2021-10-19
Parlare solo al Paese profondo non basta più
Anche da noi si conferma la tendenza che vuole i progressisti dominanti nelle grandi città. Ma essere esclusi dalle metropoli significa non contare dove si fabbrica il discorso pubblico. E occhio alla macchina del fango: continuerà pure dopo le urnePoche volte un risultato elettorale era parso più scontato dell’esito di questi ballottaggi: e infatti, a parte l’eccezione di Trieste, è arrivato un altro sonoro schiaffo ai candidati di centrodestra nelle maggiori città, da quelli unanimemente ritenuti più forti e competitivi (Paolo Damilano a Torino) a quelli che sin dall’inizio erano effettivamente sembrati fragili ai limiti dell’impresentabilità (Enrico Michetti a Roma). Del resto, già nelle rilevazioni di domenica, l’andamento bassissimo dell’affluenza faceva presagire l’inevitabile: a partecipazione bassa, vince quasi sempre la sinistra, che comunque riesce a portare al voto il suo zoccolo duro di elettori (concentrati nelle città e specialmente nelle zone centrali). La destra, invece, ha chance solo in caso di mobilitazione alta e addirittura altissima, che deve passare da un coinvolgimento delle periferie. Un tempo, si sarebbe detto l’inverso: ma da molti anni, non solo in Italia, la regola è questa. Le élite urbanizzate votano a sinistra, mentre la destra deve puntare sui dimenticati, sui forgotten men (per usare il linguaggio di Donald Trump), sui ceti che non hanno ombrelli né protezioni. Per riuscire a raggiungerli, occorrono candidati forti e riconoscibili (e stavolta non c’erano), messaggi e programmi chiari, semplici e azzeccati (e non c’erano nemmeno questi), e una coalizione coesa (e invece, purtroppo per la destra italiana, lo schieramento è arrivato al voto tra sgambetti e gomitate reciproche). Il risultato finale è dunque la matematica conseguenza di questi fattori. Ora, a mente fredda e con equilibrio, la destra farà bene a riflettere profondamente: senza disperarsi ma anche senza sottovalutare quello che è successo. Partiamo dalle attenuanti. In tutte e cinque le città principali (Milano, Roma, Torino, Napoli, Bologna), il centrodestra non aveva il sindaco. Quindi possiamo dire che ha riperso dove aveva già perso. Per dirlo in un altro modo: non è riuscito a strappare una vittoria in trasferta. Altra attenuante. In tutto l’Occidente, la destra tende quasi sempre a perdere nelle grandi città. Vale per gli Usa e vale ancora di più in Europa. Con l’unica eccezione di Madrid, sono quasi sempre sindaci e coalizioni di sinistra a guidare i grandi centri urbani: Londra, Parigi, Berlino, Monaco, Amburgo, Bruxelles, Amsterdam, Dublino, Stoccolma, Barcellona. Il che testimonia un problema non solo italiano: una difficoltà dei partiti conservatori a competere nei luoghi dove si fabbricano le grandi «narrazioni». Ma attenzione: questo è devastante, perché se sei «in trasferta» nelle grandi città, è come se tu fossi perennemente «all’opposizione» nel discorso pubblico complessivo. L’autore britannico David Goodhart ne ha scritto in tempi non sospetti: la destra non deve accontentarsi di prosperare dove è già maggioranza (nella dimensione somewhere, in provincia, nei piccoli centri), ma deve aprire la sfida anche dove oggi è minoranza (nella dimensione anywhere, nelle metropoli cosmopolite e ultraglobalizzate). E invece, su troppi temi decisivi in quei contesti sociali e culturali, la destra dà la sensazione di stare sulla difensiva. Come si vede, le attenuanti finiscono per rovesciarsi in aggravanti. In ogni caso, secondo tutti i sondaggi nazionali, se ci fossero elezioni politiche generali, le tre forze di centrodestra (Lega, Fdi, Fi) avrebbero comunque, sulla carta, un vantaggio cospicuo (tra i 7 e i 10 punti). Insomma, disporrebbero di un margine teoricamente confortante. Eppure, sarà il caso di non dormire tranquilli, per almeno quattro ragioni. Primo: perdere aiuta a perdere, e le ferite di questa tornata amministrativa resteranno aperte a lungo. Secondo: è in atto un tentativo di disarticolare l’alleanza, attraendo la parte più governista di Forza Italia in orbita centrista e staccandola dalla partnership con Lega e Fdi. Terzo: c’è già chi trama per un ritocchino alla legge elettorale (meno collegi, più proporzionale) per imbastardirla ancora di più e rendere improbabile un chiaro vincitore nel 2023. Obiettivo? Imporre pure nella prossima legislatura una maggioranza ibrida e di semiunità nazionale (traduzione: di commissariamento permanente). Quarto (e non ultimo per importanza): le recenti aggressioni mediatiche contro Lega e Fdi ripropongono un grande classico, quello della «fascistizzazione» degli avversari sgraditi alla sinistra politica ed editoriale. In questo senso, l’incredibile episodio del comizio sindacale a reti pressoché unificate, in un tripudio di bandiere rosse, nel giorno del silenzio elettorale, è solo il preannuncio di ciò che si prepara. Sappiano Matteo Salvini e Giorgia Meloni che il gioco non si concluderà con la fine di questi ballottaggi, ma durerà ancora per mesi: nel caso della Lega, per metterla sempre più a disagio nel governo; nel caso di Fratelli d’Italia, per marginalizzare quel partito, per isolarlo in una condizione di opposizione sì forte ma «congelata» a un lato dello schieramento politico. Dunque, tutti i protagonisti dell’attuale centrodestra sono chiamati a una prova di umiltà e di coraggio. Riconoscere gli errori (nella scelta dei candidati e nell’impostazione della campagna); ridare centralità ai temi economici e fiscali; attrezzarsi per rendere nuovamente possibili mobilitazioni adeguate; non farsi spezzettare. Nel caso di Fi, resistere alle sirene centriste. Nel caso di Lega e Fdi, non accontentarsi di essere numericamente forti ma - in fondo - esclusi dalle decisioni vere, nel presente e nel futuro.
Jose Mourinho (Getty Images)