
La scrittrice ha saputo raccontare cucina, sapori e tradizioni del Belpaese. Un grand tour gastronomico che va celebrato.Grazie anche a una rete «preziosa», ovvero le testimonianze delle sue lettrici sparse a tutto stivale, oltre alla sua innata curiosità, Ada Boni è stata, per certi versi, una sorta di Goethe al femminile nel raccontare, attraverso la cucina, bellezze e golosità nazionali. In Piemonte, oltre al nobile tartufo o alla intrigante bagna cauda, scopriamo quale valore potesse avere anche una semplice tazza di brodo. «Non si negava a nessuno» posto che, un tempo, apposita legge prescriveva che «prima del patibolo o della camera di tortura fosse concesso al condannato un ottimo brodo di carne» dal valore simbolico, o consolatorio, quale «miglior addio alla cucina e alle gioie del mondo».La Milano del dopoguerra, ancor prima del Boom economico, venne via via «colonizzata», o presa per la gola, dagli osti toscani che, lubrificando i palati degli uomini d’affari con olio ‘bbono e Chianti, resero ancora più intriganti le cotolette dorate o la classica cassouela, in origine antico gemellaggio tra verze e maiale nel rendere omaggio alla festa di Sant’Antonio Abate. Terra lombarda, come testimoniato dall’«arcimatto» Gianni «Giuan» Brera, con piatti bandiera orgoglio dei diversi territori, a iniziare dal risotto alla certosina delle sue campagne pavesi. Nel Veneto non può mancare l’elogio della polenta «duttile ed eclettica nei vari abbinamenti», bianca o gialla che sia. Per il turista Veneto vuol dire soprattutto Venezia, con i suoi bacari tra le calli (osterie tra le viuzze) ed ecco che il pesce «ti avvolge con i suoi profumi e poi con il suo sapore sottile». Che poi si tratti di umili sarde in saor o più prestanti moeche (i granchietti lagunari) entreranno «a far parte dei ricordi di chiunque» dopo aver ammirato la basilica di San Marco o l’arte dei vetrai di Murano. Veneziani insaziabili (non solo a tavola) tanto che «quasi non bastasse il pesce donato dall’Adriatico, l’hanno trovato addirittura nei gelidi e lontani mari del Nord». Ogni citazione del merluzzo, all’anagrafe stoccafisso, qua declinato a baccalà, non è casuale, omaggio anche «alla paziente lavorazione a colpi inferti con un martello di legno per farlo rinvenire e metterlo a nuotare nel latte e nell’olio». Nelle terre serenissime non può mancare l’omaggio al radicchio di Treviso «che ha incantato poeti, scrittori e gastronomi». Nelle fredde brume dicembrine «è simile a un fiore purpureo, carnoso, fresco come se fosse stato inventato apposta perché sulla tavola ci sia sempre la primavera».Donna protagonista con la massaia ligure, laddove «la sua cucina ha un aspetto molto intimo abituata com’è, da secoli, a passare il tempo in cucina nella tiepida attesa del ritorno dell’uomo dal mare». Passaggi che ricordano il miglior Mario Soldati. Come non citare il pesto? «Talmente identitario, dall’aroma caratteristico, che riesce a farsi distinguere da quello acre e pungente della salsedine». Qui arriva il tocco sapiente a dimostrare che cucina è anche cultura, testimone di storia e storie di uomini: «Era il suo sentore che, sotto le mura di Gerusalemme, faceva riconoscere a tutti i crociati gli accampamenti dei genovesi». E poi c’è la poesia: «Genova di basilico è piena. Fa capolino da ogni finestra, messo a coltivazione nei vasi, nelle pentole vecchie, nelle scatole di conserva vuote, con lo stesso spirito che gli altoatesini applicano all’ornare di gerani le loro finestre e balconi». Quando la narrativa si abbina al flash back della visione e della memoria, a dimensione di turista curioso.Scendendo in terra emiliana, impossibile non citare tagliatelle e tortellini. Le prime leggenda racconta che siano state inventate nel 1502 da un cuoco di Bentivoglio, Mastro Zaffirano, per