2021-08-09
Marco Palmieri: «Qui o lo Stato ci difende o la Francia ci porta via tutto»
Il patron della pelletteria Piquadro: «Ogni Paese Ue protegge i settori strategici, noi no. La moda crea lavoro e redditi ma le aziende sono prede facili dei capitalisti d'Oltralpe».«La pandemia ha creato sacche di disagio finanziario: da una parte i grandi investitori, i grandi brand del lusso e i fondi pieni di soldi, dall'altra le aziende italiane che non ce la fanno. È la situazione ideale per chi ci vuole comperare. Ci porteranno via tutto». Marco Palmieri, patron di Piquadro, gruppo emiliano di pelletteria d'alta gamma, è preoccupato per le imprese della moda. Ultimo acquisto francese: Etro. Qualche giorno fa l'annuncio ufficiale della cessione del 60% a L Catterton Europe, il family office di Bernard Arnault (terzo uomo più ricco del mondo, con un patrimonio di 183,4 miliardi di dollari). Sono ormai tanti i brand del lusso italiani in mani straniere.Pensa siano offerte irrinunciabili?«Etro è un marchio di una bellezza infinita, lo riconosci a un chilometro di distanza e quando un brand ha quella tradizione e riconoscibilità è un patrimonio inestimabile anche per il Paese. Può piacere o no, ma è un patrimonio di identità. Il nostro sistema è da tutelare, ma nessuno ha chiaro come farlo. Intanto il tempo passa». Lei ha fatto il contrario, andando a comperare il brand francese Lancel. Pensa che l'Italia sia in continua vendita?«Il ragionamento è ampio. La finanziarizzazione delle aziende, cioè la prevalenza dell'aspetto finanziario della plusvalenza rispetto a quello industriale più di lungo termine, può essere letta come il male. In realtà è quella che consente anche di fare i grandi gruppi. Le famiglie italiane, la cultura italiana del fare, della manifattura, dell'orientamento al prodotto, ha allontanato, nell'ultimo secolo e non solo negli ultimi dieci anni, da un aspetto finanziario che supporta e concorre alla crescita delle aziende. Poi c'è un notevole individualismo che ci impedisce di metterci insieme». Non crede ci sia dell'altro?«Certo. In Italia non c'è una politica industriale, non abbiamo mai deciso quali sono i settori che consideriamo strategici. In modo più o meno trasparente, gli altri Paesi europei proteggono certi loro campioni nazionali: a me non risulta che capiti qui. Tutto questo porta le aziende ad andarsene». Come mettere un argine?«Con meccanismi che facilitino e agevolino le aggregazioni nazionali contro la vendita all'estero. Capisco che c'è la concorrenza, siamo in un sistema molto competitivo, ma una volta definiti i settori rilevanti per questo Paese si possono fare politiche specifiche».Però, venduto il marchio, il prodotto continua a essere fatto in Italia e non viene messa in crisi la filiera né i posti di lavoro. «Certe lavorazioni sono legate a quel certo territorio. E salvaguardare i territori è fondamentale. Lo tocchiamo con mano anche in altri ambiti». Ad esempio?«Quest'inverno mi è stato chiesto di prendere in gestione una stazione sciistica a 30 minuti di auto perché altrimenti avrebbe chiuso. Ho chiamato quattro amici e l'abbiamo salvata noi. Perdiamo soldi ma ci lavorano tante persone. L'abbiamo fatto per il territorio».Perché lei è italiano e tiene alla sua terra.«È così. Alla fine la finanziarizzazione allontana da queste cose ma noi ci troviamo a competere con chi ha montagne di capitali e in questo momento ne circolano tantissimi. I fondi sono pieni di soldi e comprano anche a prezzi più alti». Lei ha toccato con mano questa situazione cercando di comperare Sergio Rossi, noto marchio italiano passato prima a Gucci-Kering, poi tornato italiano con il fondo Investindustrial e ora di nuovo venduto all'estero.«All'ultimo momento è arrivato un cinese e ce l'ha portato via».Tutto liscio, invece per l'acquisto di Lancel da Richemont, storica maison francese di pelletteria?«Sono andato in Francia da questo grande gruppo, ho acquistato l'azienda, e pur rispettando la sua francesità ho portato tutta la produzione in Italia. Il mio stabilimento di The Bridge produce tutto Lancel». Dove?«A Scandicci, in Toscana, un cluster della pelletteria dove si trovano tutte le fabbriche del settore. Parte della politica non si rende conto che pelletteria e calzature hanno portato risultati straordinari. Da Chanel, Dior, Balenciaga, Richemont vengono nell'area di Scandicci a fondare aziende da 400/500 persone per produrre borse. Decine di posti di lavoro, stipendi lievitati per quello che era un lavoro considerato povero e desueto, mentre ora attira occupazione perché ci sono cent'anni di storia della filiera». La politica non esiste in questo ambito?