2025-06-26
Parte della maggioranza preme: Più difesa? Rivediamo i Patti Ue
Alberto Bagnai (Lega): rischi sociali con queste regole. Giorgetti: i conti restino sostenibili.Il partito del «no» al 5% del Pil cresce sempre di più, ma con varie sfumature. Partendo da Alleanza Verdi Sinistra transitando per il Movimento 5 stelle, si passa per il Pd e si arriva fino a qualcuno della Lega. Con sfumature diverse certo, eppure nella sostanza è un «no», almeno per così com’è. L’esempio a cui molti fanno riferimento è quello spagnolo. Il premier Pedro Sanchez è convinto di poter raggiungere gli obiettivi Nato arrivando al 2,1% perché, spiega «se avessimo accettato quanto proposto, la Spagna avrebbe dovuto destinare oltre 300 miliardi di euro da qui al 2035. Da dove provengono queste risorse? Da più tasse sui cittadini? Da tagli al sistema dell'istruzione, dalla sanità, dalle pensioni? Accettare sarebbe stato un errore assoluto». Convinto certo, ma alla fine ha firmato il documento finale della Nato con l’impegno a spendere il 5%.Questa è chiaramente la linea di Elly Schlein e di ampia parte del Pd. Il segretario dem di nuovo ieri ha provato a incalzare il premier Giorgia Meloni: «Avrebbe dovuto dire no come ha fatto Sánchez. Meloni non è mai in grado di dire di no al suo amico Trump». Più o meno le stesse identiche parole pronunciate da Giuseppe Conte che poi è la stessa linea tenuta, naturalmente, anche dai pacifisti di Alleanza Verdi Sinistra.Meloni dal canto suo, nel punto stampa a margine del vertice Nato ha spiegato che «L’Italia ha fatto come la Spagna, perché la Spagna ha firmato lo stesso documento che abbiamo firmato noi». E poi: «Questa mattina non ho sentito da nessuno toni polemici o distinguo, in 32 abbiamo fatto la stessa cosa». Le dichiarazioni del «dopo» di Sánchez però, come già scritto sono state ben diverse. Ad ogni modo il no di Sánchez, come quello della sinistra in Italia non è un «no» costruttivo, ma di mera opposizione a Trump. Esistono altre perplessità diverse, non tanto sull’aumento del 5% ma sul modo in cui si coprirà questo investimento. Già mesi fa il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva spiegato che senza la revisione delle regole europee è impossibile coprire l’investimento. È Alberto Bagnai ieri ha dichiarare: «È importante che una democrazia come l’Italia investa nella difesa, settore nel quale possiamo peraltro vantare alcune eccellenze a livello mondiale. L’esercito comune europeo è ormai evidente che non lo vuole nessuno, mentre la Nato resta un riferimento imprescindibile, ma la richiesta di portare la spesa al 5% del Pil resta un obiettivo al momento irraggiungibile e insostenibile socialmente, soprattutto nelle condizioni attuali delle regole europee, come dice anche il primo ministro ungherese Orban». Insomma il 5% potrebbe anche andare bene, ma bisogna guardare alla realtà: con queste regole europee è complicato arrivare a obiettivo senza intaccare il welfare o appunto, alzare le tasse. «Gli impegni che vengono assunti sono significativi e sostenibili per l’Italia e non distoglieranno neanche un euro dalle altre priorità a difesa e tutela degli italiani», promette il premier che ieri ha ottenuto al vertice Nato «totale flessibilità». Così come ribadito dal vicepremier Antonio Tajani. «Noi abbiamo detto che non si poteva raggiungere l’obiettivo nei tempi prefissati, e infatti sono stati allungati. E poi l’altro successo italiano è sulla flessibilità. C’è l’obbligo di rispettare l’obiettivo, non le tappe» e sulla Spagna «dovrà rispettare le regole come tutti, una cosa sono i fatti un’altra le dichiarazioni». La flessibilità che serve però deve soprattutto arrivare dall’Europa. La strategia del governo Meloni per raggiungere il target del 2% è stata quella del «ricalcolo contabile»: senza aumentare realmente gli investimenti, ha incluso nel bilancio della difesa voci precedentemente conteggiate altrove, come le pensioni militari dell’Inps e alcune spese della Guardia Costiera. Insomma raggiungere il 5% comporterebbe per l’Italia un costo aggiuntivo di circa 40 miliardi di euro all’anno rispetto alla proiezione con il livello attuale del 2%. Appunto 400 miliardi di differenziale in dieci anni, una cifra che supera l’intero Pil di Paesi come il Belgio o l’Irlanda. Tradotto, come ha saputo fare bene intendere il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in una recente riunione dell’Eurogruppo, «accettare l’invito ad aumentare la spesa per la difesa impedirebbe per sempre la nostra uscita dalla procedura d’infrazione». A questo punto l’obiettivo, questo si dovrebbe essere comune, è quello di rivedere profondamente le regole europee. La clausola di salvaguardia proposta dalla Commissione Ue, che infatti l’Italia non ha firmato, non è sufficiente. Meloni ha anche chiarito ieri: «non riteniamo di usare la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità nel 2026 per le spese della difesa», aggiungendo: «I costi sono sostenibili». Il responsabile del Mef già un mese fa aveva ricordato che la clausola di salvaguardia è una delle proposte da sempre sostenuta dall’Italia, ma ha anche posto l’accento sul fatto che «la flessibilità per la spesa non deve compromettere la sostenibilità dei conti pubblici e non deve far aumentare in misura significativa il debito pubblico».
Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale (Imagoeconomica)
Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti (Imagoeconomica)