2021-10-23
Paolo Simoncelli:«A dieci anni dall’addio al mio Sic, i minuti di silenzio non li sopporto»
Il padre del campione morto a Sepang: «Il dolore o lo superi o ti ammazza, io e mia moglie abbiamo deciso di vivere scampando ai truffatori che speculano sui defunti. Oggi Marco lo vorrei qui anche in carrozzina».«Eccomi! Sono qui in pista, mi dica pure». L'eco di una sgasata, in sottofondo, fa da tappeto rumoroso alle parole di Paolo Simoncelli. La voce, indaffarata e gioviale, è ancora dolente. Sono trascorsi dieci anni dal drammatico incidente che lasciò i sogni di suo figlio Marco, per tutti il Sic, distesi sull'asfalto del circuito di Sepang, in Malesia. «Si vive di più andando cinque minuti al massimo su una moto di quanto non faccia certa gente in una vita intera», sosteneva il pilota di Coriano (Rimini), prima fan, poi amico fraterno e infine avversario leale del suo mentore Valentino Rossi. Guardando all'affetto con cui viene ricordato oggi, forse il numero 58 della Honda non aveva tutti i torti.Come sono passati questi dieci anni senza Sic?«È uno stillicidio continuo, tutti i giorni il pensiero va lì. Per fortuna abbiamo Martina, sua sorella, e Kate (la fidanzata, ndr), che dopo la morte di Marco ha deciso di venire a vivere con noi; adesso segue la fondazione. Tutto questo ci ha aiutato molto. Ci siamo ritrovati un'altra figlia».Marco come avrebbe vissuto la pandemia?«A casa sua, con cinque ettari di terra a disposizione. Avrebbe tirato fuori la moto da cross e si sarebbe sbizzarrito. Forse il fatto di non gareggiare gli sarebbe pesato un po', ma aveva tutto il necessario per non annoiarsi».Lei come l'ha vissuta?«Ho lavorato come un “negro", anche se non si può dire. Mi sono rifatto la strada di casa e il tempo è passato. Poi, col gruppo di Sic58 squadra corse, c'è stato un problema a livello di gare e di sponsor che ci ha fatto rivedere un po' tutto».Il tempo ha dato un qualche senso a ciò che accadde? Non so se sia credente…«Ogni tanto l'imprecazione mi scappa, quindi vuol dire che sono credente (ride). Non mi sono tuffato in associazioni di genitori senza figli, anche se hanno provato a coinvolgerci. Per non parlare di altre sette strane. Bisogna fare attenzione, quando succede un fatto così arrivano le persone più assurde».Del tipo?«Gente che parla coi morti. Devi veramente avere i coglioni tosti per non cadere nella rete di questi personaggi. Veri e propri truffatori. Tanti ci cascano e ne diventano schiavi. Tornando alla sua domanda… come dice mia moglie, se quel giorno Marco fosse stato un muratore sarebbe caduto da un ponteggio. Ci siamo resi conto che esiste un destino e quando arriva il tuo momento non c'è nulla da fare. Ha presente la canzone di Vecchioni, Samarcanda? Ecco, lo riassume bene. Marco è morto per 10 centimetri. Se Vale lo avesse preso sulla spalla, invece che sul casco, oggi sarebbe ancora qui».La sensazione, osservandovi insieme, è che tra di voi ci fosse un rapporto quasi carnale.«Ah, ma non creda, le nostre litigate le abbiamo fatte. Qualche calcio nel culo Marco lo ha preso. Era uno che faceva anche incazzare, non era il figlio santificato».E Marco per cosa si incazzava?«Perché gli dicevo sempre le cose com'erano senza mezzi termini. Però poi finiva lì, un abbraccio risolveva tutto. E lui apprezzava: sapeva che quando aveva ragione io gli davo ragione, e viceversa. Per questo aveva fiducia in me. Ma il nostro era stato un legame forte fin da subito; le domeniche, le gare, i consigli, le delusioni, le vittorie… bellissimo. Era troppo bello, non poteva durare».Di quel 23 ottobre a Sepang cosa rimane?«Il silenzio assordante del paddock. La telefonata a mia moglie per chiedere se era d'accordo per la donazione degli organi (che, poi, non si poté fare perché il cuore si era fermato subito sulla pista). L'abbraccio di Pedrosa. Un abbraccio liberatorio, intenso. Fu il primo che ricevetti. Spazzò via tutte le litigate avute prima».L'affetto che avvolse la sua famiglia, la sorpresero?«Sì, specie i primi giorni. 25.000 persone ad aspettare sotto l'acqua con l'ombrello per fare un saluto a Marco. Ma non solo la gente comune. Mi hanno raccontato di personaggi importanti che si sono messi in fila. Le televisioni, Rai, Mediaset e Sky si accordarono per fare un'unica regia. Tutto questo fa pensare che qualcosa di speciale sia successo».Come si supera il dolore?«Il dolore, per forza di cose, o ti ammazza o lo superi. Sicuramente la nostra forza, mia e di mia moglie, è stata quella di non avere rimpianti. Altrimenti sarebbe stata veramente dura. La consapevolezza che se avessimo potuto tornare indietro avremmo rifatto le stesse cose ci ha dato e ci dà grande serenità».Quanto, di ciò che fa oggi (la fondazione, il gruppo Sic58 squadra corse), lo fa per Marco?«Ora lo faccio più per me. Per non morire».Ha dichiarato che non sopporta i minuti di silenzio. Perché?