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2022-04-14
Il Papa non molla: sarà una Via crucis di pace
Ansa
Il Vaticano non arretra. Domani al Colosseo la tredicesima stazione della Via crucis del Papa avrà Irina, infermiera ucraina, e Albina, studentessa russa, una di fianco all’altra. Lo aveva fatto intuire ieri mattina il direttore di Avvenire: «Dove i russi e gli ucraini», si chiedeva Marco Tarquinio, «fratelli per storia e fede, e ora in feroce guerra perché il fratello ha aggredito il fratello, possono chiedere a Dio con una sola voce: “Liberaci dal male”?». Dove, se non sotto la croce e nella Via crucis? Le rimostranze twittate martedì dall’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash e, ancor di più, le durissime parole sull’opportunità della scelta dell’arcivescovo dei greco-cattolici di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, vengono inchiodate da questa domanda.
Una posizione chiara quella della Santa Sede, rilanciata sul Manifesto dal gesuita più vicino a papa Bergoglio, padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà cattolica: «Il Papa vuole che questa sporca guerra finisca», ha scritto ieri, «per questo mette sotto la croce di Cristo e sotto le sue parole - “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” - due amiche che la guerra ha etichettato come nemiche: una carnefice e l’altra vittima». Ed è stato in serata lo stesso Spadaro al Tg3 a sgombrare il campo da ogni dubbio sulla presenza delle due donne: «È tutto confermato. Papa Francesco è un pastore, non un politico e agisce contro ogni speranza visibile. Per questo ha voluto due amiche, una russa e una ucraina. Porteranno la croce, scandalosamente insieme, e non diranno niente». E poi ha aggiunto: «Può essere scandaloso per alcuni ma questo è il Vangelo di Cristo».
Peraltro le due donne avevano raccontato all’Osservatore romano che la loro è un’amicizia vera, nata «all’interno del reparto di cure palliative». «Risolvere i problemi con la forza delle armi», dichiarava nel video del Campus biomedico di Roma la giovane russa Albina, «non è un modo da bravi politici, la forza dell’amore supererà tutto. Io sono russa e sono contro la guerra». Il Venerdì santo, alla Via crucis, ha dichiarato, invece, l’infermiera ucraina Irina, «sicuramente pregherò con tutto il mio cuore per la pace».
Difficile archiviare la scelta di mettere insieme queste due donne al Colosseo come un’inopportuna spettacolarizzazione. O peggio, come la scelta di un Papa che non si vuole schierare. Ieri, durante l’udienza generale, Bergoglio ha ribadito che «l’aggressione armata di questi giorni è un oltraggio a Dio, un tradimento blasfemo del Signore della Pasqua». E sempre ieri è stato pubblicato su Vaticannews un brano di Francesco che fa da introduzione al libro uscito oggi a firma dello stesso Pontefice, intitolato Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace (Solferino). «L’Ucraina è stata aggredita e invasa», scrive il Papa, ma «di fronte alle immagini strazianti che vediamo ogni giorno, di fronte al grido dei bambini e delle donne, non possiamo che urlare: “Fermatevi!”». La guerra è «un sacrilegio» e, chiosa il Papa, cresce «proprio attraverso la distruzione e se avessimo memoria, non spenderemmo decine, centinaia di miliardi per il riarmo, per dotarci di armamenti sempre più sofisticati, per accrescere il mercato e il traffico delle armi che finiscono per uccidere bambini, donne, vecchi».
«Sia ascoltato il messaggio del Pontefice (colui che costruisce ponti)», hanno scritto ieri in un comunicato i deputati di Alternativa popolare. «Comprendiamo la grave situazione del popolo ucraino e la difficoltà del governo di Kiev nel gestire in piena crisi i rapporti con Mosca, ma troviamo controproducente per il perseguimento della pace che lo stesso governo esorti il Papa a prendere posizioni che dividano due popoli».
