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2019-03-07
«Oseghale ha fatto a pezzi Pamela da viva»
Ansa
Sono da poco passate le 11, la spoglia aula 1 del palazzo di Giustizia di Macerata è percorsa da un fremito come quello che scuote in una convulsione Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, quasi avvolta, minuta e con gli enormi occhi smeraldo spiritati da mesi e mesi di dolore e angoscia, in una maglietta rosa con la foto della sua «bimba» stampata sul petto. Il collaboratore di giustizia Vincenzo Marino sta parlando da un'ora e mezza e guardando fisso negli occhi Innocent Oseghale rintanato tra l'interprete e uno dei suoi difensori scandisce: «Mi ha detto che cominciò a sezionarla partendo da una gamba, penso da un piede perché lui, Oseghale, quando dice gamba intende tutto. Pamela si mosse, si lamentava allora lui le dette un'altra coltellata al fegato per finirla e poi continuò a farla a pezzi». La mamma di Pamela geme, sussurra stringendo forte suo fratello, Marco Valerio Verni, l'avvocato che difende la parte civile, «mia figlia ha vissuto questo orrore, io ci devo essere qui per riviverlo con lei, per proteggerla». Marino ha proseguito: «Oseghale ha fatto tutto da solo; ha cominciato a farla a pezzi che lei ancora respirava, voleva nascondere il cadavere in un sacco grande, ma siccome non c'entrava ha continuato a tagliare, ma le ossa erano dure. Dopo l'ha lavata con la varichina per nascondere le tracce del rapporto sessuale e non far capire se era morta per la droga o per le coltellate». Pausa. Un silenzio che pare interminabile prima che il procuratore capo di Macerata, Giovanni Giorgio, ponga un'altra domanda.
La seconda udienza per l'omicidio di Pamela Mastropietro, uccisa il 30 gennaio 2018 a Macerata (e il cui corpo fu trovato il giorno dopo in due trolley abbandonati lungo una strada), per cui è imputato il solo Innocent Oseghale, il nigeriano che si autoaccusa solo dello squartamento, era cominciata alle 9 del mattino con Vincenzo Marino, collaboratore di giustizia, protetto da un paravento. L'avvocato Marco Valerio Verni chiede di rinviare a quando sarà di nuovo concesso al collaboratore di giustizia il regime di protezione. Ma la corte presieduta da Roberto Evangelista ha respinto la richiesta e Marino ha deposto a viso scoperto.
Comincia così il racconto del collaboratore che ricorda di aver incontrato Oseghale il 6 luglio (farà confusione sulla data) nel carcere di Ascoli Piceno, apostrofandolo come macellaio. Dopo qualche tempo, spiega Marino, Oseghale lo avvicinò e iniziò a confidarsi con lui chiamandolo «zio» per rispetto. Gli consegnò anche un biglietto con la richiesta di vestiti. Marino ha ripetuto per filo e per segno tutto quello che c'è scritto nei verbali delle sue precedenti deposizioni. Pamela incontrò il nigeriano la mattina del 30 gennaio ai giardini Diaz - a Macerata - dove stava aspettando un cliente al quale vendere marijuana. Pamela gli chiese una sigaretta e gli domandò se avesse eroina. Oseghale non ne aveva, ma poteva trovarla. Pamela a quel punto per ingraziarselo ebbe - dice testualmente Marino - «un atto sessuale con lui». Il procuratore Giorgio insiste: «Che atto?». Marino: «Un atto consenziente». Giorgio vuole i particolari, Marino prima indica la bocca, poi sbotta «Ma ci sono delle femmine…». Ma il pm vuole andare fino in fondo mentre Alessandra Verni continua a tremare. «Un