito il senso di sé. Di fronte alla globalizzazione capitalistica, ha perduto quella tensione avuta nel dopoguerra tra l’appartenenza all’Alleanza atlantica e una certa vocazione all’autonomia. Dopo la colpevole invasione russa dell’Ucraina, quest’Europa ha creduto che Mosca fosse isolata, e che il mondo si identificasse nella risposta militare. Ma non è così: tanta parte del mondo la pensa diversamente, e ogni mese si aggiunge un tassello nuovo, nell’area asiatica e in quella africana». Dunque l’Europa non è autonoma?«È succube della Nato e della guida americana. Anche questa enfatizzazione di Zelensky la trovo contraddittoria, rispetto a un’istanza di trattativa per la pace che dovrebbe essere il motore dell’iniziativa europea. Insomma, io capisco il tributo di solidarietà a Zelensky: ma questa solidarietà non può trasformarsi in miopia politica. Cioè nell’incapacità di capire che l’unica soluzione possibile in questa contesa è la pace. Faccio un parallelo: in questo tempo, tanto è capace di parola papa Francesco, quanto è incapace di parola l’Europa». Però ammetterà che siamo in guerra perché c’è un colpevole: Vladimir Putin. «C’è un colpevole, ma altri non sono innocenti. Dopo la guerra fredda doveva venir meno la ragion d’essere della Nato. Non voglio parlare di “provocazione”, ma è un fatto che la Nato abbia manifestato una tendenza a espandersi fino ai confini della Russia. Covava nell’impero di Putin un’antica istanza permanente: quella della “grande Russia”, che si esprimeva con la richiesta legittima di essere riconosciuta come una potenza mondiale e non regionale. La strategia del contenimento dettata dall’Alleanza atlantica, invece, generò delle frizioni. Fino alla scelta, sciagurata, di Putin». Come si può parlare di trattativa se i cannoni russi continuano a tuonare? «Una delle cose che più mi turbano è la retorica della vittoria. È un veleno. Perché in questa guerra nessuno può vincere. La retorica della vittoria è la negazione della politica e della trattativa, e chi la sostiene nasconde sotto il cuscino il sogno di una caduta di Putin, tramite un colpo di Stato». La considera un’ipotesi realistica?«Penso proprio di no, perché in Russia, come in tutti i regimi autoritari, spodestato Putin resterebbe comunque un fondo di consenso». Tornando all’oggi: considera il leader ucraino un prodotto mediatico? «Sì, come tutto, del resto. Zelensky non è l’eccezione, è la regola. Guy Debord parlò tanti anni fa della “società dello spettacolo”. Oggi vi siamo immersi. Persino la tragedia della guerra è raccontata con il linguaggio dello spettacolo». Lo spettacolo regna, al punto che la politica per una settimana non ha fatto che parlare di Sanremo. Con il presidente della Repubblica per la prima volta in platea. È rimasto perplesso?«Che Mattarella vada a Sanremo mi pare ragionevole. Se si va alla Scala riconoscendo la cultura alta, si può anche andare a Sanremo riconoscendo la cultura bassa. Se milioni di italiani si sintonizzano sul festival, ne fanno un elemento che entra nella storia del paese. La mia parte politica ha faticato a impararlo, perché eravamo intrisi di cultura aristocratica: ci piacevano le canzoni d’autore, non quelle popolari. Ma attenzione: Sanremo è importante sul piano storico-culturale. Ma non può essere un’arena politica». Insomma, i partiti dovevano tenersi lontani dall’Ariston?«Ognuno faccia il suo mestiere. Il politico deve resistere alla subalternità della politica nei confronti dello spettacolo, altrimenti diventa servile. Probabilmente per visibilità e per invidia, buona parte della classe politica si esibirebbe volentieri su quel palco». Anche cantanti e rapper dovrebbero fare semplicemente il proprio mestiere? «No, tra cantanti e politici, sono i secondi a essere colpevoli. La politica è colpevole di essere scomparsa: per forza il suo terreno viene occupato da altri». Il ritornello sui diritti civili lanciato a più riprese dal palco di Sanremo è un messaggio rivoluzionario?