Nel mondo cattolico però c’è chi vorrebbe relegare la posizione di Francesco sulla crisi ucraina alla voce «pacifismo». Il professor Pietro De Marco, intervenuto sul blog del vaticanista Sandro Magister, ha scritto che il Papa dovrebbe dare «un giudizio pubblico secondo giustizia» in merito alla guerra, aggiungendo che tutte le «terze vie» rispetto alle posizioni pro o contro l’invasione russa, si risolvono «in un giudizio scettico-ostile nei confronti della resistenza ucraina, dunque volenti o nolenti a favore di Putin in nome di uno «status quo» macroeuropeo (Unione europea più Russia come Comunità degli Stati indipendenti) sia pure valorizzato o idealizzato in prospettive diverse». Gli ha risposto il filosofo Massimo Borghesi, dicendo che vede «la discesa verso il baratro pilotata da falchi che escludono al momento ogni forma di negoziato». «Può realmente l’Ucraina armata dall’Occidente respingere del tutto l’armata russa?», chiede Borghesi. «Oppure questo porterà alla totale distruzione della sua nazione con il rischio del coinvolgimento europeo?».
E se il padre fondatore di Russia Ecumenica, don Sergio Mercanzin, dice all’Adnkronos, che «sarebbe il caso che il Vaticano facesse marcia indietro» sulla Via crucis, gli hanno risposto indirettamente dalle colonne dell’Osservatore romano uscito ieri due donne, Dina Franczeska Shabalina, quarantenne ucraina, e Julia Sineva, trentenne russa, appartenenti all’ordine francescano secolare. Loro una Via crucis insieme, ieri, l’hanno già fatta, organizzata da Franciscan internationalis. «Accettiamo il fatto di essere in una guerra ma non di vivere per la guerra», dichiara Dina. A cui fa eco Julia, che chiede a Dio «il perdono per questa guerra che ti crocifigge, la liberazione dalle menzogne e dalle ombre della morte» e per i popoli dell’Ucraina e della Russia, la pace.
«Allarme scisma» per 70 vescovi. Lettera appello alla Chiesa tedesca
Che la Chiesa sia immersa in una grave crisi di identità e che questa crisi epocale non giovi a nessuno - né ai cattolici, né ai laici, e neppure alle società e alla cultura - non lo crede solo La Verità, monsignor Carlo Maria Viganò e qualche anziano curiale, rimasto ai tempi di Benedetto XVI. No. Ormai questi dissensi tra cattolici diventano sempre più eclatanti, e sono tema di scontro tra gli stessi vescovi.
Il 2022 ha registrato in tal senso già due fatti inauditi e convergenti. Il 22 febbraio il presidente dei vescovi polacchi, monsignor Stanislaw Gadecki, ha scritto a monsignor Georg Bätzing, capo dei vescovi tedeschi. Per metterlo in guardia dal «cammino sinodale» intrapreso. Perché «si ha l’impressione che il Vangelo non sia sempre la base della riflessione». Secondo il metropolita di Poznam, il pericolo è quello di cedere alla «tentazione di modernizzare» la fede. Specie su questioni etiche e sessuali. Il 9 marzo una nuova lettera aperta è stata inviata da alcuni vescovi del Nord Europa ai loro confratelli germanici. Scrivevano gli scandinavi che «l’orientamento, il metodo e il contenuto del cammino sinodale della Chiesa in Germania ci riempiono di preoccupazione». E ciò per le aperture nei confronti dello «spirito del mondo», in rapporto alla fedeltà al Vangelo.
A molti pare di trovarsi in mezzo a un’escalation di tradimenti del cattolicesimo tedesco, da sempre avanguardia del progressismo ecclesiale. Il quale sembra volersi mettere, cinque secoli dopo la Riforma, sulle tracce di Martin Lutero. Fondando la religione sulla libera interpretazione della Bibbia, al di là della tradizione e dell’insegnamento dei Papi.