bocchino», sbotta il collaboratore e Giorgio: «Ah, benissimo!». Marino afferma che a portare l'eroina fu Desmod Lucky (un altro nigeriano ora in carcere per droga, ma uscito dal caso Mastropietro) e che i tre andarono a casa di Oseghale in via Spalato. Qui i due nigeriani cercarono di avere un rapporto a tre con Pamela che si ribellò, ma dopo che lei aveva assunto l'eroina, Desmond provò a violentarla. Lei lo respinse e Lucky la colpì con uno schiaffo tramortendola e se ne andò. Oseghale provò a rianimarla, poi la spogliò ed ebbe un «rapporto sessuale completo con la ragazza». Marino - che già aveva fornito un particolare inedito: Pamela aveva pagato la droga con una collanina d'argento che le aveva regalato sua madre - aggiunge: «Oseghale mi ha detto che era bianca e minuta, che aveva dei nei sulla schiena e sul seno e che mentre lui gli era sopra lei aveva gli occhi bianchi». Ma Pamela, ripresasi, cerca di scappare e minaccia denunciare il nigeriano. Oseghale cerca di fermarla, le dà una pedata, lei lo grafia al collo e quel punto lui le sferra una prima coltellata al fegato. Marino ha voglia di dire altro. Prova a parlare della mafia nigeriana, ma il procuratore Giorgio lo frena. In serata si scoprirà che altri due uomini sono stati iscritti nel registro degli indagati per violenza sessuale, approfittando dello stato di «minorata difesa» della giovane. Tocca a un secondo teste: Stefano Giardini, compagno di cella di Oseghale, che si proclama il vero «zio» del nigeriano. Giardini, ex sottoufficiale della Finanza, racconta che conoscendo l'inglese parlava con Oseghale, di cui voleva scrivere il memoriale. Cerca di far passare per mitomane Marino, anzi lo dice chiaro, ma poi raccontando la versione che il nigeriano gli ha fornito non si discosta molto da quella del «pentito». Compreso il fatto che Oseghale a squartare Pamela ha iniziato dal piede. «Lui era sicuro», ha detto Giardini, «che la ragazza fosse morta, ma ha cominciato dal piede perché semmai si fosse rianimata…». Durante l'udienza però si scopre che Umberto Gramezi, uno dei due difensori di Oseghale, che ha un nutrito collegio con un altro avvocato, Simone Matraxia, e quattro periti che nessuno sa da chi e come vengono pagati, è anche avvocato di Giardini. Ma nessuno ci fa caso. Mentre Alessandra e Marco Valerio Verni se ne vano stretti l'una all'altro nell'aria resta come una nebbia d'angoscia: «Ha cominciato a tagliarla che era ancora viva».
La mafia nigeriana è l'unica pista ma in aula si fa fatica ad ammetterlo
C'è un convitato di pietra in questo dramma che si sta evocando al palazzo di Giustizia di Macerata dove è in corso il processo per l'uccisione e lo squartamento di Pamela Mastropietro: è la «mafia nigeriana». Il procuratore di Macerata, Giovanni Giorgio, che sostiene l'accusa insieme al sostituto, Stefania Ciccioli, in aula si sofferma molto sui particolari dei rapporti sessuali che il presunto assassino avrebbe avuto con Pamela. Lo chiede più volte ai due testi principali della seconda udienza ieri. Da Stefano Giardini, compagno di cella di Innocent Oseghale, il presunto assassino di Pamela, che gli ha molto confidato, vuole sapere se c'è stata doppia eiaculazione, se Oseghale ha raccontato particolari intimi fino alla rivelazione - fatta dal teste - che Pamela aveva il pube rasato. Oseghale - che ammette lo squartamento - ha fatto di meglio: lo ha strappato dal corpo!