«Mi fanno impazzire. Non che contesti l'omaggio, è giusto. Però se penso a questi ragazzi che muoiono per inseguire i loro sogni in un mondo dove il rumore è parte integrante della vita, il minuto di silenzio mi sembra un'assurdità».Ha detto anche che in certi momenti la gente «dovrebbe solo lasciarti in pace per un po'». Eppure, di lei stupì proprio la generosità con la quale, ancora stordito dalla disgrazia, si concesse alla stampa.«È stato un modo per seguire Marco. Era sempre disponibile coi giornalisti. Pensavo: “Se lo è stato lui, devo esserlo anch'io"».C'era anche un tentativo di sfuggire al silenzio?«Ma no, è che Marco non mandava mai via nessuno. Questa cosa mi colpiva, perché vedevo tanti campioni che invece si sottraevano».Mi ha fatto riflettere un suo commento di qualche mese fa, in occasione della morte del pilota Jason Dupasquier. Guardando la mano di un amico che accarezzava la testa del figlio costretto su una sedia a rotelle, improvvisamente si è sentito sfortunato.«Sì, quel ragazzo è un meccanico di Marco che, il primo giorno di libertà dopo il lockdown, andò a provare una moto da cross ed ebbe un incidente. Ora è tetraplegico. Avevo sempre pensato che se Marco fosse rimasto invalido avrei fatto fatica a gestirlo, immaginavo che sarebbe impazzito. Con mia moglie dicevamo: “Siamo stati fortunati". Quando ho visto quel gesto, ho pensato che ci eravamo sbagliati. Preferirei averlo qui con me, anche su una sedia a rotelle».Qual è il primo ricordo di suo figlio sulle due ruote?«Lui attorno a casa con una motina che gli avevo comprato, una piccola Suzuki. Facevamo le gare, lui su quella e io con lo scooter. Avrà avuto 6-7 anni. Poi mi ricordo quando cominciò con le mini moto. Lì ne aveva 9, che per i tempi di oggi sarebbe già tardi. Adesso cominciano a 3-4 anni, i genitori non capiscono un cazzo. Farli diventare ingarellati così a quell'età…».Quando capì che il ragazzo aveva la stoffa del campione?«Anzitutto si divertiva come un matto. Man mano che cresceva, poi, le sue doti vennero fuori. Non abbiamo mai avuto il minimo dubbio sul fatto che sarebbe diventato un grande. Ce l'aveva nel sangue. Del resto, lo aveva scritto lui stesso a 8 anni sul suo diario: “Un giorno diventerò campione del mondo"».Mi racconti un episodio che la sbalordì.«Quando stese Pedrosa a Le Mans… o, meglio, fu Pedrosa a farsi prendere dalla paura (lì cominciò la guerra con gli spagnoli). Dopo la gara, Marco mi confessò di essersi domandato: “Lo passo alla prossima curva o lo passo ora all'esterno, così tutta la tribuna si alza in piedi?". Alla fine tutta la tribuna si alzò in piedi. Lo fece in quel punto perché sarebbe stato più spettacolare. Voleva divertire la gente».Avrebbe potuto eguagliare Rossi?«Come personaggio sicuramente. Dopo Vale, ci sarebbe stato lui. Il fatto che dopo dieci anni sia ancora vivo nella memoria ne è la dimostrazione. Vende più merchandising Marco da lassù dei piloti che corrono».Qual è stata la vittoria più emozionante?«Jerez de la Frontera. La prima lascia il segno. Un'altra bellissima fu quella in Giappone contro Bautista, oppure la successiva in Malesia, sempre contro Bautista».Esiste un problema di fair play tra i piloti oggi?«Il problema è delle direzioni di gara che devono far rispettare le regole. Se lasci che un pilota commetta una scorrettezza senza punirlo, la volta dopo lo farà di nuovo. Se gli dai due domeniche di squalifica, vedrai che se le ricorda».Ma la paura di farsi male non basta?«La paura ce l'hanno i genitori. I piloti pensano sempre che succederà agli altri».Si può fare ancora qualcosa per aumentare la sicurezza, oppure la morte è un elemento con cui un pilota deve imparare a convivere?«Per la sicurezza è stato fatto tutto, dalle modifiche alle piste agli airbag, alle tute. Più di così è difficile. Alla morte non ci si pensa e basta, altrimenti si sta a casa e si fa un altro mestiere».Una volta Rossi ha detto che, anche se adesso non c'è più, quando si pensa al Sic è impossibile essere tristi fino in fondo.«Credo abbia ragione. Quando parliamo del Sic non piangiamo, ridiamo pensando a tutte le cazzate che faceva».A proposito: è vero che, da ragazzino, una volta in scooter fece un frontale con la zia?(Ride) «Altroché! Il bello è che sua madre gli aveva raccomandato di andare piano sul vialetto, ché la zia stava arrivando».Prima parlava di rimpianti. C'è qualcosa che non ha fatto in tempo a dire a Marco?«No, l'unico rimpianto è di non avergli girato l'asciugamano sulla linea di partenza in Malesia. Lo aveva messo alla rovescia. Vedere quel numero 58 rovesciato mi dava un fastidio che non riuscivo a spiegarmi. È l'unico rammarico che ho. Non averlo girato per non disturbarlo».
Beppe Sala (Getty Images)
(Ansa)
L'ad di Cassa Depositi e Prestiti: «Intesa con Confindustria per far crescere le imprese italiane, anche le più piccole e anche all'estero». Presentato il roadshow per illustrare le opportunità di sostegno.
Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)