L’11 aprile è stata pubblicata una nuova missiva. Ancor più autorevole e drastica, e sempre per denunciare i rischi di scisma dei tedeschi. Che potrebbero costituire a breve una nuova chiesa riformata, autonoma e separata da Roma. Un neocattolicesimo al passo con i tempi. I firmatari sono 70 vescovi del mondo, soprattutto americani e africani. L’unico italiano è il vescovo emerito di Reggio Emilia, monsignor Massimo Camisasca. Tra i prelati spiccano i nomi di quattro autorevoli cardinali: Francis Arinze (Onitsha, Nigeria) Raymond Burke (Saint Louis, Usa) Wilfred Napier (Durban, Sudafrica) George Pell (Sydney, Australia). Anche stavolta le parole usate sono ferme e incisive. Scrivono i 70 che «gli eventi in Germania ci costringono a esprimere la nostra crescente preoccupazione per la natura dell’intero processo del cammino sinodale tedesco». Così, seguendo il paolino «non conformatevi alla mentalità di questo mondo», hanno deciso di denunciare la «confusione che il cammino sinodale ha già causato e continua a causare». Alla Chiesa certo. Ma anche alla cultura, alla civiltà, alla stessa pace tra i popoli…
Le critiche teologiche sono sintetizzate in sette punti. Secondo loro, le aperture del Sinodo «minano: la credibilità dell’autorità della Chiesa, compresa quella di papa Francesco; l’antropologia cristiana e la morale sessuale; e l’attendibilità delle Scritture». In effetti, se qualunque sessualità è legittima salta tutto: in primis la famiglia biblica, monogamica ed eterosessuale. Gli stessi documenti sinodali sembrano ispirati non dalla Scrittura, «ma dall’analisi sociologica e dalle ideologie politiche contemporanee, incluse quelle del gender». In sintesi, «il cammino mostra più una sottomissione e obbedienza al mondo e alle sue ideologie, che a Gesù Cristo Signore e Salvatore».
Tutti possono capire che senza unità e coerenza il cristianesimo muore suicida, seppur ben assistito dal clero. Lasciando gli uomini privi di un immenso patrimonio etico, insostituibile nelle immani sfide del presente.
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Niente cambi di programma dopo le critiche a Jorge Bergoglio, domani una donna russa e una ucraina porteranno il Crocifisso. Il gesuita Antonio Spadaro: «Tutto confermato, è scandaloso come il Vangelo». E Francesco non cambia linea: «La guerra è tradimento blasfemo».«Allarme scisma» per 70 vescovi. Lettera appello alla Chiesa tedesca. I firmatari da ogni parte del mondo criticano il cammino sinodale: «Crea confusione».Lo speciale contiene due articoli.Il Vaticano non arretra. Domani al Colosseo la tredicesima stazione della Via crucis del Papa avrà Irina, infermiera ucraina, e Albina, studentessa russa, una di fianco all’altra. Lo aveva fatto intuire ieri mattina il direttore di Avvenire: «Dove i russi e gli ucraini», si chiedeva Marco Tarquinio, «fratelli per storia e fede, e ora in feroce guerra perché il fratello ha aggredito il fratello, possono chiedere a Dio con una sola voce: “Liberaci dal male”?». Dove, se non sotto la croce e nella Via crucis? Le rimostranze twittate martedì dall’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash e, ancor di più, le durissime parole sull’opportunità della scelta dell’arcivescovo dei greco-cattolici di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, vengono inchiodate da questa domanda. Una posizione chiara quella della Santa Sede, rilanciata sul Manifesto dal gesuita più vicino a papa Bergoglio, padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà cattolica: «Il Papa vuole che questa sporca guerra finisca», ha scritto ieri, «per questo mette sotto la croce di Cristo e sotto le sue parole - “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” - due amiche che la guerra ha etichettato come nemiche: una carnefice e l’altra vittima». Ed è stato in serata lo stesso Spadaro al Tg3 a sgombrare il campo da ogni