2018-12-15
Pandoro, l’acuto goloso che tentò la Callas
Maria Callas, a dieta, non resistette all'assaggio della versione con lo zabaione di Giorgio Gioco. Lo ha creato Melegatti nel 1894, modificando il Nadalìn con l'aggiunta di uova e (tanto) burro. Contende al panettone il titolo di dolce natalizio preferito dagli italiani.Si chiama Nadalìn e di professione fa il dolce di Natale. È originario di Verona dove è certificato fin dal Settecento, anche se un'antica tradizione lo fa risalire al Duecento. A questo proposito documenta non habemus, ma, secondo la leggenda, furono gli Scaligeri che vollero celebrare il primo Natale della loro signoria con un dolce simbolico, a forma di stella. Il nadalìn è l'evoluzione del pane dolce lievitato che nelle corti e nelle borgate della campagna veronese veniva cotto dalle donne, da tempi immemori, alla vigilia di Natale. Ricoperto con graniglia di zucchero, pinoli e mandorle, nel Settecento-Ottocento il Nadalìn era il dolce natalizio ideale nelle famiglie ricche, da intingere nella tazza di cioccolata bollente. «Oh natalino che dal ciel ci fiocchi», cantò Berto Barbarani, «cuginetto del cuor col panettone/ sempre sia benedetto il tuo padrone/ che pensò coprirti coi pinocchi./ Del natalino fatto a stella e a gnocchi/ quando sia fabbricato a perfezione/ tu puoi mangiarne a discrezione/ fino a fartelo uscir fuori dagli occhi».Il Nadalìn è il nonno del pandoro. Il quale ha ereditato dall'avo la bontà che induce i golosi in tentazione. Il nipote, però, ha superato di gran lunga nonno Nadalìn. Non solo ha varcato i limiti veronesi per contendere al panettone il titolo di dolce natalizio preferito dagli italiani, ma, piacioso com'è e con quella candida nevicata di zucchero a velo sulla cupola, ha varcato pure i confini nazionali candidandosi all'oscar internazionale del dolce di Natale. Oltre al nonno, i cui lieviti gli scorrono soavi nelle vene, il pandoro ha un padre certo, Domenico Melegatti, e una data di nascita sicura al cento per cento: il 14 ottobre 1894. Fu in questo giorno che l'ufficio brevetti rilasciò al pasticciere veronese la «privativa» della dolce scoperta: lui solo poteva vantarsi di aver creato il pandoro.Melegatti era un personaggio singolare. Brevettata la ricetta del pandoro, per evitare future diatribe giudiziarie con i colleghi concorrenti, li sfidò a produrre la ricetta originale: a chi l'avesse mostrata avrebbe sborsato 1.000 lire sull'unghia. A quei tempi («Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar»), era una cifra enorme. Nessuno intascò la somma. Domenico, che aveva laboratorio in corso Portoni Borsari, di fronte alla chiesa romanica di San Giovanni in Foro, girò il coltello nella piaga: «El sta de fronte a San Giovani en Foro/ e l'à 'nventà el pandoro./ I pasticeri da la rabia muti/ i à volùo scimiotarlo tuti». Non c'è bisogno di traduzione.Melegatti arrivò al pandoro partendo dal Nadalìn. Conosceva a fondo la tecnica dei dolci lievitati da forno. Eliminò la glassa di zucchero e pinoli che avrebbe impedito la completa lievitazione; aggiunse uova e burro per rendere più soffice l'impasto; modificò i forni per ottenere una temperatura costante. Nacque così il pandoro: tenero come l'amore tra Giulietta e Romeo, tipico come l'Arena, dominante sugli altri dolci come la Torre dei Lamberti domina la città. È molto più alto del Nadalìn, del quale mantenne la simbolica forma a stella, perché anch'esso deve ricordare la nascita di Gesù. A disegnare il caratteristico stampo tronco-conico con la stella ad otto punte fu chiamato il pittore delle piassaròte, le venditrici di Piazza Erbe: Angelo Dall'Oca Bianca.Melegatti, pasticciere manager in anticipo rispetto ai tempi, studiò il marchio con le tre mele e i due gatti rampanti e spedì il pandoro ovunque. Il fallimento della storica azienda, recentemente, ha tenuto con il fiato sospeso tutta l'Italia. La resurrezione in extremis ha fatto respirare di sollievo non solo i veronesi. Alessandro Gassman ha twittato la sua soddisfazione e Paola Saluzzi ha messo un like. La storia del lievito madre, che ha 124 anni e che sarebbe scomparso senza i due dipendenti che si sono preoccupati di rinfrescarlo tutti i giorni, anche con la fabbrica chiusa, ha commosso tutti.