«No, rivoluzionario no. Semmai il contrario della rivoluzione: è un segno dei tempi. Caduta - spero solo per ora - l’ipotesi rivoluzionaria, si è affermata come supplenza la tensione per i diritti civili. Parlerei di una teologia dei diritti civili, affiancata dall’altra teologia dominante, quella capitalistica: “Non avrai altro Dio al di fuori del capitalismo”. Tutto ciò rappresenta un fenomeno reale, non catalogabile come “di sinistra”: anche perché oggi la sinistra non c’è». La sinistra italiana in realtà sarebbe in cerca di un nuovo segretario…«Il Pd è un corpo privo di vita, e lo si vede più che per altri. Impropriamente, è stata attribuita a quel partito l’eredità di una grande storia, mentre al contrario, fin dalla definizione del nome, ha consumato una rottura con le battaglie operaie. E questa rottura non l’hanno mai rielaborata».In realtà, si dichiarano in prima fila sulle lotte per i diritti civili e ambientali. «Ma dove? Mi faccia l’esempio di una lotta condotta in Italia dalle forze del centrosinistra in favore di un diritto della persona: non hanno portato a casa nulla. Perché sono timidi, incerti, non sono mica Pannella. La massima secondo cui, abbandonata la lotta di classe, i comunisti sarebbero diventati un “partito radicale di massa” è fallita. Oggi il centrosinistra non è radicale: e men che meno di massa, visto che corrono il rischio di sparire».Restano solo le rivalità personali?«Sì, resta la contesa per il potere. Questa è la vera prigione in cui si è rinchiuso il Pd: la prigione del governo. Sono propensi a sostituire qualunque idea, pur di fare ingresso al governo. E non a caso negli ultimi anni sono entrati in qualsiasi governo. Tutto ciò che resta di “democratico” nel Pd è questo: il voto elettorale, nella speranza di governare». Dunque il Pd è avviato alla scissione?«Tra le poche cose di cui mi intendo c’è effettivamente la scissione: una scelta drammatica della politica. La scissione è quella che negli anni Venti vide nascere il Partito comunista italiano, e poi quella di Saragat a Palazzo Barberini, e poi quella dello Psiup, e poi quella seguita allo scioglimento del Pci. La scissione rompe amicizie, spezza unità familiari, provoca rotture che segnano vite. Insomma, per fare una scissione serve una ragione forte. Ma oggi come si fa a scindere una cosa che non esiste?». Se non è scissione, sarà disintegrazione? «Purtroppo il Pd rischia un lungo declino fino all’irrilevanza totale. Invece sarebbe stata un’operazione coraggiosissima quella dell’autoscioglimento. Io l’avrei dichiarato più meno così: “Noi siamo politicamente insignificanti nel Paese, ma sciogliendoci rimettiamo in circolo la passione politica delle persone perbene. Per una vera rifondazione”». «Rifondazione» del Pd? Una parola che, detta da lei, suona come un revival.«La rifondazione è una necessità, visto che la sinistra è uscita sconfitta dal Novecento. Io la vedo come una rinascita. Per rinascere, però, devi prima renderti conto che sei morto». Oggi al suo posto, a sinistra, troviamo Elly Schlein, Giuseppe Conte e Massimo D’Alema. Che effetto le fa? «Ho un’antica propensione a evitare le valutazioni sui nomi. Questi però mi dicono pochissimo. Per giunta sono in continuità con il passato. Non esiste in Italia un vero elemento di rinascita: per essere tale, deve necessariamente muoversi fuori dai vecchi binari. Melenchon in Francia non è una costola del partito socialista. Podemos nasce dagli indignados che si muovono fuori e contro i partiti esistenti. La lezione europea è questa: la nuova sinistra non può nascere in continuità con la vecchia». Dunque qual è il suo consiglio alla dirigenza della sinistra italiana?«Cosa dovremmo fare? Un atto di passaggio di consegne. La passione politica vale per la vita, il mestiere no. Il mestiere a un certo punto deve finire: o quando hai una certa età, o quando hai perso». Un giudizio finale sui primi passi del governo di Giorgia Meloni. Lei ha avuto modo di conoscerla personalmente, quando era uno dei suoi vice alla presidenza della Camera. «Se fossi in Parlamento avrei già votato la sfiducia nei confronti dell’attuale presidente del Consiglio. Ma riconosco che, all’epoca, vidi in lei una vera passione politica, una determinazione a costruirsi come soggetto politico reale. Oggi guida il primo vero governo di destra in Italia. Segno che il dopoguerra è davvero finito».
Francesca Albanese (Ansa)
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)