Ma quando si parla di mafia nigeriana a Vincenzo Marino, che racconta a verbale e ripete in aula che il nigeriano gli ha confidato di essere un riferimento dei Black Kats e di fare da collegamento tra Castel Volturno e Padova (le centrali della mafia nera), pone questa domanda: «Lei che è stato mafioso le sembra che ci siano le modalità della mafia? Ci sono intimidazioni? Ci sono le richieste di pizzo?» Vincenzo Marino, che ha appena raccontato di come Oseghale ha squartato Pamela da viva, sibila: «Noi almeno li sotterravamo interi». Poi ripercorre le sue precedenti deposizioni: dice di sapere che Oseghale ha i tatuaggi rituali sull'addome - cicatrici e un gatto con un capello - , dice che il nigeriano cercava appartamenti dove collocare le prostitute e per questo si rapportava in carcere con un detenuto, Stefano Re, che aveva un'agenzia immobiliare. Aggiunge: «Loro mica si fanno dare il pizzo. Loro i soldi ce li hanno con la prostituzione e la droga. E a Padova stanno investendo anche nelle attività commerciali». Marino racconta anche che il nigeriano gli aveva promesso 100.000 euro se gli dava una mano, soldi che dovevano arrivare da Padova a Marino attraverso uno dei difensori di Oseghale. Ma a quel punto il procuratore taglia corto. Tocca alla parte civile, Marco Valerio Verni, porre una domanda: «È vero che lei, Marino, poteva dire molto di più sulla mafia nigeriana?». La risposta cade come un macigno nell'aula: «Sì, se mi ridanno il regime di protezione sono disposto a raccontare molto di più». Ma il regime di protezione ancora non è arrivato. E questo nonostante la moglie di Marino sia stata fatta oggetto di una minaccia pesantissima: le hanno recapitato, come ha scritto La Verità alcuni giorni fa, una bambolina voodoo con un biglietto dove era vergato: «Questa e (senza accento, ndr) la fine che fate». E la figlia del collaboratore di giustizia pare sia stata intimidita da persone di colore e sia ora costretta a vivere nascosta. Ma quando il procuratore Giovanni Giorgio gli ha chiesto se sapeva di come si comporta la «cosiddetta mafia nigeriana», Marino è stato categorico: «Mi ha detto Oseghale che le ragazze arrivano dalla Libia a Castel Volturno, ma che il voodoo non esiste, è una superstizione. Loro le legano con questa presunta magia, poi minacciano le famiglie e sequestrano i passaporti. A loro interessano i soldi come a Oseghale». Sembrano atteggiamenti mafiosi, ma forse è solo - come dice l'avvocato Verni - una «semplificazione mediatica». Salvo poi scoprire che nelle carte del processo Mastropietro ci sono molti riferimenti alla mafia nigeriana. Lucky Awelima - uno spacciatore sospettato di essere complice di Oseghale poi uscito dall'inchiesta - dice di avere paura di Oseghale perché è un capo. Ma anche Oseghale ha paura. Lo racconta il teste che ieri ha cercato di dare del mitomane al collaboratore di giustizia: Stefano Giardini. Nella sua deposizione dice che Oseghale ha fornito una prima versione falsa sul massacro di Pamela perché «gliela avevano suggerita altri nigeriani che aveva incontrato nel suo primo carcere di Montacuto» e che «lui aveva paura che quelli facessero del male ai suoi bambini». Quelli chi? Una domanda che non ha trovato risposta anche se è vero che Oseghale ha avuto due figli da una ragazza di Macerata, Michela Pettinari, che a quanto pare lo ossessionava la sera del massacro con continue telefonate che avrebbero indotto il nigeriano a fare a pezzi il cadavere per farlo sparire prima che la sua compagna tornasse a casa.
Dunque le minacce c'erano. Come c'è una sentenza emessa pochi giorni fa ad Ancona - indagine della direzione distrettuale antimafia - contro un nigeriano condannato a otto anni per tratta di esseri umani messa in opera con minacce e riti voodoo, come c'è una richiesta di chiarimenti sul caso Mastropietro arrivata dalla Germania per stabilire se vi siano analogie tra questo caso e quanto accaduto ad Amburgo, dove la mafia nigeriana avrebbe fatto a pezzi una prostituta per punirla. Certo bisogna essere molto cauti anche se la Dia (Direzione investigativa antimafia) scrive che quanto accaduto a Pamela è esemplificativo del modo in cui agisce la criminalità organizzata nigeriana. Ma è strano che il testimone Giardini si sia lasciato scappare: «Ho detto a Oshegale che piangeva leggendo sui giornali le accuse che venivano da Marino: “Hai cambiato anche l'esito delle elezioni"». Ma su questa affermazione il presidente della corte ha obbiettato: «Non è pertinente».