«Il lievito madre vive in virtù di questi angeli», ha commentato gioiosamente Giorgio Gioco, decano dei cuochi e dei pasticcieri veronesi, poeta e scultore, 94 anni portati con la saggezza e la freschezza del... lievito madre. Alla tavola dei 12 Apostoli, il locale affidato ora alla quarta generazione dei Gioco, Giorgio ha servito il pandoro con lo zabaione a scrittori, attori, giornalisti, cantanti e artisti. Maria Callas lo gustò prima e dopo il calo di peso. Barbara Streisand, ad ogni cucchiaiata, ripeteva: «Very good, very good». Racconta Gioco: «Anche Indro Montanelli che amava stare a tavola conversando con gli amici, accontentandosi di tre tortellini in brodo, inneggiò incredibilmente: «Evviva il pandoro con lo zabaione». Piaceva tanto a Vincenzo Buonassisi, giornalista esperto di gastronomia, a Massimo Alberini e a Dino Villani, portavoce del panettone e creatore della colomba pasquale. La ricetta dello zabaione? Semplice: uova, vino bianco, marsala e zucchero frullati bene. Quando la crema è soda si mette a raffreddare. Infine si aggiunge la panna montata ed è fatto. Si taglia il pandoro a strati orizzontali in modo di ottenere tante soffici stelle. Su un vassoio da portata si stende un'abbondante cucchiaiata di zabaione poi, sopra, il pandoro, altra cucchiaiata e altra fetta e così via fino al cocuzzolo».Il pandoro porta la festa anche in prigione. Sul Miglio Rosso, giornale (ora soppresso) del carcere di Montorio sobborgo della cintura veronese, era uscito tempo fa l'articolo di un carcerato che lamentava che nelle celle a Natale arrivava un pandoro di produzione «forestiera» (era di un'industria umbra) che costava 6,90 euro al chilo. Intervenne la garante dei detenuti e il giornalista-carcerato potè scrivere: «Quest'anno il pandoro, dolce emblema natalizio, è stato distribuito a costo zero. La nostra garante, come una divina provvidenza, è riuscita ad allietarci il Natale facendoci degustare il dolce di produzione veronese. Sono stati consegnati due pandori per cella». Chi sia stato il primo a chiamare «pandoro» il pandoro non è dato di sapere. Anche qui fioriscono racconti e leggende che non hanno riscontro storico. Una credenza lega il nome del dolce alla Repubblica di Venezia dove, nei banchetti dogali, sarebbe stato servito, tra altre munifiche pietanze, un pane alto ricoperto di sottilissime lamine d'oro. Un'altra storiella attribuisce il merito a un garzone di Melegatti che, ammirando l'impasto di un bel giallo carico, esclamò in veronese: «L'è un pan de oro». Qualche storico dei dolci italiani sostiene che il pandoro deriva dal pane di Vienna, un pane dolce simile alla brioche, di provenienza asburgica. Non hanno gli austriaci occupato per più di mezzo secolo il Lombardo-Veneto? Non hanno la brioche, il pan di Vienna e il pandoro una caratteristica comune, la ricchezza di burro che li rende soffici e squisiti? Pur preferendo la versione che lega il pandoro al Nadalìn riconosciamo che il burro è fondamentale. Al punto che l'industria veronese Dal Colle, che fa milioni di pezzi che manda in tutto il mondo, quest'anno ha bloccato tutto il burro di una malga dei Monti Lessini pur di produrre un numero limitatissimo (10.000 pezzi) di pandori cru. Come i vini pregiati.