«La politica si dovrebbe chiedere quali sono le aziende che hanno attratto occupazione: per esempio, la pelletteria. Invece si parla solo di microelettronica e intelligenza artificiale. Mi piacerebbe tanto fare concorrenza alla Silicon Valley, ma per il momento bisogna guardare qui, dove si fanno profitti e posti di lavoro». Che sia la parola «lusso» a dare fastidio in un Paese ipocrita che guarda alla moda solo come lustrini e paillettes?«È così. La moda la possono raccontare come vogliono ma è cultura, è l'espressione della socialità, dell'economia, del lavoro. È arte, creatività e porta soldi a palate al Paese: è il secondo macrosettore nell'export». Cosa pensa di Brunello Cucinelli, che tiene a casa i non vaccinati ma stipendiati per sei mesi?«Brunello è un amico e mi aveva già annunciato questa scelta. Sono come lui, in difficoltà pensando a come tutelare i miei dipendenti. Capisco chi non se la sente di lavorare a fianco di chi non è vaccinato».Non pensa sia una questione di libertà di scelta?«Da piccolo mio padre mi diceva che la mia libertà arriva dove inizia quella di un altro. Il fatto di mettere a rischio qualcuno perché non voglio vaccinarmi non va bene. La decisione di Brunello è perfetta perché parte dal presupposto che non vuole far correre rischi a nessuno e li tiene a casa».Però così non si finisce nella dittatura del vaccino?«Siamo in democrazia, sappiamo benissimo che è un sistema imperfetto ma per ora non ne conosciamo uno migliore».Che intende?«Anche a me ripugna imporre di vaccinarsi, ma le cose vanno misurate nel contesto storico. Con i vaccini si muore meno e si riempiono meno gli ospedali». Si parla di riconversione industriale, il Pnrr impone vincoli molto stringenti per andare sempre più verso produzioni green. Non c'è il rischio di creare disoccupazione?«Bisogna valutare bene le conseguenze. La transizione ecologica rientra in un processo molto più ampio, quello della sostenibilità generale. Ma c'è anche la sostenibilità sociale. Certo, per far lavorare la gente non puoi inquinare allegramente, ma la transizione deve essere misurata con logiche di sostenibilità. Se da domattina cancelli tutta la plastica dal pianeta, probabilmente generi disagi e problemi sociali nel breve termine».In che senso?«Le faccio un esempio. Se il packaging in plastica del formaggio costa 1, in un materiale riciclato costa 10 volte tanto: i prezzi saliranno e i redditi bassi smetteranno di acquistare formaggio. La transizione non può essere repentina e violenta. Bisogna valutare l'impatto sulla vita delle persone, soprattutto i deboli. Più che disoccupazione, genera inflazione. La transizione green porta costi importanti che finiscono sul consumatore. Se è troppo accelerata, il consumatore subisce un'inflazione importante che colpisce i redditi bassi, non quelli alti. La transizione dev'essere veloce ma equilibrata, sostenibile per le persone». L'Europa ci dà tempi ristretti: e gli altri paesi come Cina e India ?«Diciamo pure il 70% del mondo. Questa frittata la facciamo solo noi europei. Con l'antitrust ha fatto uguale. In Europa abbiamo regole antitrust sofisticatissime che ci portano a un mercato tendenzialmente equilibrato, ma alla resa dei conti non è così. Poi arrivano i cinesi, che non sono trasparenti per definizione, e ci comprano le aziende mentre noi non possiamo acquistare le loro». La globalizzazione ci ha fatto bene?«Ci è sfuggita di mano. Andava senz'altro fatta, ma andava regolata di più, ci voleva più tempo per non creare disequilibri. Non vorrei succedesse altrettanto con il green. Io ho anche beneficiato della globalizzazione, per alcuni settori e aziende era perfino troppo vantaggioso, ma ha creato scompigli inenarrabili. I salari bassi che hanno dato il “la" alla delocalizzazione e alla globalizzazione erano in parte figli di problemi sulla gestione delle risorse umane, sulla dignità, sull'ecologia».Se gli industriali della moda andassero a chiedere aiuti al governo, su cosa concentrerebbero le richieste?«Il mondo della moda ha bisogno, guardando al futuro, di persone con formazione e competenze a tutto tondo, dallo sviluppo del prodotto fino al marketing, alle vendite, in giro per il mondo. Che è un altro mestiere, non c'entra niente con quello che abbiamo fatto fino adesso. Abbiamo bisogno di risorse per finanziare il reskilling delle persone. Ma soldi veri e solidissimi contributi per supportare la digitalizzazione, per tecnologie vere. Altrimenti le aziende o chiudono o vengono comperate».
Antonella Bundu (Imagoeconomica)
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