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Il supertestimone Vincenzo Marino ricostruisce al processo la mattanza compiuta sulla diciottenne: «L'africano iniziò a sezionarla da un piede e lei emise dei lamenti. Lui la finì e la mutilò». Alla base del raptus la reazione della ragazza all'abuso sessuale.La seconda udienza sembra aver trascurato il tema della criminalità «nera». Eppure a chiamarla in causa ci sono le minacce voodoo. E dalla Germania arriva una richiesta di comparare episodi simili.Lo speciale contiene due articoli.Sono da poco passate le 11, la spoglia aula 1 del palazzo di Giustizia di Macerata è percorsa da un fremito come quello che scuote in una convulsione Alessandra Verni, la mamma di Pamela Mastropietro, quasi avvolta, minuta e con gli enormi occhi smeraldo spiritati da mesi e mesi di dolore e angoscia, in una maglietta rosa con la foto della sua «bimba» stampata sul petto. Il collaboratore di giustizia Vincenzo Marino sta parlando da un'ora e mezza e guardando fisso negli occhi Innocent Oseghale rintanato tra l'interprete e uno dei suoi difensori scandisce: «Mi ha detto che cominciò a sezionarla partendo da una gamba, penso da un piede perché lui, Oseghale, quando dice gamba intende tutto. Pamela si mosse, si lamentava allora lui le dette un'altra coltellata al fegato per finirla e poi continuò a farla a pezzi». La mamma di Pamela geme, sussurra stringendo forte suo fratello, Marco Valerio Verni, l'avvocato che difende la parte civile, «mia figlia ha vissuto questo orrore, io ci devo essere qui per riviverlo con lei, per proteggerla». Marino ha proseguito: «Oseghale ha fatto tutto da solo; ha cominciato a farla a pezzi che lei ancora respirava, voleva nascondere il cadavere in un sacco grande, ma siccome non c'entrava ha continuato a tagliare, ma le ossa erano dure. Dopo l'ha lavata con la varichina per nascondere le tracce del rapporto sessuale e non far capire se era morta per la droga o per le coltellate». Pausa. Un silenzio che pare interminabile prima che il procuratore capo di Macerata, Giovanni Giorgio, ponga un'altra domanda. La seconda udienza per l'omicidio di Pamela Mastropietro, uccisa il 30 gennaio 2018 a Macerata (e il cui corpo fu trovato il giorno dopo in due trolley abbandonati lungo una strada), per cui è imputato il solo Innocent Oseghale, il nigeriano che si autoaccusa solo dello squartamento, era cominciata alle 9 del mattino con Vincenzo Marino, collaboratore di giustizia, protetto da un paravento. L'avvocato Marco Valerio Verni chiede di rinviare a quando sarà di nuovo concesso al collaboratore di giustizia il regime di protezione. Ma la corte presieduta da Roberto Evangelista ha respinto la richiesta e Marino ha deposto a viso scoperto. Comincia così il racconto del collaboratore che ricorda di aver incontrato Oseghale il 6 luglio (farà confusione sulla data) nel carcere di Ascoli Piceno, apostrofandolo come macellaio. Dopo qualche tempo, spiega Marino, Oseghale lo avvicinò e iniziò a confidarsi con lui chiamandolo «zio» per rispetto. Gli consegnò anche un biglietto con la richiesta di vestiti. Marino ha ripetuto per filo e per segno tutto quello che c'è scritto nei verbali delle sue precedenti deposizioni. Pamela incontrò il nigeriano la mattina del 30 gennaio ai giardini Diaz - a Macerata - dove stava aspettando un cliente al quale vendere marijuana. Pamela gli chiese una sigaretta e gli domandò se avesse eroina. Oseghale non ne aveva, ma poteva trovarla. Pamela a quel punto per ingraziarselo ebbe - dice testualmente Marino - «un atto sessuale con lui». Il procuratore Giorgio insiste: «Che atto?». Marino: «Un atto consenziente». Giorgio vuole i particolari, Marino prima indica la bocca, poi sbotta «Ma ci sono delle femmine…». Ma il pm vuole andare fino in fondo mentre Alessandra Verni