le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d’Este, duca di Ferrara, «che si ispirò alle lunghe e meravigliose chiome bionde della sposa». Se uno va a vedere il di lei ritratto del Pinturicchio, il paragone c’azzecca. Eros e cucina, in Emilia, binomio inscindibile a tutto menù, e la conferma arriva dai tortellini. Mitologia racconta che, una notte, Venere, Marte e Bacco, si concessero un banchetto luculliano, prodromo di una notte afrodisiaca senza limiti. Sul fare dell’alba, la regina delle dee fu lasciata sola e «al mattino il cuoco della trattoria, vedendola splendere vestita solo della sua bellezza, creò il tortellino dalle forme ispirate al suo ombelico». «Primogenito di una dinastia» cui seguirono i parmensi tortelli d’erbetta, i ravioli modenesi come i cappelletti reggiani. L’eros della staffa con la salama da sugo ferrarese «che gli estensi consideravano un perfetto afrodisiaco». Vien da provare per credere… avendo conferma dell’ispirazione che Ada Boni ha dichiarato palese sin dall’inizio, ovvero che, per la brava madre di famiglia, «la cucina deve essere ancor prima un piacere che un dovere», da condividere alla tavola che riunisce tutti, genitori e figli, senza preclusioni per nonni e nipoti.Dalla gaudente Emilia alla Toscana schietta il passo è breve. «Il toscano ha uno spirito caustico che non lascia nulla all’immaginazione, ma punta all’essenziale», tanto che «se in Emilia far della cucina è una passione, un piacere quasi sensuale, in Toscana è un’arte, quel tipo di arte sobria e lineare che ha reso Firenze famosa nel mondo». Ed ecco, allora, la fiorentina, «carne viva che crogiola nel fumo appena posata sulla griglia, come l’olio, «il più prezioso prodotto dei campi», o i fagioli, «che i più raffinati mettono a cuocere come un tempo nella fiasca». La romana Ada Boni arriva nella sua terra. Si respira storia e poesia. «La nostra cucina ha il suo segreto nella campagna laziale, zone di origine vulcanica, piene di depositi minerali che danno alla terra una riserva di vitalità che accentua ed esalta il sapore dei suoi prodotti». I carciofi sono un esempio per tutti. E che dire degli ovini, «le cui greggi, da secoli, fanno da contorno inimitabile alle rovine delle antiche glorie romane»? Sarà dall’eredità dei Cesari che poi «fanno un po’ la parte dei padroni sulla tavola», con svariate riletture a iniziare dai classici abbacchi. La narrazione assume i ritmi di celluloide del miglior Vittorio De Sica nella descrizione di come i carretti portavano le botti di frascati dai colli sino all’Urbe. «Viaggiavano una notte intera» con le strade illuminate dalle loro lampade. Ma il bello arriva adesso: «I guidatori sonnecchiavano stesi sui barili in compagnia di un piccolo cane bastardo, appoggiando la testa in una nicchia formata da rami d’albero rivestiti da pelle di pecora». Neanche il miglior sommelier saprebbe creare tale incanto davanti al calice. Della cucina romana tutti conoscono l’amatriciana o la cacio e pepe, ma pochi possono sapere che «la zuppa di rane era una vera panacea, specie nelle affezioni di petto e nelle convalescenze da malattie infiammatorie».In Abruzzo, grazie ad Ada Boni, scopriamo la panarda, un colossale pranzo che affonda le radici nei riti pagani, con un ritmo incalzante che va dal mezzodì sino a notte fonda. È un viaggio che prosegue con colori vivaci rendendo al meglio la vivacità di luoghi e persone. Una delle pennellate d’autore è riservata alla Puglia: «Per secoli dominio dei pastori, all’arrivo del grano prese l’aspetto di un enorme tovaglia a zone verdi e d’oro, grazie al grano e agli ortaggi». Il saluto finale alla Sardegna, dove il pane «è il capolavoro della donna sarda», quello che si portano via i loro pastori, ricordo di casa nei lunghi mesi di lontananza al pascolo.
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