dubbio sulla presenza delle due donne: «È tutto confermato. Papa Francesco è un pastore, non un politico e agisce contro ogni speranza visibile. Per questo ha voluto due amiche, una russa e una ucraina. Porteranno la croce, scandalosamente insieme, e non diranno niente». E poi ha aggiunto: «Può essere scandaloso per alcuni ma questo è il Vangelo di Cristo». Peraltro le due donne avevano raccontato all’Osservatore romano che la loro è un’amicizia vera, nata «all’interno del reparto di cure palliative». «Risolvere i problemi con la forza delle armi», dichiarava nel video del Campus biomedico di Roma la giovane russa Albina, «non è un modo da bravi politici, la forza dell’amore supererà tutto. Io sono russa e sono contro la guerra». Il Venerdì santo, alla Via crucis, ha dichiarato, invece, l’infermiera ucraina Irina, «sicuramente pregherò con tutto il mio cuore per la pace».Difficile archiviare la scelta di mettere insieme queste due donne al Colosseo come un’inopportuna spettacolarizzazione. O peggio, come la scelta di un Papa che non si vuole schierare. Ieri, durante l’udienza generale, Bergoglio ha ribadito che «l’aggressione armata di questi giorni è un oltraggio a Dio, un tradimento blasfemo del Signore della Pasqua». E sempre ieri è stato pubblicato su Vaticannews un brano di Francesco che fa da introduzione al libro uscito oggi a firma dello stesso Pontefice, intitolato Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace (Solferino). «L’Ucraina è stata aggredita e invasa», scrive il Papa, ma «di fronte alle immagini strazianti che vediamo ogni giorno, di fronte al grido dei bambini e delle donne, non possiamo che urlare: “Fermatevi!”». La guerra è «un sacrilegio» e, chiosa il Papa, cresce «proprio attraverso la distruzione e se avessimo memoria, non spenderemmo decine, centinaia di miliardi per il riarmo, per dotarci di armamenti sempre più sofisticati, per accrescere il mercato e il traffico delle armi che finiscono per uccidere bambini, donne, vecchi».«Sia ascoltato il messaggio del Pontefice (colui che costruisce ponti)», hanno scritto ieri in un comunicato i deputati di Alternativa popolare. «Comprendiamo la grave situazione del popolo ucraino e la difficoltà del governo di Kiev nel gestire in piena crisi i rapporti con Mosca, ma troviamo controproducente per il perseguimento della pace che lo stesso governo esorti il Papa a prendere posizioni che dividano due popoli».Nel mondo cattolico però c’è chi vorrebbe relegare la posizione di Francesco sulla crisi ucraina alla voce «pacifismo». Il professor Pietro De Marco, intervenuto sul blog del vaticanista Sandro Magister, ha scritto che il Papa dovrebbe dare «un giudizio pubblico secondo giustizia» in merito alla guerra, aggiungendo che tutte le «terze vie» rispetto alle posizioni pro o contro l’invasione russa, si risolvono «in un giudizio scettico-ostile nei confronti della resistenza ucraina, dunque volenti o nolenti a favore di Putin in nome di uno «status quo» macroeuropeo (Unione europea più Russia come Comunità degli Stati indipendenti) sia pure valorizzato o idealizzato in prospettive diverse». Gli ha risposto il filosofo Massimo Borghesi, dicendo che vede «la discesa verso il baratro pilotata da falchi che escludono al momento ogni forma di negoziato». «Può realmente l’Ucraina armata dall’Occidente respingere del tutto l’armata russa?», chiede Borghesi. «Oppure questo porterà alla totale distruzione della sua nazione con il rischio del coinvolgimento europeo?».E se il padre fondatore di Russia Ecumenica, don Sergio Mercanzin, dice all’Adnkronos, che «sarebbe il caso che il Vaticano facesse marcia indietro» sulla Via crucis, gli hanno risposto indirettamente dalle colonne dell’Osservatore romano uscito ieri due donne, Dina Franczeska Shabalina, quarantenne ucraina, e Julia Sineva, trentenne russa, appartenenti all’ordine francescano secolare. Loro una Via crucis insieme, ieri, l’hanno già fatta, organizzata da Franciscan internationalis. «Accettiamo il fatto di essere in una guerra ma non di vivere per la guerra», dichiara Dina. 