continua a tremare. «Un bocchino», sbotta il collaboratore e Giorgio: «Ah, benissimo!». Marino afferma che a portare l'eroina fu Desmod Lucky (un altro nigeriano ora in carcere per droga, ma uscito dal caso Mastropietro) e che i tre andarono a casa di Oseghale in via Spalato. Qui i due nigeriani cercarono di avere un rapporto a tre con Pamela che si ribellò, ma dopo che lei aveva assunto l'eroina, Desmond provò a violentarla. Lei lo respinse e Lucky la colpì con uno schiaffo tramortendola e se ne andò. Oseghale provò a rianimarla, poi la spogliò ed ebbe un «rapporto sessuale completo con la ragazza». Marino - che già aveva fornito un particolare inedito: Pamela aveva pagato la droga con una collanina d'argento che le aveva regalato sua madre - aggiunge: «Oseghale mi ha detto che era bianca e minuta, che aveva dei nei sulla schiena e sul seno e che mentre lui gli era sopra lei aveva gli occhi bianchi». Ma Pamela, ripresasi, cerca di scappare e minaccia denunciare il nigeriano. Oseghale cerca di fermarla, le dà una pedata, lei lo grafia al collo e quel punto lui le sferra una prima coltellata al fegato. Marino ha voglia di dire altro. Prova a parlare della mafia nigeriana, ma il procuratore Giorgio lo frena. In serata si scoprirà che altri due uomini sono stati iscritti nel registro degli indagati per violenza sessuale, approfittando dello stato di «minorata difesa» della giovane. Tocca a un secondo teste: Stefano Giardini, compagno di cella di Oseghale, che si proclama il vero «zio» del nigeriano. Giardini, ex sottoufficiale della Finanza, racconta che conoscendo l'inglese parlava con Oseghale, di cui voleva scrivere il memoriale. Cerca di far passare per mitomane Marino, anzi lo dice chiaro, ma poi raccontando la versione che il nigeriano gli ha fornito non si discosta molto da quella del «pentito». Compreso il fatto che Oseghale a squartare Pamela ha iniziato dal piede. «Lui era sicuro», ha detto Giardini, «che la ragazza fosse morta, ma ha cominciato dal piede perché semmai si fosse rianimata…». Durante l'udienza però si scopre che Umberto Gramezi, uno dei due difensori di Oseghale, che ha un nutrito collegio con un altro avvocato, Simone Matraxia, e quattro periti che nessuno sa da chi e come vengono pagati, è anche avvocato di Giardini. Ma nessuno ci fa caso. 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Il procuratore di Macerata, Giovanni Giorgio, che sostiene l'accusa insieme al sostituto, Stefania Ciccioli, in aula si sofferma molto sui particolari dei rapporti sessuali che il presunto assassino avrebbe avuto con Pamela. Lo chiede più volte ai due testi principali della seconda udienza ieri. Da Stefano Giardini, compagno di cella di Innocent Oseghale, il presunto assassino di Pamela, che gli ha molto confidato, vuole sapere se c'è stata doppia eiaculazione, se Oseghale ha raccontato particolari intimi fino alla rivelazione - fatta dal teste - che Pamela aveva il pube rasato. Oseghale - che ammette lo squartamento - ha fatto di meglio: lo ha strappato dal corpo! Ma quando si parla di mafia nigeriana a Vincenzo Marino, che racconta a verbale e ripete in aula che il nigeriano gli ha confidato di essere un riferimento dei Black Kats e di fare da collegamento tra Castel Volturno e Padova (le centrali della mafia nera), pone questa domanda: «Lei che è stato mafioso le sembra che ci siano le modalità della mafia? Ci sono intimidazioni? Ci sono le richieste di pizzo?» Vincenzo Marino, che ha appena raccontato di come Oseghale ha squartato Pamela da viva, sibila: «Noi almeno li sotterravamo interi». Poi ripercorre le sue precedenti deposizioni: dice di sapere che Oseghale ha i tatuaggi rituali sull'addome - cicatrici e un gatto con un capello - , dice che il nigeriano cercava appartamenti dove collocare le prostitute e per questo si rapportava in carcere con un detenuto, Stefano Re, che aveva un'agenzia immobiliare. Aggiunge: «Loro mica si fanno dare il pizzo. Loro i soldi ce li hanno con la prostituzione e la droga. E a Padova stanno investendo anche nelle attività commerciali». Marino racconta anche che il nigeriano gli aveva promesso 100.000 euro se gli dava una mano, soldi che dovevano arrivare da Padova a Marino attraverso uno dei difensori di Oseghale. Ma a quel punto il procuratore taglia corto. Tocca alla parte civile, Marco Valerio Verni, porre una domanda: «È vero che lei, Marino, poteva dire molto di più sulla mafia nigeriana?». La risposta cade come un macigno nell'aula: «Sì, se mi ridanno il regime di protezione sono disposto a raccontare molto di più». Ma il regime di protezione ancora non è arrivato. E questo nonostante la moglie di Marino sia stata fatta oggetto di una minaccia pesantissima: le hanno recapitato, come ha scritto La Verità alcuni giorni fa, una bambolina voodoo con un biglietto dove era vergato: «Questa e (senza accento, ndr) la fine che fate». E la figlia del collaboratore di giustizia pare sia stata intimidita da persone di colore e sia ora costretta a vivere nascosta. Ma quando il procuratore Giovanni Giorgio gli ha chiesto se sapeva di come si comporta la «cosiddetta mafia nigeriana», Marino è stato categorico: «Mi ha detto Oseghale che le ragazze arrivano dalla Libia a Castel Volturno, ma che il voodoo non esiste, è una superstizione. Loro le legano con questa presunta magia, poi minacciano le famiglie e sequestrano i passaporti. A loro interessano i soldi come a Oseghale». Sembrano atteggiamenti mafiosi, ma forse è solo - come dice l'avvocato Verni - una «semplificazione mediatica». Salvo poi scoprire che nelle carte del processo Mastropietro ci sono molti riferimenti alla mafia nigeriana. Lucky Awelima - uno spacciatore sospettato di essere complice di Oseghale poi uscito dall'inchiesta - dice di avere paura di Oseghale perché è un capo. Ma anche Oseghale ha paura. Lo racconta il teste che ieri ha cercato di dare del mitomane al collaboratore di giustizia: Stefano Giardini. Nella sua deposizione dice che Oseghale ha fornito una prima versione falsa sul massacro di Pamela perché «gliela avevano suggerita altri nigeriani che aveva incontrato nel suo primo carcere di Montacuto» e che «lui aveva paura che quelli facessero del male ai suoi bambini». Quelli chi? Una domanda che non ha trovato risposta anche se è vero che Oseghale ha avuto due figli da una ragazza di Macerata, Michela Pettinari, che a quanto pare lo ossessionava la sera del massacro con continue telefonate che avrebbero indotto il nigeriano a fare a pezzi il cadavere per farlo sparire prima che la sua compagna tornasse a casa. Dunque le minacce c'erano. Come c'è una sentenza emessa pochi giorni fa ad Ancona - indagine della direzione distrettuale antimafia - contro un nigeriano condannato a otto anni per tratta di esseri umani messa in opera con minacce e riti voodoo, come c'è una richiesta di chiarimenti sul caso Mastropietro arrivata dalla Germania per stabilire se vi siano analogie tra questo caso e quanto accaduto ad Amburgo, dove la mafia nigeriana avrebbe fatto a pezzi una prostituta per punirla. Certo bisogna essere molto cauti anche se la Dia (Direzione investigativa antimafia) scrive che quanto accaduto a Pamela è esemplificativo del modo in cui agisce la criminalità organizzata nigeriana. Ma è strano che il testimone Giardini si sia lasciato scappare: «Ho detto a Oshegale che piangeva leggendo sui giornali le accuse che venivano da Marino: “Hai cambiato anche l'esito delle elezioni"». Ma su questa affermazione il presidente della corte ha obbiettato: «Non è pertinente».
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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