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No. Ormai questi dissensi tra cattolici diventano sempre più eclatanti, e sono tema di scontro tra gli stessi vescovi. Il 2022 ha registrato in tal senso già due fatti inauditi e convergenti. Il 22 febbraio il presidente dei vescovi polacchi, monsignor Stanislaw Gadecki, ha scritto a monsignor Georg Bätzing, capo dei vescovi tedeschi. Per metterlo in guardia dal «cammino sinodale» intrapreso. Perché «si ha l’impressione che il Vangelo non sia sempre la base della riflessione». Secondo il metropolita di Poznam, il pericolo è quello di cedere alla «tentazione di modernizzare» la fede. Specie su questioni etiche e sessuali. Il 9 marzo una nuova lettera aperta è stata inviata da alcuni vescovi del Nord Europa ai loro confratelli germanici. Scrivevano gli scandinavi che «l’orientamento, il metodo e il contenuto del cammino sinodale della Chiesa in Germania ci riempiono di preoccupazione». E ciò per le aperture nei confronti dello «spirito del mondo», in rapporto alla fedeltà al Vangelo. A molti pare di trovarsi in mezzo a un’escalation di tradimenti del cattolicesimo tedesco, da sempre avanguardia del progressismo ecclesiale. Il quale sembra volersi mettere, cinque secoli dopo la Riforma, sulle tracce di Martin Lutero. Fondando la religione sulla libera interpretazione della Bibbia, al di là della tradizione e dell’insegnamento dei Papi. L’11 aprile è stata pubblicata una nuova missiva. Ancor più autorevole e drastica, e sempre per denunciare i rischi di scisma dei tedeschi. Che potrebbero costituire a breve una nuova chiesa riformata, autonoma e separata da Roma. Un neocattolicesimo al passo con i tempi. I firmatari sono 70 vescovi del mondo, soprattutto americani e africani. L’unico italiano è il vescovo emerito di Reggio Emilia, monsignor Massimo Camisasca. Tra i prelati spiccano i nomi di quattro autorevoli cardinali: Francis Arinze (Onitsha, Nigeria) Raymond Burke (Saint Louis, Usa) Wilfred Napier (Durban, Sudafrica) George Pell (Sydney, Australia). Anche stavolta le parole usate sono ferme e incisive. Scrivono i 70 che «gli eventi in Germania ci costringono a esprimere la nostra crescente preoccupazione per la natura dell’intero processo del cammino sinodale tedesco». Così, seguendo il paolino «non conformatevi alla mentalità di questo mondo», hanno deciso di denunciare la «confusione che il cammino sinodale ha già causato e continua a causare». Alla Chiesa certo. Ma anche alla cultura, alla civiltà, alla stessa pace tra i popoli… Le critiche teologiche sono sintetizzate in sette punti. Secondo loro, le aperture del Sinodo «minano: la credibilità dell’autorità della Chiesa, compresa quella di papa Francesco; l’antropologia cristiana e la morale sessuale; e l’attendibilità delle Scritture». In effetti, se qualunque sessualità è legittima salta tutto: in primis la famiglia biblica, monogamica ed eterosessuale. Gli stessi documenti sinodali sembrano ispirati non dalla Scrittura, «ma dall’analisi sociologica e dalle ideologie politiche contemporanee, incluse quelle del gender». In sintesi, «il cammino mostra più una sottomissione e obbedienza al mondo e alle sue ideologie, che a Gesù Cristo Signore e Salvatore». Tutti possono capire che senza unità e coerenza il cristianesimo muore suicida, seppur ben assistito dal clero. Lasciando gli uomini privi di un immenso patrimonio etico, insostituibile nelle immani sfide del presente.
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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Ecco #DimmiLaVerità del 18 dicembre 2025. Con il nostro Stefano Piazza facciamo il punto sul terrorismo islamico dopo la strage in Australia.